Conferenza Regioni
e Province Autonome
Doc. Approvato - La Manovra e i Ddl "carta autonomie" e"carta doveri P.A."

giovedì 24 giugno 2010


in allegato il documento in formato pdf

CONFERENZA DELLE REGIONI E DELLE PROVINCE AUTONOME

10/044/CR5a/C1

ESAME DEI PROFILI ISTITUZIONALI DEL D.L. 31 MAGGIO 2010, N. 78 “MISURE URGENTI IN MATERIA DI STABILIZZAZIONE FINANZIARIA E DI COMPETITIVITÀ ECONOMICA”, COORDINATO CON I DISEGNI DI LEGGE IN MATERIA DI CARTA DELLE AUTONOMIE E SEMPLIFICAZIONE E CARTA DEI DOVERI DELLA P.A.

PREMESSA

Le Regioni, in primo luogo, evidenziano le perplessità sulla sostenibilità finanziaria della manovra appena varata e sottolineano la necessità di una sua rimodulazione che distribuisca equamente tra tutti i comparti dello Stato la percentuale di riduzione dei propri bilanci.

Le Regioni sono ben consapevoli dei sacrifici necessari a far fronte alla peculiare crisi economica che il Paese sta attraversando e per questo sono disponibili, in quanto enti autonomi che costituiscono la Repubblica, insieme allo Stato e agli enti locali, ad approntare qualsiasi azione e strumento utile per farvi fronte.

Tuttavia, i tagli alla spesa pubblica, se non accompagnati da riforme strutturali, potrebbero apparire del tutto inefficaci.

Oltre alla preoccupazione di una disarticolazione del quadro istituzionale, se non corroborato da un quadro strutturale organico di riforme, è anche abbastanza preoccupante che provvedimenti di riforma strutturale, come il disegno di legge c.d. Calderoli (C 3118) e il disegno di legge in materia di semplificazione e carta dei doveri della P.A. (C. 3209), attualmente all’esame del Parlamento, risultino progressivamente svuotati mediante l’anticipazione di singole parti in essi contenute nella manovra appena approvata dal Governo. Ci si riferisce, in particolare, all’art. 14, commi da 25 a 31 (contenenti disposizioni in materia di funzioni fondamentali dei comuni).

Senza considerare quanto incida, o possa incidere, questa manovra, sulla stessa legge n. 42/2009 e, soprattutto, sulla sua concreta attuazione.

Questo approccio metodologico, anche solo da un punto di vista tecnico, potrebbe mettere a rischio la realizzabilità concreta dei disegni complessivi di riforma, e sconfessa il metodo che sinora ha caratterizzato le relazioni istituzionali tra i diversi livelli di Governo, improntate al principio di leale collaborazione; un metodo che si regge su precise fondamenta normative (d.lgs. n. 281/1997), tuttora in vigore ed espressione di principi costantemente ribaditi dalla Corte Costituzionale.

Il coordinamento della finanza pubblica e le competenze regionali.

La consapevolezza della indispensabilità della manovra non significa che le Regioni siano disponibili ad accettare un impianto che, nel suo complesso, sembra porre in serio pericolo la tenuta costituzionale del sistema istituzionale. L’autonomia decisionale e organizzativa riconosciuta dalla Carta fondamentale a regioni ed enti locali risulta fortemente pregiudicata ed il testo non appare sostenibile neppure nell’ottica del più avanzato “coordinamento della finanza pubblica”.

La manovra approvata dal Governo non tiene conto di alcune sentenze della Corte Costituzionale che hanno dichiarato l’illegittimità di norme statali che il legislatore autodefiniva quali principi di coordinamento della finanza pubblica.

È ormai pacifico in giurisprudenza che “è illegittimo imporre alle Regioni nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi di riduzione della spesa che la legge statale ben può prescrivere” (Corte Costituzionale n. 449/2005).

Nella sentenza n. 289/2008 la Corte ha chiaramente affermato che le norme statali che stabiliscono limiti alla spesa pubblica degli enti locali «…possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla seguente duplice condizione:

…che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima
…che non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi».; che le norme statali possono determinare gli strumenti e le modalità per il perseguimento del predetto obiettivo, ma devono lasciare liberi gli enti destinatari di individuare le misure necessarie al fine del contenimento della spesa per consumi intermedi.

È ben vero che nelle pronunce più recenti (sentenza n. 10 e 121 del 2010) il giudice costituzionale ha giustificato un più penetrante intervento statale quando quest’ultimo oltre a rispondere a principi di uguaglianza e solidarietà – e quindi determini un beneficio immediato per i cittadini – rivesta caratteri di straordinarietà, eccezionalità ed urgenza, conseguenti alla situazione di crisi internazionale, economica e finanziaria che ha investito anche il nostro Paese. Tuttavia, proprio la straordinarietà della deroga alle competenze costituzionali impone una valutazione molto stringente, caso per caso, di ciascuna disposizione dalla quale derivi un vulnus all’autonomia organizzativa e finanziaria regionale, sancita dagli artt. 117 e 119 della Costituzione.

La maggior parte delle norme contenute nella manovra – auto applicative per espressa definizionein alcuni casi, o sostanzialmente tali, in altri - non sembrano rispettare i limiti tracciati dalla Corte Costituzionale.

Ci si riferisce, in particolare, alle norme sulla riduzione dei costi degli apparati amministrativi (art. 6) che paiono in contrasto con i principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza 159/2008, in materia di costi della politica, numero e compenso amministratori delle società partecipate. In tale pronuncia, la Corte ha affermato che il legislatore statale non può vincolare regioni e province autonome all’adozione di misure analitiche e di dettaglio, in quanto ciò comporta un’illegittima compressione della loro autonomia finanziaria, dovendosi limitare a stabilire i soli principi fondamentali della materia. La norma dichiarata illegittima prevedeva che “le regioni e le province autonome … adeguano ai princìpi di cui ai commi da 725 a 735 la disciplina dei compensi degli amministratori delle società da esse partecipate, e del numero massimo dei componenti del consiglio di amministrazione di dette società. L'obbligo di cui al periodo che precede costituisce principio di coordinamento della finanza pubblica”. Secondo la Consulta essa non è riconducibile a un esercizio del potere legislativo di determinazione di principi fondamentali perché le norme “che il legislatore statale definisce “principi” e cui il legislatore regionale o provinciale dovrebbe adeguare i compensi e il numero massimo degli amministratori delle società partecipate, in realtà costituiscono normativa particolareggiata e anche in parte eterogenea.

Sulla base delle pronunce richiamate, è quanto meno dubbia la legittimità costituzionale dell’art. 6 della manovra, nonostante escluda l’applicabilità in via diretta a Regioni e Servizio sanitario delle disposizioni in esso contenute. È infatti lo stesso legislatore a qualificare tutte le disposizioni del citato articolo come disposizioni di principio, in quanto tali vincolanti per le Regioni. In realtà, il tenore autoapplicativo delle misure introdotte esclude la loro configurabilità in termini di disposizioni di principio. Altrettanto può dirsi in relazione all’art. 9, comma 28, che qualifica quali principi generali tutte le disposizioni da esso dettate in relazione alla drastica riduzione dei contratti di lavoro flessibile, cui sono tenute ad adeguarsi anche le Regioni.

In questo contesto, le Regioni non solo vengono spogliate delle loro competenze, ma alle stesse vengono sottratte risorse (necessarie all’esercizio di funzioni trasferite con le leggi Bassanini) attraverso la previsione dell’accantonamento di una quota pari al 10% dei trasferimenti erariali di cui all’art. 7 della legge n. 59 del 1997 (Bassanini 1), destinata ad essere successivamente svincolata e riattribuita alle sole regioni che abbiano attuato l’art. 3 del D.L. 2/2010, convertito con la legge n. 42/2010 (Interventi urgenti sul contenimento delle spese nelle Regioni) (il quale prevede che ciascuna Regioni determini le indennità dei consiglieri regionali in misura tale che non eccedano l’indennità massima spettante ai membri del Parlamento) e che “volontariamente” abbiano aderito alle regole dell’art. 6. Modalità, tempi e criteri per l’attuazione di tale previsione saranno stabiliti con Decreto del Ministro dell’economia, semplicemente sentita la Conferenza Stato-Regioni.

Le criticità relative all’art. 6 sono ulteriormente aggravate dall’art. 5, comma 1, laddove quest’ultimo prevede che gli importi corrispondenti alle riduzioni di spesa deliberate dalle Regioni con riferimento al trattamento economico degli organi indicati dall’art. 121 Cost. vengano riassegnati al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato.

Misure sull’organizzazione e in materia di pubblico impiego.

Altrettanto critiche appaiono le misure previste nell’art. 9, a partire dal comma 1, il quale prevede che per gli anni 2011, 2012 e 2013 il trattamento economico complessivo (comprensivo del trattamento accessorio) dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, non possa superare il trattamento in godimento nell’anno 2010, fatto salvo quanto previsto dal comma 17, secondo periodo. Il secondo periodo del comma 17 prevede che “E’ fatta salva l’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale nelle misure previste a decorrere dall’anno 2010 in applicazione dell’art. 2, comma 35, della legge 22 dicembre 2008, n. 203”.

La norma, che si applica a tutti i dipendenti pubblici, compresi quelli regionali, prevede una sorta di “congelamento” dei trattamenti economici. La norma, le cui ripercussioni negative sono del tutto evidenti, ad una interpretazione letterale rischia di produrre effetti sperequativi, non giustificati dalle esigente di contenimento della spesa pubblica: infatti, prendere a riferimento il trattamento economico complessivo che il singolo dipendente ha percepito nell’anno 2010, rischia di penalizzare ingiustamente quei dipendenti che si sono avvalsi di istituti la cui fruizione incide sulla retribuzione (aspettative senza stipendio o a stipendio ridotto) o che hanno percepito una produttività ridotta. L’effetto che verrebbe a crearsi è quello di una forte e ingiustificata disparità di trattamento tra i dipendenti.

Anche il comma 32 appare di dubbia legittimità, nel prevedere che laddove le pubbliche amministrazioni non intendano confermare, alla scadenza, l’incarico conferito al dirigente, anche in assenza di una valutazione negativa, conferiscono al medesimo dirigente un altro incarico, anche di valore economico inferiore. Non si applicano le eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli. Contestualmente viene abrogato l'art. 19, comma 1 ter, secondo periodo, del decreto legislativo n. 165 del 2001, introdotto dal decreto Brunetta.

La previsione in commento segna un ritorno all’arbitrarietà delle scelte dell’amministrazione e si colloca in controtendenza rispetto ai recenti orientamenti giurisprudenziali e rispetto alle modifiche apportate dal decreto Brunetta (che limitava la possibilità di revocare gli incarichi solo ai casi di accertata responsabilità dirigenziale), finalizzate a valorizzare la valutazione del dirigente in ordine alla sua carriera. Poiché sull’illegittimità del meccanismo dello spoils system automatico la Corte Costituzionale si è già pronunciata in relazione agli artt. 97 e 98 Cost, la disposizione in commento solleva dubbi di costituzionalità.

Poiché la disciplina degli incarichi dirigenziali, che non abbiano impatto sulla spesa pubblica, attiene alle scelte organizzative dei singoli enti, detta previsione non si applica alle Regioni né rappresenta per le stesse un principio cui adeguarsi.

Questa norma, come numerose altre rilevanti dal punto di vista istituzionale, andrebbe corroborata da una oggettiva previsione di riduzione di spesa, che la stessa Relazione pone in evidenza come solo eventuale. Anche da questo punto di vista, le Regioni chiedono una riflessione attenta sulle norme che appaiono “neutre” dal punto di vista finanziario, ma molto rilevanti dal punto di vista ordinamentale.

Per l’analisi più puntuale delle disposizioni in materia di organizzazione e pubblico impiego si rinvia alla nota di lettura allegata.

Aspetti ordinamentali relativi alle autonomie locali contenute nel D.L. n. 78/2010 e connesse disposizioni contenute nel d.d.l. c.d. Calderoli

Come già è stato rilevato, il decreto legge 31 maggio 2010 n. 78 contiene, tra le altre, norme che, anticipando disposizioni contemporaneamente inserite nel disegno di legge n. 3118 sulla cosiddetta Carta delle Autonomie, regolano le funzioni fondamentali dei Comuni ed i conseguenti assetti istituzionali, con un impatto ordinamentale rilevantissimo. Si tratta essenzialmente delle norme contenute nell’art. 14

“Patto di stabilità interno e altre disposizioni sugli enti territoriali”, ai commi da 25 a 31.

Il “travaso” ha la sua logica evidente nell’effetto di riduzione della spesa pubblica che queste norme ordinamentali in teoria potrebbero produrre. Questa appare effettivamente l’unica valida ragione, ma già la Relazione tecnica, proprio in relazione ai commi 25-31, riconosce che esse sono volte a razionalizzazione l’esercizio delle funzioni da parte degli enti di più piccole dimensioni, con risparmi però definiti come non quantificabili. Né dalla richiamata Relazione tecnica è possibile desumere alcuna altra valutazione. Anche da questo punto di vista risulta difficilmente giustificabile lo stralcio dal testo Calderoli e la sua anticipazione nella manovra d’urgenza.

Peraltro, anche altre norme del ddl Calderoli erano già state anticipate nella legge 191/2009 e nel decreto-legge 2/2010 come risultante dalla legge di conversione n. 42/2010. Alcune norme (soppressione di province) sono state oggetto di discussione in sede di formulazione definitiva del decreto-legge 78/2010, per trovare poi una loro collocazione nel ddl Calderoli (emendamento del relatore approvato nella seduta di ieri 8 giugno).

Sono state sollevate da più parti molte critiche a questo modo di procedere del Governo, sottolineando come non sia adeguato, e contrasti coi principi costituzionali che regolano le leggi di bilancio, iscrivere simili disposizioni di natura ordinamentale in provvedimenti di manovra finanziaria ed utilizzare lo strumento della decretazione d’urgenza.

In ogni caso, sia che si intenda intervenire solo sulle norme del decreto-legge 78/2010, con emendamenti migliorativi in sede di conversione, sia che si intenda proporre modifiche al ddl Calderoli, la Commissione ribadisce le questioni fondamentali che restano sul tappeto, e che si possono riassumere come segue:

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ruolo centrale delle Regioni nel riordino delle funzioni e nella semplificazione dei livelli istituzionali;

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potestà legislativa regionale nella disciplina delle funzioni fondamentali nelle materie di competenza regionale e dei conseguenti flussi finanziari;

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elenco delle funzioni fondamentali di comuni e province;

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razionalizzazione delle province (accorpamento e/o obbligo di esercizio associato);

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costituzione e funzioni delle città metropolitane;

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potestà legislativa regionale sulle forme associative di comuni e province e sugli ambiti territoriali di esercizio associato;

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norme statali per rendere possibile la tempestiva soppressione di enti intermedi e il trasferimento di funzioni e personale agli enti locali, rendendo tali soppressioni neutrali ai fini del rispetto del patto di stabilità e dei limiti alle spese di personale.

Ciò premesso occorre passare a trattare le questioni più urgenti poste direttamente dalle norme del decreto legge, contenute, come si è visto, nell’art. 14, commi 25-31.

Al riguardo, si rileva che tali disposizioni riproducendo, in linea di massima, i contenuti dell’art. 8 del disegno di legge “Calderoli”, utilizzano tuttavia, per le previste finalità, l’elencazione delle funzioni fondamentali dei Comuni di cui all’art. 21 c. 3 della L. 42/2009 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione).

Il fatto che siano richiamate le sole funzioni fondamentali dei Comuni è evidentemente determinato dalla loro connessione con le modalità di esercizio obbligatorio, cosa che secondo la manovra dovrebbe determinare la razionalizzazione e i risparmi di spesa. E anche sotto questo profilo si sottolinea una disarticolazione del sistema.

Anche ai fini dichiaratamente perseguiti dalla manovra (art. 14 comma 27) questa elencazione è meramente transitoria: ulteriore elemento di incertezza del quadro normativo e dell’assetto istituzionale.

E anche a prescindere da questo, si evidenzia che tali disposizioni finiscono per impattare fortemente sull’esercizio associato delle funzioni fondamentali dei comuni.

Con tali disposizioni, il legislatore statale non si limita a dettare principi generali in materia di esercizio associato delle funzioni fondamentali, ma interviene in modo incisivo imponendo le forme associative (convenzione e unione), senza far salve eventuali diverse previsioni regionali (come previsto, invece, dall’art.8, comma 7 del ddl 3118 – cd. Calderoli In particolare, il comma 28 prevede

l’obbligo di esercizio associato di tali funzioni fondamentali utilizzando come forma associativa esclusivamente le convenzioni oppure le Unioni. L’obbligo riguarda:

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i Comuni “appartenenti o già appartenuti a Comunità montane con popolazione stabilita dalla legge regionale e comunque inferiore a 3.000 abitanti”

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tutti gli altri Comuni con meno di 5000 abitanti.

La norma è scritta in modo ambiguo ma sembra interpretabile nel senso che comunque l’esercizio associato delle funzioni fondamentali non possa essere attribuito alle Comunità montane, ma solo ad Unioni o convenzioni (in verità la convenzione può essere utilizzata anche dai comuni facenti parte di Comunità montane). La soglia dalla quale scatta l’obbligo di esercizio associato è più alta in pianura (5000 abitanti) che in montagna (3000 abitanti), cosa che appare ragionevole.

Le precedenti versioni della manovra stabilivano l’obbligo di gestione associata obbligatoria per tutti i Comuni sotto i 5000 abitanti così in montagna come in pianura; allo stesso modo il ddl Calderoli n. 3118 nel testo emendato dalla prima Commissione fissa il limite dei 5000 abitanti uguale per tutti i Comuni (il testo base iniziale invece fissava come soglia uniforme quella dei 3000 abitanti).

Inoltre, la previsione normativa contenuta nel comma 31 dell’art. 14 della manovra finanziaria appare essere stata formulata in violazione del dettato costituzionale e delle prerogative regionali, in quanto demanda ad un DPCM (da adottarsi di concerto tra più ministeri senza l’intesa con le Regioni ex art. 8 L. 281/97) la fissazione del termine per il completamento dell’attuazione dell’esercizio delle funzioni fondamentali in forma associata e il limite minimo demografico ai fini dell’esercizio associato delle funzioni stesse.

A tal proposito, sembra opportuno richiamare la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, la quale ha più volte ribadito che gli atti regolamentari finalizzati al risparmio di spesa debbono essere adottati d’intesa con le Regioni qualora incidano su materie di competenza residuale regionale ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost. (ex multis cfr. Sent. 27 del 25.01.2010).

La citata disposizione di cui al comma 31, appare peraltro, in contraddizione con il comma 30 del medesimo articolo, laddove prevede che le regioni, con apposita legge, nelle materie di cui all’art. 117 terzo e quarto comma della Costituzione individuano la dimensione territoriale ottimale per lo svolgimento delle funzioni fondamentali ed il termine per l’avvio dell’esercizio delle suddette funzioni in forma associata.

Rispetto al ddl Calderoli si segnala inoltre l’assenza della norma, di cui all’art. 13, che regola la delega al Governo per l’adozione della “Carta delle Autonomie locali” da assumere con decreto delegato. E’ evidente del resto come già anticipato che disposizioni simili, ed in particolare la previsione di una delega legislativa, sono incompatibili con l’adozione dello strumento del decreto legge, che deve invece contenere misure indifferibili ed urgenti.

Mancano inoltre tutte le norme del Calderoli già anticipate dalla manovra finanziaria di fine anno 2009 (l. 191/2009, come modificata e integrata dalla l. 42/2010) relative tra l’altro alla riduzione dei componenti degli organi degli enti locali, all’azzeramento dei fondi alle Comunità montane ed alla soppressione di Circondari, Circoscrizioni etc. Esiste in verità una differenza non piccola tra le previsioni della finanziaria e le norme del Calderoli perché in quest’ultimo i tagli sono strutturali, definitivi e immediati, mentre nella prima hanno decorrenze diverse e talvolta una applicazione limitata nel tempo: sono stati peraltro presentati emendamenti del relatore al ddl Calderoli, di prossima approvazione nella Commissione Prima referente della Camera dei Deputati, che cercano di porre rimedio a tali incongruenze coordinando e mettendo a regime i due interventi legislativi (finanziaria e ddl Calderoli stesso).

Il testo del decreto legge, infine, contiene al comma 32 una norma che fa divieto ai Comuni sotto i 30.000 abitanti di costituire società. Entro il 31 dicembre 2010 i Comuni cedono o mettono in liquidazione le società già costituite, a meno che la partecipazione non sia paritaria, ovvero costituita da più Comuni la cui popolazione complessiva superi i 30.000 abitanti (questa è una novità che non era presente nel testo originario. ) I comuni con popolazione compresa tra 30.000 e 50.000 abitanti possono detenere la partecipazione di una sola società.

Razionalizzazione delle Province

Da ultimo, in relazione al tema della soppressione delle piccole Province inizialmente previsto dalle prime bozze circolate del decreto legge si segnala che lo stesso tema è stato reimpostato nell’ambito del ddl Calderoli (come richiesto dall’UPI nazionale nel suo o.d.g.) attraverso la presentazione, nella seduta del 3 giugno scorso alla Commissione Prima della camera in sede referente, di un emendamento del relatore, Donato Bruno, che modificando l’originario testo dell’art. 14 del disegno di legge ripropone una procedura di soppressione delle Province con meno di 200.000 abitanti (dati ISTAT 2009) .

Pur condividendo la necessità di riordino e semplificazione istituzionale, si chiede che tale processo debba avvenire in modo da determinare condizioni di reale economicità ed efficienza, rispettosa di un metodo condiviso e soprattutto secondo la procedura di cui all’art.133 della Costituzione, nell’attuale proposta emendativa non rispettato. In relazione a tali ragioni, l’emendamento non è condiviso.

Roma, 24 giugno 2010

 

doc.cr.p.05a_.ddlcalderoli.pdf