Conferenza Regioni
e Province Autonome
Doc. Approvato - Ambiente: decreto delegato
Conferenza Regioni
e Province Autonome
giovedì 26 gennaio 2006
ORDINE DEL GIORNO
Le Regioni con riferimento allo schema di decreto delegato attuativo della L 308/2004
- considerato che nella seduta della Conferenza Unificata del 15 dicembre le Regioni avevano richiesto il rinvio dell’espressione del parere, per consentire gli ulteriori e necessari approfondimenti tecnici, tenuto conto che i materiali completi erano stati consegnati soltanto il 7/12;
- visto che tale richiesta, a cui avevano aderito anche le Autonomie, non avuto seguito alcuno e che anzi il Governo, anziché convocare tempestivamente una nuova seduta di Conferenza Unificata per consentire l’espressione del parere, ha proceduto nell’ulteriore iter di approvazione del provvedimento, non tenendo conto né delle obiezioni di metodo né di quelle di merito, sollevate nelle sedi istituzionali;
- considerato che lo schema di decreto legislativo in oggetto, qualora approvato, avrebbe un impatto drammatico sul corpus normativo delle Regioni, determinando problemi di certezza del diritto e la sostanziale paralisi dell’azione pubblica in campo ambientale, data l’incompatibilità delle norme regionali vigenti con quelle dello schema di decreto in assenza di norme transitorie e di salvaguardia;
- considerati infine i profili di manifesta incostituzionalità dello schema di decreto, rimasto inalterato nella sostanza anche nella versione approvata dal Consiglio dei Ministri il 19/1/06 e pesantemente aggravata per la parte della difesa del suolo, dove, a fronte dell’invito delle Commissioni di Camera e Senato di riconoscere alle Regioni il loro ruolo istituzionale (solo parzialmente accolto), sono stati precipitosamente designati gli ambiti territoriali delle otto nuove Autorità di bacino distrettuale, senza nessun coinvolgimento delle Regioni, anzi disponendo la soppressione pressoché immediata, entro fine aprile, delle attuali Autorità di Bacino
- considerati infine i gravi profili di illegittimità denunciati da un grande numero di personalità del mondo scientifico e accademico, che hanno condiviso i rilievi delle Regioni, degli Enti locali e delle associazioni economiche, sindacali, ambientali
ESPRIMONO
Parere negativo sullo schema di decreto legislativo attuativo della Legge 308/2004, sia nel merito sia per il metodo, come diffusamente argomentato nell’allegato documento (allegato tecnico).
Roma, 26 gennaio 2006
SCHEMA DI DECRETO DELEGATO ATTUATIVO DELLA LEGGE 15 DICEMBRE 2004 N. 308 “DELEGA AL GOVERNO PER IL RIORDINO, IL COORDINAMENTO E L’INTEGRAZIONE DELLA LEGISLAZIONE IN MATERIA AMBIENTALE E MISURE DI DIRETTA APPLICAZIONE”.
Premessa
Il metodo istituzionale
Il Ministro Matteoli ha inviato alla Conferenza dei Presidenti il testo del decreto delegato in materia ambientale, così come sottoposto al Consiglio dei Ministri che lo ha approvato in prima lettura il 18 novembre 2005 e in seconda lettura il 19 gennaio 2006 a seguito del rinvio con prescrizioni da parte delle Commissioni parlamentari. La legge delega prevede poi che sul testo esprima parere la Conferenza Unificata.
L’intervenuta approvazione del Consiglio dei Ministri rompe di fatto l’accordo firmato il 4 ottobre 2001 fra il Ministro Matteoli, le Regioni, l’A.N.C.I. e l’U.P.I. nel quale le parti avevano concordato di “operare pariteticamente nell’elaborazione legislativa ai fini di conseguire gli obiettivi condivisi e garantire una interlocuzione sistematica con le Regioni e gli Enti locali nella fase preliminare ed in quelle successive sui singoli temi dell’elaborazione dei decreti legislativi previsti dal disegno di legge delega.”
L’approvazione dello schema di decreto si configura come atto unilaterale del Governo, che viola il principio della leale collaborazione tra le istituzioni e costituisce una scelta centralistica. L’assenza di un tavolo di confronto tra Ministero e Regioni, con i tempi congrui che sarebbero necessari, impedisce alle Regioni stesse e al sistema delle autonomie locali lo svolgimento di un lavoro collegiale e complessivo di analisi e proposta.
I punti di criticità, nonché l’impostazione del decreto, sono tali da non rendere possibile una ricomposizione del testo mediante l’apporto di specifici emendamenti, in quanto gran parte del testo proposto:
contrasta con diverse direttive comunitarie
viola, per eccesso di delega, la stessa legge delega 308/2004;
stravolge l’assetto delle competenze definite dall’art.117 e 118 Costit. e dal decreto legislativo 112/1998 consolidate da numerose pronuncie della Corte Costituzionale.
E l’eventuale adesione delle Regioni comporterebbe una corresponsabilità nelle suddette violazioni.
Le conseguenze di una eventuale definitiva approvazione di questo atto unilaterale e centralistico sarebbero quelle di indebolire le politiche ambientali nel nostro Paese e la loro coerenza con le direttive dell’Unione europea, nonché quelle di determinare l’abbassamento dei livelli di tutela dell’ambiente e della salute a danno di tutti i cittadini senza, peraltro, che a questo possa corrispondere l’auspicata semplificazione delle procedure e dei processi attuativi per gli operatori e le imprese.
Ulteriore grave conseguenza sarebbe quella di determinare la totale paralisi dell’azione delle Regioni e degli Enti locali in campo ambientale data all’incompatibilità delle norme regionali vigenti con quelle dello schema di decreto.
L’approccio metodologico generale
La versione degli elaborati attuativi della legge delega in materia ambientale, rispetto ai precedenti testi informalmente diramati, presenta la novità di accorpare in un unico decreto legislativo tutte le norme relative ai comparti di materia oggetto della delega stessa, con la sola eccezione della gestione delle aree protette, conservazione e utilizzo sostenibile degli esemplari di specie protette di flora e di fauna.
Ne consegue un voluminoso corpus juris di 318 articoli e 45 allegati, per un totale di oltre 700 pagine, e recante il titolo di “Norme in materia ambientale”, elaborato in totale assenza di un qualsiasi confronto con le istituzioni competenti in materia e che non solo conferma, ma anzi aggrava le perplessità espresse sin dall’inizio.
Il prodotto dell’elaborazione della Commissione dei 24 saggi costituita ai sensi della legge di delegazione n. 308/2004, contrariamente a quanto preannunciato nel titolo della stessa legge, non si limita a coordinare, riordinare o integrare la normativa dei diversi settori di cui si compone la materia ambientale, ma mina le fondamenta su cui poggia l’attuale impianto normativo, senza peraltro fornire gli elementi per l’organizzazione di un diverso sistema, coerente con il quadro costituzionale e aderente ai principi comunitari in materia di tutela ambientale.
L'obiettivo generale e l’azione concreta e l’esperienza delle Regioni e degli enti locali in questi anni sono stati quelli di ricondurre le questioni della tutela dell’ambiente, sia negli aspetti della tutela dagli inquinamenti, sia negli aspetti della tutela delle risorse naturali e di preservazione degli equilibri ecologici, al criterio di prevenzione ed a quello di sostenibilità dello sviluppo, in stretta connessione con le politiche settoriali e col governo del territorio.
Solo una acquisizione nelle politiche settoriali e nel governo del territorio delle problematiche di tutela ambientale può garantire infatti il successo e la compatibilità economica di una politica ambientale.
Emerge viceversa dal complesso delle norme proposte una serie di elementi che inducono a considerare l’intervento una vera e propria opera di smantellamento delle iniziative che nel corso di questi ultimi anni sono state assunte, come nel caso della normativa adottata dalle Regioni in attuazione del d.lgs. 112/1998. Questa impostazione peraltro è rimasta sostanzialmente invariata anche nella seconda stesura dello schema di decreto.
Si spostano competenze dalla periferia al centro, si sovrappongono e duplicano funzioni e piani, si separano settori che al contrario necessitano da tempo di integrazione, si aggiungono a valle dei processi decisionali altre decisioni e funzioni di controllo, che nell’insieme e nel dettaglio configurano un quadro involutivo rispetto all’attuale, aumentando l’incertezza degli operatori pubblici e privati, annullando processi regionali e locali di grande valore e di riconosciuta efficacia, allontanando l’allineamento del nostro Paese alla disciplina ed al livello europeo.
Lo schema di decreto continua quindi ad essere caratterizzato da una spiccata tendenza neocentralista, che comprime le competenze delle istituzioni regionali e locali per assegnare soprattutto al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio un ruolo, anche minutamente gestionale, antitetico al principio di sussidiarietà ed adeguatezza, anche con riferimento alle prerogative delle Regioni e Province autonome per le quali deve essere prevista la nota “clausola di salvaguardia”.
Il mero assemblaggio materiale di singoli testi nati separatamente non consente poi di ritenersi di fronte ad una “normativa in materia ambientale” in quanto non sussistono i presupposti per considerare tale disciplina un corpo unitario di norme, difettando un nucleo fondamentale di disposizioni di principio comune alle diverse discipline settoriali.
Nell’elaborazione del testo l’Esecutivo statale si è infatti abbandonato ad una minuziosa disciplina di dettaglio, mentre un corretto approccio metodologico avrebbe richiesto, da un lato, la costruzione in questa materia soprattutto di un “diritto per principi”, poiché solo questi ultimi sono in grado di guidare in modo trasversale e coordinato i vari settori delle discipline giuridiche coinvolte, e dall’altro il necessario coinvolgimento sin dalla fase di elaborazione della normativa di tutti i livelli territoriali di governo secondo il principio di corresponsabilità e di leale collaborazione.
Nel ritenere pertanto necessario un ripensamento complessivo della materia che veda il contributo effettivo e sostanziale delle Regioni nella fase ascendente di elaborazione dei decreti, si evidenziano di seguito gli aspetti giuridicamente più rilevanti che inficiano nel suo complesso e radicalmente il contenuto del decreto delegato e che ricorrono ripetutamente in una pluralità di previsioni e in ciascuna delle parti dedicate alle distinte normative settoriali.
Profili di illegittimità costituzionale
Il decreto delegato presenta rilevanti profili di incostituzionalità dovuti ad una generalizzata esorbitanza rispetto ai principi e criteri direttivi posti dalla legge di delegazione che, alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, “costituiscono non solo il fondamento ma anche il limite delle norme delegate e un criterio per la loro interpretazione” [1].
Lo schema di decreto appare innanzi tutto viziato sotto questo profilo poiché, mentre la legge 308/2004 delegava il Governo ad emanare uno o più decreti di “riordino, coordinamento od integrazione” in una serie specifica di settori puntualmente individuati, ci si trova in realtà di fronte ad un vero e proprio testo innovativo che, per essere tale, avrebbe dovuto trovare nella legge delega la sua fonte di legittimazione espressa [2].
Nel caso de quo il Governo è andato ben oltre a quanto disposto dal Parlamento, non essendosi limitato ad operare una ricognizione delle norme vigenti, a coordinarle tra loro, ad integrarle per quanto necessario ai fini della loro coerenza ed organicità ed a raccoglierle in un testo omogeneo, avendo bensì apportato modifiche sostanziali alla disciplina vigente ed inciso significativamente non solo sul riparto di competenze tra Stato e Regioni, ma addirittura sulla natura, struttura e funzioni di alcune istituzioni od organismi.
Con particolare riferimento al principio di sussidiarietà, individuato dalla legge delega tra i principi fondamentali ai quali i decreti attuativi dovevano ispirarsi, insieme al rispetto del quadro costituzionale delle competenze, l’attuale decreto opera quindi un tentativo di riappropriazione a livello centrale di funzioni e compiti conferiti alle Regioni e da queste agli enti locali, nell’ambito del processo di decentramento amministrativo attuato con le leggi Bassanini.
Alla luce del delineato quadro costituzionale emergono con evidenza una pluralità di ipotesi di sconfinamento rispetto ai limiti fissati nella delega ed in ragione dei quali il decreto delegato risulta radicalmente inficiato di incostituzionalità, per le ragioni illustrate nell’allegato documento in cui sono esemplificate le più rilevanti ipotesi di violazione dell’articolo 76 Cost. rilevate nelle singole disposizioni.
La legge 308/2004 pone infatti tra i principi della delega legislativa:
a) il rispetto delle competenze per materia delle amministrazioni statali, nonché delle attribuzioni delle regioni e degli enti locali, come definite dall'articolo 117 della Costituzione, dalla legge 59/1997 e dal decreto legislativo 112/1998;
b) la riaffermazione del ruolo delle regioni, ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione, nell'attuazione dei principi e criteri direttivi definiti dallo Stato.
Sotto il profilo della funzione legislativa, è comune opinione che vi sia una continuità nell’assetto delle competenze costituzionalmente garantite in materia ambientale cui lo Stato avrebbe dovuto attenersi secondo i criteri elaborati, ante e post la novella del 2001, dalla giurisprudenza della Consulta e nello specifico:
a) il riconoscimento dell’ambiente come "valore" costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia trasversale, in ordine alla quale si manifestano competenze regionali, spettando allo Stato le sole determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale[3];
b) l’affermazione dello spirito di corresponsabilità e di leale collaborazione, che deve informare i rapporti interistituzionali per garantire l’effettività della tutela attraverso un approccio alle tematiche delle politiche ambientali che, coinvolgendo tutti gli enti esponenziali delle peculiarità territoriali, possa tener conto della complessità del tema[4];
c) l’ampia applicazione del principio di sussidiarietà, di matrice europea, rapportando gli interventi alla dimensione territoriale degli interessi e all’individuazione del livello ottimale di allocazione delle diverse funzioni.
Nel decreto legislativo in esame non si rinviene invece traccia alcuna della sintesi dei sopra evidenziati elementi, sintesi che avrebbe dovuto informare il riordino della normativa ambientale al principio di unitarietà e contestualmente a quello di differenziazione.
Il principio dell’unitarietà giustifica infatti in questo settore l’intervento della competenza legislativa esclusiva statale per fini di uniformità ed omogeneità strategica, nonché per la definizione degli standard minimi delle misure di protezione, mentre il principio di differenziazione impone l’intervento della legislazione regionale e dell’azione degli altri livelli del governo locale per adattare gli interventi di tutela ai diversi contesti territoriali e introdurre, se del caso, misure più rigorose di quelle previste al livello superiore .
Secondo il giudice costituzionale inoltre la competenza statale in tema di tutela dell’ambiente, incidendo su una pluralità di interessi e di oggetti, in parte di competenza esclusiva dello Stato, in parte di competenza concorrente delle Regioni, non può comprimere la concomitante possibilità per le Regioni di intervenire nell’esercizio delle loro competenze in tema ad esempio di tutela della salute, politica del territorio, difesa del suolo, energia, innovazione tecnologica, agricoltura, trasporti, salute, ovviamente nel rispetto dei livelli minimi di tutela apprestati dallo Stato e dell’esigenza di non impedire od ostacolare gli interventi statali necessari per la soddisfazione di interessi unitari, eccedenti l’ambito delle singole Regioni.
Anche la scelta compiuta dal legislatore delegato in ordine alla ridistribuzione delle competenze amministrative comprime radicalmente la sfera di intervento delle Regioni e delle Autonomie locali favorendo un deciso accentramento dei poteri a livello ministeriale non giustificato da esigenze di trattamento unitario degli interessi coinvolti: l’esatto inverso di un corretto principio di sussidiarietà e partecipazione delle comunità locali nel governo della materia .
L’art. 118 cost. prevede infatti in proposito che “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”.
Ponendosi in contrasto con l’art. 118 Cost., in ambito pianificatorio i vincoli stabiliti in sede ministeriale ledono irreversibilmente le potestà regionali in ordine alla definizione degli indirizzi e all’organizzazione dei sistemi di governo delle attività rilevanti nei diversi settori della materia ambientale, mentre le Province vengono esautorate delle funzioni di programmazione dei sistemi di governo e di coordinamento delle politiche dei propri Comuni.
La parcellizzazione delle responsabilità dei compiti e delle potestà di approvazione, autorizzazione e di controllo che si riscontra nel testo in esame creano inoltre un percorso ad ostacoli per la gestione dei servizi agli utenti e non consentono di identificare con precisione soggetti titolari delle funzioni, in sostanza deresponsabilizzando questi ultimi anche nel delicato ambito dei poteri di vigilanza, di accertamento e di repressione degli abusi.
Lo schema di decreto delegato appare inoltre viziato anche per quanto riguarda i principi generali disposti dalla normativa vigente per il recepimento delle direttive comunitarie.
Sotto il profilo ad esempio dell’attuazione della direttiva 2000/60/CE, autorevole dottrina ha già osservato che la stessa formava oggetto di delega nell’ambito della Legge comunitaria 2003 che assegnava al Governo diciotto mesi per esercitare la delega, termine ormai ampiamente scaduto.
La legge n. 308/2004 non ha tuttavia rinnovato la delega al Governo per recepire tale direttiva e, d’altro canto, non si può ritenere esaustivo in tal senso quanto previsto dalla stessa all’articolo 1, comma 8, lett. e), che impone quale criterio ispiratore dei decreti delegati quello di “dare piena e coerente attuazione delle direttive comunitarie”.
Tale criterio è posto infatti per le direttive già recepite e non certamente per quelle non ancora trasfuse nell’ordinamento interno, stante la obbligatorietà della previa delega del Parlamento.
In una pluralità di disposizioni la disciplina del decreto si pone inoltre in contrasto con le previsioni della normativa comunitaria e con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, determinando in tal modo una palese violazione dell’articolo 117, comma 1 della Costituzione che prevede che lo Stato eserciti la propria potestà legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Di seguito si riporta una forma analitica sui profili più rilevanti dello schema di decreto, proposto per ciascuna parte:
CONSIDERAZIONI SULLA PARTE II PROCEDURE IN MATERIA DI VIA VAS IPPC
1. Considerazioni generali e sul Titolo I "NORME GENERALI".
Una prima osservazione riguarda il fatto che, nonostante il titolo “ Decreto delegato in materia di VAS, VIA ed IPPC”, in pratica di IPPC non vi è quasi traccia nel testo, essendo la materia trattata solo all'art 34 ("Relazioni tra VIA e IPPC"), nel Capo I ("Disposizioni comuni in materia di VIA") del Titolo III ("Valutazione di Impatto Ambientale - VIA").
Non viene specificato che per l’IPPC rimangono valide le disposizioni del recente D. Lgs. 59/2005 (come si ritiene nelle intenzioni degli estensori, non essendo tale decreto abrogato).
Ciò può ingenerare confusioni e conflitti, vanificando gli obiettivi di coordinamento e semplificazione posti alla base di questi Decreti.
Una seconda osservazione riguarda la erronea assimilazione della disciplina relativa alla VAS a quelle relative alla VIA ed all’IPPC – (nota in Italia come “Autorizzazione Integrata Ambientale”).
Questa assimilazione tradisce lo spirito e la lettera della Direttiva europea relativa alla VAS – (Direttiva 2001/42/CE). Soprattutto non considera le diversità di finalità e di funzione insite nelle diverse procedure come definite nelle direttive europee (che individuano differenti e ben distinti compiti ed attività assegnati alle autorità pubbliche per le 3 diverse procedure).
Questa assimilazione, inoltre, rappresenta un aggravio e una complicazione dei procedimenti per quanto concerne i piani e i programmi.
In sostanza, al di la del comune obbiettivo di raggiungimento di elevati livelli di protezione dell’ambiente assegnati alle 3 procedure (VAS, VIA e IPPC), i lavori e le attività da svolgere sono differenti e difficilmente intercambiabili.
La previsione di un unico articolo di “Definizioni”(art. 5) per le tre procedure: VAS; VIA; IPPC rafforza la scelta della erronea assimilazione delle discipline relative a VIA, VAS ed IPPC.
Ciò implica alcuni livelli aggiuntivi di confusione, poiché le stesse definizioni si applicano a situazioni (giuridiche e fattuali) diverse, in particolare in relazione alle diverse, e mantenute vigenti, definizioni del D. Lgs. 59/05 in materia di IPPC. Infatti, le definizioni dell'art. 5 valgono anche per l'IPPC, ma mancano quasi tutte quelle necessarie per tale materia (ad esempio: quelle di "impianto", di "gestore" e di "migliori tecniche disponibili") e che sono invece previste dal D. Lgs. 59/05 che non è abrogato.
Inoltre, rispetto ad un tema, molto delicato (la informazione e la partecipazione dei cittadini), si ritrovano 3 definizioni diverse (“pubblico”, “pubblico interessato” e “soggetti interessati”), cui non sempre nel testo si fa riferimento, e di cui non è chiara la definizione di differenti interessi rispetto alle procedure (VAS; VIA; IPPC).
La previsione dell’art. 5, comma 1, lett. e), secondo cui le procedure di VIA si applicano ai “progetti preliminari”, senza prevedere correlativamente un obbligo automatico di sottoposizione a VIA dei successivi progetti definitivi che contengano modifiche progettuali o nell’utilizzo delle risorse naturali o nelle immissione di inquinanti, appare in contrasto con le disposizioni delle Direttive 85/337/CEE e 97/11/CE.
La previsione di una unica commissione tecnico-consultiva nazionale (art. 6) composta da 78 membri (più 1 presidente e 3 vice - presidenti) rafforza la scelta della erronea assimilazione delle discipline relative alla VIA, alla VAS ed all’IPPC. Tale Nuova Commissione sostituisce anche la Commissione VIA Speciale istituita dall’art. 19, commi 2 e 3, del D. Lgs. 190/2002 per le opere “strategiche nazionali”, individuate ai sensi della legge 443/2001, c.d. “Legge Obiettivo”.
A tale unica commissione tecnico-consultiva nazionale compete la istruttoria della VAS, della VIA e della IPPC, anche se i lavori e le attività da svolgere sono differenti e difficilmente intercambiabili.
Inoltre l’art. 6, comma 6, prevede che la Commissione sia integrata, per ogni Sottocommissione (rispettivamente per: VAS; VIA; IPPC), da un esperto designato da ciascuna Regione direttamente interessata e delinea un ruolo circoscritto per l’“esperto” regionale. Tale previsione appare fortemente limitativa della specifica responsabilità del rappresentante regionale. Inoltre l’attribuzione del ruolo di “esperto” non risponde pienamente alla censura (sentenza n. 303/2003) della Corte Costituzionale sulla mancata piena integrazione (punto 16 della parte dispositiva della sentenza) di rappresentanti regionali nella Commissione VIA speciale relativa alle opere della “Legge Obiettivo”.
Va, inoltre, rilevata l’assenza tra gli obiettivi della parte seconda del decreto in esame [art. 4, comma 1, lettera b)] dell’importante obiettivo di integrazione della procedura di valutazione di impatto ambientale con le procedure esistenti di autorizzazione dei progetti, esplicitamente richiamato dalla direttiva 85/337/CEE, al pari del coordinamento con la procedura IPPC.
Va, infine, rilevato che la limitazione della valutazione ambientale solo ai piani e programmi "statali, regionali e sovracomunali", prevista dall'art. 4, comma 1, lett. a), terzo alinea, della parte seconda del decreto in esame, si pone in contrasto con le disposizioni dell'art. 3 ("Ambito di applicazione") della Direttiva 2001/42/CE.
2. Considerazioni sul Titolo II "VALUTAZIONE AMBIENTALE STRATEGICA - VAS"
Il Titolo II del Decreto delinea una procedura di VAS assimilata “erroneamente” a quella di VIA, senza tenere in debita considerazione le differenze sostanziali dei due processi decisionali.
In particolare, senza tenere conto delle differenze stabilite per i due differenti strumenti nelle Direttive europee.
Al riguardo basta ricordare che la proposta di Direttiva avanzata dalla Commissione (GU C 129 del 25 aprile 1997, pag. 14, e GU C 83 del25 marzo 1999, pag. 13) lasciava alla decisione dei singoli Stati membri se prevedere la VAS:
1. come procedura di ulteriore autorizzazione (dal punto di vista ambientale) del piano o programma;
oppure
2. come processo di integrazione delle tematiche ambientali nella procedura di approvazione del piano o programma.
La Direttiva 2001/42/CE, approvata ed oggi vigente, ha compiuto la scelta di prevedere la “Valutazione Ambientale” dei piani e programmi come processo di integrazione delle tematiche ambientali nella procedura di approvazione del piano o programma, eliminando l’ipotesi di una ulteriore procedura di autorizzazione per i piani e programmi.
La vigente Direttiva 2001/42/CE prevede (sottolineando ed insistendo con molte disposizioni sul tema) una fortissima integrazione tra tematiche (ed autorità) ambientali e tematiche (ed autorità) dei settori interessati.
La VAS infatti non riguarda un iter autorizzativo, ma concerne un processo decisionale della pubblica amministrazione che, partendo da un determinato quadro normativo, da un certo contesto socio - economico, territoriale ed ambientale e confrontandosi con la società, compie scelte ed assume decisioni.
La Direttiva delinea un percorso in cui questa caratteristica del procedimento risulta evidente.
Il Titolo II del Decreto individua, all'opposto, un iter in cui la valutazione ambientale e la pianificazione/programmazione non si intersecano realmente, ma rimangono come fasi consequenziali e sostanzialmente separate.
Infatti, prevede che venga emesso un “giudizio di compatibilità ambientale” su un piano o un programma (a cui il piano o programma deve obbligatoriamente adeguarsi) da un soggetto diverso (senza, peraltro, prevedere la necessità di confronto con l’ente che predispone e che approva il piano o programma).
In sostanza, viene configurata una procedura di tipo “command and control”, proprio rispetto ad un ambito di applicazione (piani e programmi) che, meno di altri, può adeguarsi e sopportare una mera procedura autoritativa.
Ciò é tanto più grave se si pone mente al fatto che gli orientamenti europei, innanzitutto per le tematiche ambientali, delineano procedure amministrative incentrate sui criteri di “integrazione”, responsabilizzazione” e “sussidiarietà” anche in quelle tradizionalmente basate su procedure autoritative di tipo “command and control”.
Se la valutazione ambientale non arricchisce il processo di pianificazione/programmazione essa si configura solo come un aggravio ed un irrigidimento procedurale.
In particolare, è del tutto evidente che la previsione di un giudizio di compatibilità ambientale consegna un enorme potere, di ingerenza e di veto, alla “autorità competente”; in primo luogo al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio nei confronti di tutti gli altri Ministeri.
Tutto ciò è aggravato dalla estensione (prevista dall’art. 7, comma 3), oltre quanto previsto dalla direttiva europea, della VAS a “i piani e programmi … contenenti la definizione del quadro di riferimento ... per la realizzazione di opere ed interventi i cui progetti, pur non sottoposti a VIA, … possono tuttavia avere effetti significativi sull’ambiente a giudizio della sottocommissione competente alla VAS”.
Sulla base di tale disposizione nessun piano o programma può quindi essere escluso dalla VAS.
Inoltre questa norma evidenzia che tale giudizio della sottocommissione vale non solo per i piani e i programmi statali, ma anche per quelli regionali e degli enti locali, configurando una indebito trasferimento di competenze e delineando un modalità di funzionamento sicuramente poco efficiente, ma altamente centralizzante e gerarchicizzante.
L’art. 12, comma 2, prevede che, in sede di esercizio del potere sostitutivo da parte del Consiglio dei Ministri, si intende, in caso di inutile decorso del termine di 60 giorni, emesso giudizio negativo sulla compatibilità ambientale del piano o programma sottoposto a VAS di competenza statale e che tale disposizione si applica anche ai piani e programmi sottoposti a VAS di competenza regionale fino all’emanazione di apposite norme regionali.
Tale previsione, implica il rischio che numerosi piani e programmi abbiano un giudizio negativo di compatibilità ambientale solo a causa della scadenza dei termini, con la conseguente non approvazione del piano o programma. Ciò è grave in considerazione del fatto che l'esistenza di piani e programmi vigenti è particolarmente importante per orientare l'azione della pubblica amministrazione dell'economia e della società.
Questo impianto del Titolo II del Decreto manda in crisi qualsiasi impostazione che privilegia la responsabilità dell’autorità competente alla approvazione del piano o programma, propria della Direttiva 2001/42/CE.
La Direttiva 2001/42 sottolinea fortissimamente il ruolo della partecipazione alla VAS di tutte le autorità “ambientali”; ruolo che nel titolo II della parte seconda del decreto in esame semplicemente è assente.
La Direttiva prevede, inoltre, la messa a disposizione di tutti (pubblico e soggetti istituzionali) di una dichiarazione di sintesi in cui vengono esplicitate e motivate le ragioni ambientali delle scelte di piano o programma, oltre che indicato in quale considerazione sono state tenute osservazioni, pareri e contributi, frutto di una reale ed efficace attività di consultazione/partecipazione.
Ulteriore conferma di questa impostazione, che mina la responsabilità del soggetto che pianifica, è, ad esempio, l’attribuzione (art. 14, comma 1) dei compiti di monitoraggio e controllo degli effetti ambientali del piano o programma al soggetto che approva in via definitiva e che spesso, nella realtà, non è il soggetto attuatore del piano (ad esempio: Giunta oppure Consiglio regionale che approva i Piani territoriali od urbanistici).
La consultazione dei soggetti istituzionali e la partecipazione del pubblico al processo decisionale, che nella Direttiva 2001/42/CE, nelle disposizioni europee sull’informazione e partecipazione del pubblico in campo ambientale (Direttive 2003/4/CE, 2003/35/CE e Decisione 2005/370/CE) oltre che nella Convenzione di Aarhus, sono elementi centrali e fondamentali della valutazione ambientale che accompagnano l’intero processo sin dalle fasi iniziali, risultano, invece, nel titolo II della parte seconda del decreto in esame, relegati nella parte conclusiva dell’iter e sembrano incidere poco sul processo decisionale.
Non è prevista, in modo difforme dalla previsione della Direttiva 2001/42/CE [che sottolinea quali elementi fondamentali la integrazione tra tematiche (ed autorità) ambientali e tematiche (ed autorità) dei settori interessati e la consultazione dei soggetti istituzionali], nel Capo II del Titolo II della parte seconda, alcuna partecipazione e consultazione delle Regioni e Province Autonome alla valutazione ambientale dei piani e programmi in sede statale. Partecipazione e consultazione quali soggetti istituzionali, competenti in materia ambientale e territoriale o con specifiche competenze nei vari settori che possono essere interessati dagli effetti sull’ambiente del piano o del programma.
Si segnalano di seguito alcuni elementi contraddittori, in particolare con le disposizioni della Direttiva 2001/42/CE, presenti nel testo del Titolo II:
1. Si segnala che le "modifiche" di piani e programmi, sono sottoposti a "VAS" in via generale dall'art. 7, comma 1, nonché “solo se possono avere effetti significativi sull'ambiente" dall'art. 7, comma 4. Ciò può ingenerare difficoltà di interpretazione e conflitti di competenza.
2. Nell'art. 10, comma 1, nonché nell'art. 16, comma 1, il testo non tiene conto che, per alcuni piani e programmi, il procedimento di approvazione vigente prevede prima una adozione e successivamente una approvazione (usualmente dopo una fase di informazione e partecipazione). Nel testo si fa riferimento alla effettuazione della "VAS" solo prima dell'approvazione. Tale previsione è in contrasto con la disposizione della Direttiva 2001/42/CE che, all'art. 4, comma 1, dispone che la Valutazione ambientale dei piani e programmi deve essere effettuata "durante la fase preparatoria del piano o programma ed anteriormente alla sua adozione". In tal modo, inoltre, si perde la previsione della "VAS" come procedimento, in cui intervengono ed interloquiscono differenti soggetti pubblici e privati, che prende avvio con la fase iniziale della processo di elaborazione del piano o del programma, al fine di assicurare una adeguata considerazione delle tematiche ambientali.
3. La previsione (art. 10, comma 2, nonché art. 16 comma 2) di effettuare presso province e regioni il deposito solo della "sintesi non tecnica" si pone in contrasto con la Direttiva 2001/42/CE che, all'art. 6, comma 1, dispone che "La proposta di piano o programma ed il rapporto ambientale … devono essere messi a disposizione … del pubblico". Inoltre tale disposizione si pone illegittimamente come limitazione di un diritto soggettivo in capo ad ogni cittadino disposto dalla Direttiva.
4. Anche la previsione (art. 10, comma 3) secondo cui il "regolamento", emanato con decreto ministeriale, stabilisca i casi di pubblicazione totale o parziale in internet si pone nel medesimo contrasto con l'art. 6, comma 1, della Direttiva 2001/42/CE e come limitazione di un diritto soggettivo disposto dalla Direttiva.
5. L'art. 10, comma 5, prevede che i depositi e le pubblicazioni e le connesse e conseguenti consultazioni effettuate per la "VAS" sostituiscono a tutti gli effetti le forme di informazione e partecipazione eventualmente previste, in via ordinaria, per piani e programmi. Questa disposizione connota un eccesso di potere in materie di competenza delle regioni (innanzitutto, piani territoriali ed urbanistici).
Inoltre la formulazione di tale comma 5 sembra adombrare una limitazione dei diritti soggettivi e dei diritti reali in capo ad ogni cittadino alla sola possibilità di interloquire solo sugli impatti ambientali del piano o programma.
La giusta esigenza di semplificazione procedurale può trovare soluzione solo nella previsione opposta, e cioè che le forme di deposito e pubblicizzazione previste per i piani e programmi devono essere integrate con quelle per la "VAS".
6. La previsione dell'art. 16, comma 4, nonché dell'art. 19, comma 2, e dell'art. 20 comma 3, secondo cui possono essere fissate, anche su istanza del proponente, specifiche e diverse modalità di pubblicazione e di informazione, integrandole o semplificandole, si pone in contrasto con la Direttiva 2001/42/CE che, all'art. 6, comma 1, dispone che "La proposta di piano o programma ed il rapporto ambientale … devono essere messi a disposizione … del pubblico". Inoltre tale disposizione si pone illegittimamente come limitazione di un diritto soggettivo in capo ad ogni cittadino disposto dalla Direttiva.
7. L'art. 19 "Procedura di verifica preventiva" nonché l'art. 20 "Fase preliminare" dal testo previste esclusivamente nel Capo II "Disposizioni specifiche per la VAS in sede statale", vanno necessariamente spostati nel Capo I "Disposizioni comuni in materia di "VAS" in quanto si tratta di fattispecie procedurali che riguardano anche i piani e programmi non di competenza dello Stato. Le loro previsioni vanno a tal fine opportunamente generalizzate per la loro applicazione sia nelle procedure statali sia in quelle regionali ovvero in quelle degli enti individuati dalle regioni.
8. Si segnala, inoltre, che la previsione dell'art. 68, comma 1, della parte terza del decreto in esame, secondo cui "I progetti di piano stralcio per la tutela dal rischio idrogeologico …. Non sono sottoposti alla valutazione ambientale strategica (VAS) …", è in contrasto con le disposizioni dell'art. 3 ("Ambito di applicazione") della Direttiva 2001/42/CE.
3. Considerazioni sul Titolo III "VALUTAZIONE DI IMPATTO AMBIENTALE - VIA"
Per la VIA appare, invece, coerente, sia alla Direttiva 85/337 come modificata dalla Direttiva 97/11/CE, sia al tipo di procedura che la teoria e la prassi hanno consolidato a livello mondiale da alcuni decenni, la scelta compiuta nel titolo III della parte seconda del decreto in esame di prevedere una procedura autorizzativa, cui è preposta una autorità competente che emette un Giudizio di compatibilità ambientale.
Per quanto concerne le previsioni del titolo III della parte seconda del decreto in esame, relative alle procedure di VIA occorre, in primo luogo, sottolineare che le discipline proposte confermano ed estendono la portata di scelte già oggi oggetto di procedura di infrazione europea.
In particolare ciò è vero (Parere motivato 2003/2049 C(2005)2341 del 05/07/2005) per la mancata considerazione degli elementi di cui all’Allegato III della Direttiva 97/11/CE nella selezione dei progetti da assoggettare alle procedure di VIA.
Tale scelta appare confermata nel titolo III della parte seconda del Decreto delegato in esame.
Ancora, si rileva che negli elenchi allegati al decreto in esame (Elenchi A e B dell'Allegato III alla parte seconda del Decreto delegato, che elencano i progetti assoggettati rispettivamente a VIA ed a Verifica - Screening) mancano alcune categorie progettuali contemplate nelle direttive comunitarie, unitamente al fatto che non si è tenuto conto delle situazioni consolidate nelle Regioni con particolare attenzione a quelle che hanno inserito nel proprio ordinamento giuridico disposizioni applicative della direttiva 97/11.
Tale mancata previsione è già oggetto di procedura di infrazione europea (Parere motivato 2003/2049 C(2005)2341 del 05/07/2005).
Inoltre, tale scelta è aggravata dalla scelta compiuta negli Elenchi A e B dell'Allegato III alla parte seconda del decreto delegato di non prevedere alcune ulteriori categorie progettuali previste dalle norme comunitarie rispetto a quelle già segnalate nel citato parere motivato.
A tale proposito si ritiene opportuno fare riferimento ai documenti prodotti, nel corso della prima metà dell’anno 2004, dall’apposito gruppo di lavoro, istituito tra Ministero dell’Ambiente e Regioni, finalizzato ad individuare modalità di recepimento della direttiva comunitaria 97/11/CE, percorribili dal punto di vista tecnico e metodologico, volte a superare l’infrazione comunitaria nei confronti del nostro paese.
In particolare le difformità dall’Allegato I della Direttiva, relativa ai progetti assoggettati a procedura di VIA, del decreto in esame riguardano le seguenti 2 categorie progettuali (individuate secondo la elencazione della Direttiva 85/337 come modificata dalla Direttiva 97/11):
I. 5 Impianti per l’estrazione di amianto, nonché per il trattamento e la trasformazione dell’amianto: per i prodotti di amianto - cemento, una produzione annua di oltre 20.000 tonnellate di prodotti finiti; per le guarnizioni da attrito, una produzione annua di oltre 50 tonnellate di prodotti finiti e, per gli altri impieghi dell’amianto, un’utilizzazione annua di oltre 20 tonnellate; (per quanto riguarda la definizione della soglia);
I. 18. a. Impianti industriali destinati: alla fabbricazione di pasta per carta a partire dal legno o da altre materie fibrose;(per quanto riguarda la definizione della soglia).
Le difformità dall’Allegato II della Direttiva, relativa ai progetti assoggettati a procedura di Verifica - Screening, del decreto in esame (che ampliano ulteriormente le difformità già contestate dalla Commissione europea) riguardano le seguenti 30 categorie progettuali (individuate secondo la elencazione della Direttiva 85/337 come modificata dalla Direttiva 97/11):
II. 1. c) Progetti di gestione delle risorse idriche per l’agricoltura, compresi i progetti di irrigazione e di drenaggio delle terre; (per quanto riguarda i Progetti di gestione delle risorse idriche per l’agricoltura);
II. 1. e) Impianti di allevamento intensivo di animali (progetti non contemplati nell’allegato I).
II. 2. b) Attività mineraria sotterranea;
II. 2. c); Estrazione di minerali mediante dragaggio marino o fluviale;
II. 2. d); Trivellazioni in profondità, in particolare: trivellazioni geotermiche; trivellazioni per lo stoccaggio dei residui nucleari; trivellazioni per l'approvvigionamento di acqua, escluse quelle intese a studiare la stabilità del suolo; (per quanto riguarda le trivellazioni per lo stoccaggio dei residui nucleari);
II. 2. e) Impianti di superficie dell’industria di estrazione di carbon fossile, di petrolio, di gas naturale e di minerali metallici nonché di scisti bituminosi;
II. 3. a) Impianti industriali per la produzione di energia elettrica, vapore e acqua calda (progetti non compresi nell’allegato I) (per quanto riguarda gli impianti industriali per la produzione di energia elettrica);
II. 3. c) Stoccaggio in superficie di gas naturale;
II. 3. d) Stoccaggio di gas combustibile in serbatoi sotterranei;
II. 3. e) Stoccaggio in superficie di combustibili fossili;
II. 3. f) Agglomerazione industriale di carbon fossile e lignite;
II. 3. g) Impianti per il trattamento e lo stoccaggio di residui radioattivi (se non compresi nell’allegato I);
II. 3. h) Impianti per la produzione di energia idroelettrica;
II. 5. a) Cokerie (distillazione a secco del carbone);
II. 5. c) Impianti destinati alla produzione di amianto e alla fabbricazione di prodotti a base di amianto (progetti non compresi nell'allegato I);
II. 5. e) Impianti per la fusione di sostanze minerali, compresi quelli destinati alla produzione di fibre minerali;
II. 5. f) Fabbricazione di prodotti ceramici mediante cottura, in particolare tegole, mattoni, mattoni refrattari, piastrelle, grès e porcellane;
II. 6. c) Impianti di stoccaggio di petrolio, prodotti petrolchimici e chimici; (per quanto riguarda la limitazione ai soli prodotti petrolchimici e chimici pericolosi ai sensi della legge 29 maggio 1974, n. 256);
II. 10. b) Progetti di riassetto urbano, compresa la costruzione di centri commerciali e parcheggi; (per quanto riguarda centri commerciali e parcheggi)
II. 10. c) Costruzione di ferrovie, di piattaforme intermodali e di terminali intermodali (progetti non compresi nell’allegato I); (per quanto riguarda piattaforme intermodali e terminali intermodali);
II. 10. e) Costruzione di strade, porti, e impianti portuali, compresi i porti di pesca (progetti non contemplati dall'allegato I;. (per quanto riguarda la costruzione di porti e impianti portuali compresi i porti di pesca).
II. 10. g) Dighe e altri impianti destinati a trattenere le acque o ad accumularle in modo durevole (progetti non compresi nell'allegato I);
II. 10. l) Progetti di estrazione o di ricarica artificiale delle acque freatiche, non compresi nell'allegato I; (per quanto riguarda i progetti di ricarica artificiale)
II. 10. m) Opere per il trasferimento di risorse idriche tra bacini imbriferi, non comprese nell'allegato I;
II. 11. d) Depositi di fanghi;
II. 11. h) Impianti per il recupero o la distruzione di sostanze esplosive;
II. 11. i) Stabilimenti di squartamento;
II. 12. a) Piste da sci, impianti di risalita, funivie e strutture connesse; (per quanto riguarda le piste da sci);
II. 12. d) Terreni da campeggio e caravaning a carattere permanente,
II. 12. e) Parchi tematici.
Nell'art. 23, comma 4, del Titolo III del Decreto delegato in esame si dispone l’esclusione dall’ambito di applicazione della VIA di una serie di tipologie di progetti, in contrasto con le disposizioni comunitarie che prevedono l’esclusione solo per i progetti relativi ad opere ed interventi destinati esclusivamente a scopi di difesa nazionale.
I progetti relativi ad opere ed interventi destinati esclusivamente a scopi di protezione civile o disposti in via d’urgenza possono essere esclusi unicamente alle condizioni e secondo le modalità di cui all’art. 2, comma 3 della direttiva 85/337/CEE come modificata dalla Direttiva 97/11/CE e dalla Direttiva 2003/35/CE.
Analogamente non è possibile l’esclusione in modo generalizzato dei progetti relativi ad opere di carattere temporaneo, con particolare riferimento ai progetti di cui all’allegato I della direttiva 85/337/CEE che devono essere sottoposte a procedura di verifica o di valutazione secondo i criteri indicati al punto 13 dell’allegato II della direttiva medesima.
Nell’art. 24 del titolo III della parte seconda del Decreto delegato in esame, tra le finalità della VIA, è ricompresa solo parzialmente (per quanto riguarda le ragioni della scelta tra le alternative) la considerazione delle “principali alternative prese in esame dal committente, con indicazione delle principali ragioni della scelta, sotto il profilo dell’impatto ambientale”. Questa difformità è in contrasto con la prescrizione dell’art. 5, comma 3, della Direttiva 85/337/CE come modificata dalla direttiva 97/11/CE, che prevede tale obbligo.
L’attribuzione allo Stato della competenza per le procedure di VIA e per le procedure di verifica - screening per i progetti sottoposti ad autorizzazione statale, prevista dall’art. 25, comma 1, lett. a), del titolo III della parte seconda del Decreto delegato in esame, è molto critico ed inaccettabile (e, con ogni probabilità, non valutato nelle sue conseguenze pratiche ed organizzative).
Infatti, in base alla lettera di questa disposizione, quasi tutte le procedure (di VIA e di verifica - screening) possono essere attribuite allo Stato.
Questa previsione, si pone in contrasto con la legge delega 308/2004 che prevedeva il rispetto del principio di sussidiarietà e conseguentemente delle competenze così come delineate dal D. Lgs. 112/1998. La disciplina che prevede un accentramento delle competenze da parte del livello di governo statale configurerebbe un esercizio del potere da parte del Governo, ben al di là dei limiti posti dalla delega.
Altrettanto critica ed inaccettabile (e, anche in questo caso, non valutato nelle sue conseguenze pratiche ed organizzative) è l’attribuzione, prevista sempre dall’art. 25, comma 1, lett. a) del titolo III della parte seconda del Decreto delegato in esame, allo Stato della competenza, per le procedure di VIA e per le procedure di screening, per i progetti aventi impatto ambientale interregionale.
E’ appena il caso di ricordare che tutte le normative regionale sulla VIA contengono già disposizioni che garantiscono il coordinamento delle Regioni direttamente interessate nel caso di impatti ambientali interregionali sia nella forma di informazione e consultazione sia nella forma di codecisione tramite una intesa tra le Regioni interessate.
Anche questa disposizione si pone in contrasto con la legge delega 308/2004 che prevedeva il rispetto del principio di sussidiarietà.
Illogica appare, inoltre, la mancata precisa individuazione positiva della attribuzione delle competenze.
Questa indeterminatezza avvalora l’ipotesi di una scelta per un forte accentramento allo Stato delle competenze.
Anche questa disposizione si pone in contrasto con la legge delega 308/2004 che prevedeva il rispetto del principio di sussidiarietà.
Altamente problematica appare la scelta di ridurre i termini per l’espletamento della procedura di VIA a 90 giorni (art. 31, comma 1). Questo termine non consente il coordinamento delle procedure autorizzative, che è invece già disciplinato da numerose leggi regionali ed è previsto all’art. 45, comma 1, della parte seconda del decreto delegato in esame.
Le leggi regionali vigenti prevedono, infatti, normalmente un termine di 150 giorni (mentre poche Regioni prevedono termini di 120 giorni), consentendo così di integrare la procedura di VIA con le procedure ordinarie per la realizzazione dei progetti. Ciò consente un risparmio effettivo di tempo e risorse da parte del proponente e della pubblica amministrazione, e rende efficace la sua attività.
La previsione contenuta nell’art. 33 secondo cui tutti gli elementi positivamente valutati in sede di “VAS” o comunque decisi in sede di approvazione del piano o programma costituiscono dati acquisiti per la VIA appare in secco contrasto con le disposizioni dell’art. 11 della Direttiva 2001/42/CE secondo cui la Valutazione ambientale dei piani e programmi “…lascia impregiudicate le disposizioni della direttiva 85/337/CEE e qualsiasi altra disposizione della normativa comunitaria.”.
L’atto di indirizzo e coordinamento 12 aprile 1996 e, conseguentemente, tutte le normative regionali di recepimento, prevedevano la possibilità di un incremento o decremento delle soglie nella misura massima del 30 %, in ragione della disomogeneità del territorio nazionale che presenta peculiarità ambientali e territoriali diverse da regione a regione.
L’art. 42, comma 2, della parte seconda del decreto limita al solo incremento la possibilità di variazione delle soglie, nella misura massima del 20%, da parte delle Regioni. Ciò non si ritiene possibile in quanto, come possono esservi aree ambientalmente meno sensibili, così possono esservi aree che risultano più fragili e che quindi esigono da parte della Regione interessata una maggiore tutela.
Si ritiene inoltre opportuno conservare il margine del 30 % utilizzato dalle norme regionali vigenti per limitare gli interventi normativi di adeguamento delle normative regionali ormai consolidate.
La parte seconda del decreto richiama, all’art. 45, l’opportunità da parte delle Regioni di armonizzare, coordinare e se possibile integrare la procedura di valutazione di impatto ambientale con le procedure ordinarie di assenso alla realizzazione delle opere. Tale opportunità, come già evidenziato, può essere colta unicamente prorogando i termini della procedura di VIA di 60 giorni, allineandosi al termine di 150 giorni già previsto dalle normative regionali che prevedono il coordinamento e l’integrazione della procedura di VIA con le diverse procedure autorizzative.
Si segnalano di seguito alcuni elementi contraddittori, in particolare con le disposizioni della Direttiva 85/337/CEE come modificata dalla Direttiva 97/11/CE, presenti nel testo del Titolo II:
1. L’art. 24, comma 1, lett. b) prevede che siano valutati gli effetti sull’interazione tra i seguenti fattori: uomo, fauna, flora, suolo, acque di superficie e sotterrane, aria, clima paesaggio. Questa previsione è in contrasto con la disposizione dell’art. 3, comma 1, della Direttiva 85/337/CEE come modificata dalla Direttiva 97/11/CE, che prevede che l’interazione sia estesa, oltre ai fattori citati, anche in relazione ai beni materiali ed al patrimonio culturale.
2. L’art. 26, comma 3, prevede che il proponente può chiedere di essere in tutto o in parte esonerato dagli “adempimenti di cui al comma 2”, relativi alla trasmissione a regioni, province e comuni del progetto e dello studio di impatto ambientale. Questa previsione si pone in contrasto con la Direttiva 85/337/CEE come modificata dalla Direttiva 97/11/CE che, all'art. 6, comma 1, dispone che "… le autorità che possono essere interessate al progetto per la loro specifica responsabilità in materia di ambiente abbiano la possibilità di esprimere il loro parere …".
3. Appare necessario prevedere uno specifico articolo per strutturare la fase di definizione dei contenuti del progetto e dello studio di impatto ambientale (c.d. “scooping”) spostandovi le previsioni dei commi 2, 3 e 5 dell’art. 27.
4. Nell’art. 28, comma 2, appare necessario prevedere alla pubblicazione dell’annuncio di avvenuto deposito del progetto e dello studio di impatto ambientale sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica per i progetti di competenza statale e sui rispettivi Bollettini Ufficiali Regionali o Provinciali per i progetti di competenza regionale o provinciale, al fine di dare univoca certezza ai termini del procedimento.
5. Appare utile abrogare l’art. 30 “Istruttoria tecnica”, in quanto definisce solo elementi marginali dell’istruttoria tecnica, trascurando, in contrasto con le disposizioni della 85/337/CEE come modificata dalla Direttiva 97/11/CE, i compiti principali dell’istruttoria tecnica, relativi, in primo luogo alla valutazione degli impatti ambientali ed alla formulazione di un giudizio finale ponderato.
6. Appare utile riformulare l’art. 32 “Procedura di verifica” (c.d. “screening”) al fine di rendere tale procedimento più compiutamente rispondente alle disposizioni della Direttiva 85/337/CEE come modificata dalla Direttiva 97/11/CE e di definire più linearmente fasi procedurali, compiti, termini d effetti del procedimento.
7. Appare utile abrogare l’art. 34 “Relazioni tra VIA e IPPC”, in quanto le previsioni dell’art. non introducono, di fatto, innovazioni rispetto a quanto già previsto dal D. Lgs. 59/2005, che non viene abrogato dal Decreto in esame.
8. La previsione (art. 36, comma 2) di effettuare presso comuni, province e regioni il deposito solo dello "stralcio del progetto e dello studio di impatto ambientale" si pone in contrasto con le disposizioni dell’art. 6 , commi 1 e 2, della Direttiva 85/337/CEE come modificata dalla Direttiva 97/11/CE che dispongono la messa a disposizione delle autorità che possono essere interessate per la loro specifica responsabilità in materia di ambiente e del pubblico. Inoltre tale disposizione si pone illegittimamente come limitazione di un diritto soggettivo in capo ad ogni cittadino disposto dalla stessa Direttiva.
9. La previsione dell’art. 36, comma 3, secondo cui “Resta ferma la facoltà per il committente o proponente di richiedere in via preventiva al Ministro dell’ambiente … la definizione … di modalità di divulgazione più adeguate e praticabili…”. Anche questa previsione si pone in contrasto con le disposizioni dell’art. 6, commi 1 e 2, della Direttiva 85/337/CEE come modificata dalla Direttiva 97/11/CE che dispongono la messa a disposizione delle autorità che possono essere interessate per la loro specifica responsabilità in materia di ambiente e del pubblico. Inoltre tale disposizione si pone illegittimamente come limitazione di un diritto soggettivo in capo ad ogni cittadino disposto dalla Direttiva.
10. Appare utile riformulare e spostare nelle “disposizioni comuni”, l’art. 40 “Effetti del giudizio di compatibilità ambientale” al fine di rendere precipui ed univoci gli effetti di tale giudizio e di rendere tali effetti applicabili a tutte le procedure di VIA e non solo a quelle statali.
11. Nell’art. 42, comma 2, appare irragionevole limitare la facoltà, sulla base degli elementi indicati nell’Allegato IV, delle regioni e province autonome al solo incremento, nella misura massima del 20%, delle soglie dell’elenco B dell’Allegato III, da stabilire in relazione alle diversità e peculiarità ambientali del territorio nazionale. Al riguardo si sottolinea che la previgente normativa (D.P.R. 12 aprile 1996 e, conseguentemente, tutte le normative regionali di recepimento) prevedeva la possibilità di un incremento o decremento delle soglie nella misura massima del 30 %.
12. E’ necessario abrogare le previsioni di procedure semplificate, previste dall’art. 46 per i progetti di dimensioni ridotte o di durata limitata realizzati da artigiani o piccole imprese, in quanto esse si pongono in contrasto con le disposizioni della Direttiva 85/337/CEE come modificata dalla Direttiva 97/11/CE, che non prevedono tali semplificazioni ovvero dispongono (punto 13, Allegato II della Direttiva 85/337/CEE come modificata dalla Direttiva 97/11/CE) l’assoggettamento dei progetti di cui all’Allegato I di durata limitata (non superiore a due ani) alle procedure di verifica Screening.
13. E’ necessario inserire, nell’Elenco A dell’Allegato III alla parte seconda, la previsione di cui al punto 8, della Direttiva 2003/35/CE, che ha previsto l’integrazione dell’Allegato I della Direttiva 85/337/CEE come modificata dalla Direttiva 97/11/CE con il seguente punto “22. Ogni modifica o estensione dei progetti elencati nel presente allegato, ove la modifica o l’estensione di per sé sono conformi agli eventuali valori limite stabiliti nel presente allegato”.
4. Considerazioni sull'IPPC
Una prima osservazione riguarda il fatto che, in pratica di IPPC non vi è quasi traccia nel testo della parte seconda del Decreto delegato.
Non viene specificato che per l’IPPC rimangono valide le disposizioni del recente D. Lgs. 59/2005 (non essendo tale decreto abrogato).
Nell’art. 34 della parte seconda del Decreto delegato appare contraddittoria la disciplina delle relazioni tra VIA e IPPC nella parte che prevede l’integrazione fra loro delle rispettive procedure.
Nel senso che il comma 1 dispone che la VIA è integrata nell’IPPC, mentre il comma 2 dispone che, nelle more del rilascio della VIA, la procedura di IPPC rimane sospesa e che l’autorità che rilascia l’Autorizzazione Integrata Ambientale si pronuncia tenuto conto del giudizio di compatibilità ambientale.
Quest’ultima previsione, è perfettamente coincidente nella sostanza con la previsione dell’art. 5, comma 12, del D. Lgs. 59/05, che, come ricordato, rimane vigente.
Le Previsioni dell’art. 34 appaiono, dunque, inutili ed ultronee.
Occorre inoltre sottolineare che la previsione della legge delega 308/2004 di giungere ad una semplificazione dei procedimenti autorizzatori con il rilascio di un’autorizzazione unica, non trova nessun riscontro nel testo della bozza di decreto delegato.
L’indicazione di una unificazione dei procedimenti sembra quindi scomparsa e torna ad essere privilegiato l’approccio settoriale.
Si evidenzia che l'art. 271 della parte quinta del decreto delegato in esame prevede, al comma 15 per quanto riguarda i grandi impianti di combustione, ed al comma 16 per gli impianti sottoposti ad autorizzazione integrata ambientale, che i valori limite e le prescrizioni del medesimo art. 271 si applicano al rilascio delle rispettive autorizzazioni integrate ambientali.
Tale previsione è in contrasto con quanto disposto dalla Direttiva 96/61/CE (art. 5 "Condizioni dell'autorizzazione ambientale") per gli impianti IPPC, secondo cui i limiti di emissione non sono fissati preventivamente in modo uniforme su tutto il territorio, ma è la specifica procedura IPPC che conduce alla definizione dei limiti di emissione, considerando le peculiari caratteristiche territoriali ed ambientali del sito di insediamento dell'impianto ed applicando le "migliori tecniche disponibili".
Del tutto analoga disposizione è contenuta nel D. Lgs. 59/2005 (art. 7 "Condizioni dell'autorizzazione ambientale"), che rimane pienamente vigente.
Si evidenzia che l'art. 273 della parte quinta del decreto delegato in esame, relativo ai grandi impianti di combustione, è in contrasto con la Direttiva 96/61/CE ed il D. Lgs. 59/2005 che rimane pienamente vigente. Ciò è fonte di conflitti e contenziosi.
Si sottolinea che, in ottemperanza a quanto disposto dalla Direttiva 96/61/CE, le uniche disposizioni applicabili a tali impianti sono le disposizioni relative alla autorizzazione integrata ambientale ai sensi del D. Lgs. 59/2005.
CONSIDERAZIONI SULLA PARTE III - SEZIONE I – IN MATERIA DI DIFESA DEL SUOLO E LOTTA ALLA DESERTIFICAZIONE
Pare opportuno premettere che le considerazioni che seguono, salvo alcune specifiche questioni particolarmente rilevanti, si riferiscono al sistema proposto nel suo complesso e non sono un esame dettagliato delle singole disposizioni.
Il testo uscito dal Consiglio dei Ministri in seconda approvazione, a seguito delle osservazioni espresse dalle Commissioni Ambiente della Camera e del Senato, recepisce in minima parte alcune osservazioni della stessa maggioranza e riscrive nuovamente alcune importanti parti del progetto dando conto di una pervicace volontà demolitrice dell’attuale sistema con l’obiettivo di ridisegnare su base centralistica la politica in materia di difesa del suolo.
Nell’articolo delle definizioni la stessa definizione viene data al “reticolo idrografico” ed all’ “opera idraulica” dando conto di una confusa cognizione della materia o, quanto meno, di una stesura affrettata e non verificata.
All’art. 55 sulla attività conoscitiva compare ancora l’ANCI con compiti operativi di monitoraggio stavolta però con una destinazione finanziaria già per il 2006 pari al 1,5 per cento della “massa spendibile annualmente per spese investimento da parte del Ministero Ambiente”. Una valutazione prudente porta a stimare intorno a 5 milioni di euro tale finanziamento. Non si valuta negativamente il merito ma certamente il metodo che non valuta priorità e assegna risorse senza criterio.
Per quanto riguarda le Autorità di bacino distrettuali, sono definiti organi dell’Autorità di Bacino: la Conferenza istituzionale permanente, il Segretario generale, la Segreteria tecnico-operativa e la Conferenza operativa di servizi.
La novità è la conferenza operativa di servizi che pare essere una sorta di attuatore di maggior dettaglio delle decisioni della Conferenza permanente, decide anche questa a maggioranza, non esiste però chiarezza di compiti.
Inaspettatamente e senza alcuna concertazione con le Regioni vengono individuati otto distretti idrografici senza tener conto delle competenze e dell’esperienza acquisita in più di quindici anni di gestione delle Autorità di Bacino. Argomentazioni tecniche pro e contro se ne possono fare tante, ciò che non è assolutamente condivisibile è che in questi macrodistretti ancora una volta il peso regionale tende a scomparire a favore del decisionismo ministeriale.
La riforma ha inoltre tempi brevi in quanto le “vecchie” autorità sono soppresse dal 30 aprile 2006, e non più dal 30 giugno come nel testo precedente, non consentendo al prossimo nuovo governo il tempo per recepire la riforma.
Questa tecnica da “avvelenemento dei pozzi” produrrà un periodo di incertezza dannoso anzi pericoloso per il paese destinata a durare per molto tempo.
Si riportano di seguito le principali considerazioni sulla materia alla luce delle modificazioni introdotte in seconda stesura dal Governo.
Occorre osservare, in via preliminare, che detto schema attiene alla materia della difesa del suolo che, in base al nuovo art. 117 della Costituzione, secondo un consolidato orientamento dottrinale e in parte giurisprudenziale, condiviso dalla Conferenza delle Regioni nell’ambito dei lavori di approfondimento condotti a suo tempo sul nuovo Titolo V, rientra nella materia “governo del territorio”, che ha natura di materia concorrente. Pertanto il legislatore statale incontra in questa materia il limite dei principi fondamentali, cui devono attenersi le Regioni nell’elaborazione delle proprie normative. Al contrario il decreto contiene una completa rivisitazione della materia, disciplinata puntualmente, ledendo così la sfera legislativa regionale costituzionalmente garantita.
Si evidenzia innanzitutto che il testo del decreto legislativo in esame non risponde all’esigenza di revisione e aggiornamento della disciplina della materia di difesa del suolo che già la Commissione Veltri aveva prospettato nel 1998 in termini di rafforzamento del governo cooperativo e partecipato dei bacini idrografici, né all’esigenza di unità, organicità e partecipazione e pubblicità degli atti (nonostante le tardive correzioni) posta nella direttiva comunitaria 2000/60/CE (artt. 13 e 14) di cui tale decreto costituisce il recepimento. E tanto meno rispetta i criteri e i principi contenuti nella legge delega n. 308/2004 e nel D.Lgs. n. 112/1998. Come sopra indicato, la legge 308/2004 delega il Governo ad emanare uno o più decreti di “riordino, coordinamento od integrazione” nelle materie oggetto dello schema e quindi a redigere Testi Unici cd. “compilativi” o “ricognitivi” per il coordinamento e la semplificazione delle norme di settore. Con il presente schema di decreto il Governo non si è limitato ad operare una ricognizione delle norme in materia di difesa del suolo, aggiornandole in relazione alla normativa comunitaria e raccogliendole in un T.U. omogeneo, bensì ha apportato sostanziali modifiche alla disciplina vigente disponendo la riforma delle Autorità di Bacino e determinando uno sconvolgimento dell’assetto delle competenze tra Stato e Regioni in violazione di quanto esplicitamente previsto al comma 8 dell’art. 1 della L. n. 308/2004 e dei principi sanciti dal D.Lgs. n. 112/1998.
Il decreto infatti abroga le norme vigenti in materia di difesa del suolo (nello specifico la l. 183/89 e l’art. 1 del D.L. n. 180/98, convertito dalla L. 267/98), ma non riordina la materia in maniera organica, né coordina i diversi livelli di pianificazione ordinaria e straordinaria e di programmazione e finanziamento degli interventi definiti dalle norme vigenti, limitandosi a riproporre parti dei provvedimenti abrogati, senza una verifica della coerenza e della compiutezza della costruzione che ne deriva. Il risultato è un insieme di norme lacunose e stravolgenti sia in materia di allocazione di competenze sia in materia di definizione dei procedimenti di formazione e approvazione dei piani e dei programmi di intervento.
In relazione alle competenze, il decreto ridefinisce il quadro delle stesse in senso centralistico, svuotando di fatto il ruolo delle Regioni. Tale scelta oltre ad essere politicamente inaccettabile e astorica, mostra anche evidenti profili di incostituzionalità. In particolare le Regioni vengono esautorate di ogni potere pur essendone state finora contitolari con il governo centrale, con riferimento alle autorità di bacino nazionali, e titolari in via esclusiva, con riferimento alle autorità di bacino interregionali e regionali. Le correzioni apportate al testo approvato in seconda lettura sulla base delle osservazioni regionali non sono certo sufficienti a dare al quadro delle competenze disegnato dal decreto la necessaria coerenza con i criteri posti dalla legge delega.
Il decreto infatti attribuisce al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio le funzioni di programmazione, finanziamento e controllo degli interventi in materia di difesa del suolo (art. 58, comma 3, lett. a) nonché di previsione, prevenzione e difesa del suolo da frane, alluvioni e altri fenomeni di dissesto idrogeologico (art. 58, comma 3, lett. b) mentre riconosce alle Regioni un mero ruolo di proposta e di osservazioni da esercitarsi in ambito di Conferenza Stato-Regioni (art. 59) e in materia di attività conoscitiva riconosce il solo ruolo dell’APAT (ora specificato in Servizio geologico nazionale) a livello nazionale, superando la logica di definizione congiunta Stato-Regioni degli standards di raccolta, elaborazione, consultazione dati che invece era ben chiara nel Decreto 24/07/2005 di trasferimento del Servizio idrografico e mareografico alle Regioni.
Ulteriore lesione a danno dell’autonomia delle Regioni si registra in sede finanziaria laddove all’art. 67, comma 6, si prevede una finalità vincolata alle risorse regionali.
Problematica risulta inoltre la normativa inerente gli strumenti di pianificazione.
I "piani di assetto idrogeologico” attualmente vigenti sono di fatto nati come strumenti esplicitamente connessi alla gestione integrata del territorio con un forte incardinamento concettuale e tecnico alla legislazione e agli indirizzi politico-amministrativi fondamentali delle Regioni, collegati al profilo della governance, (così come indicato dalla Commissione europea nel Libro bianco sulla governance europea) e affidati fortemente, ai bisogni di “apertura”, “partecipazione”, “responsabilità”, “efficacia”, “coerenza”.
Con l’approvazione del PAI si è pervenuti al necessario superamento degli strumenti di emergenza per la prevenzione dei rischi idraulici e idrogeologici e per la mitigazione degli effetti di eventuali criticità su persone e beni con il ritorno all’ordinarietà nella pianificazione, programmazione e attuazione delle politiche di tutela del territorio.
Peraltro, ai sensi dell'art.1 bis comma 3 della Legge 365/2000 "Conversione in legge del decreto - legge 279/2000..." recante interventi urgenti per le aree a rischio idrogeologico, ai fini dell'adozione ed attuazione dei piani stralcio e della necessaria coerenza tra pianificazione di bacino e pianificazione territoriale, le Regioni convocano una conferenza programmatica, articolata per sezioni provinciali, o per altro ambito territoriale deliberato dalle Regioni stesse, alle quali partecipano le Province ed i Comuni interessati, unitamente alla Regione e ad un rappresentante dell'Autorità di Bacino.
Il comma 4 stabilisce inoltre che la Conferenza "esprime un parere sul progetto di piano con particolare riferimento alla integrazione a scala provinciale e comunale dei contenuti del piano, prevedendone le necessarie prescrizioni idrogeologiche ed urbanistiche.
Il comma 5 stabilisce che le determinazioni assunte in sede di comitato istituzionale, a seguito di esame nella conferenza programmatica, costituiscono variante agli strumenti urbanistici.
Con sentenza n. 524 del 21.11.02 la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità del comma 5 dell'art.1 bis della L.365/2000, affermando che lo stesso si pone in netto contrasto con le competenze regionali in materia urbanistica, né le determinazioni del comitato istituzionale possono avere incidenza diretta ed automatica di modifica degli strumenti di pianificazione urbanistica, tanto più se a carattere permanente, ricordando che già esiste, a livello legislativo, la possibilità di introdurre disposizioni con carattere immediatamente vincolante ai sensi dell'art.17, comma 5, della legge 183/1989.
Ora lo schema di decreto prevede come strumento cardine di pianificazione il piano di bacino distrettuale (art. 65) di cui costituiscono piani stralcio il piano di gestione (art. 117) e il piano di tutela (art. 121) nonché un piano stralcio di distretto per l’assetto idrogeologico (art. 67, comma 1, ma questi piani sono già vigenti! Questa è una norma datata copiata dalla abrogata L. 267/98 che non può oggi essere riproposta) ed eventuali piani straordinari (art. 67, comma 2).
Non è ben chiara la linea di demarcazione tra i contenuti di tali piani che appaiono pressochè analoghi e le relative procedure di adozione e approvazione, oltre a presentarsi indeterminate e confuse, in quanto sono definiti solo alcuni passaggi, disattendono le esigenze di trasparenza e pubblicità insite nei processi di pianificazione territoriale nonché le esigenze di partecipazione attiva e consultazione dettate dalla direttiva comunitaria (art. 14), e pertanto richiedono l’integrazione delle fasi di pubblicizzazione e consultazione che pure la L. 183 conteneva e che già erano state giudicate insufficienti rispetto alle esigenze di condivisione delle scelte da parte delle comunità locali e dei diversi portatori di interessi. La recente aggiunta del comma 7 dell’art.66, che prevede un ruolo delle Autorità di distretto nella promozione della “partecipazione attiva di tutte le parti interessate all'elaborazione, al riesame e all'aggiornamento dei piani di bacino”, non supplisce alle abrogate norme della L. 183/89 in quanto viene omessa la definizione del procedimento; tanto meno questa integrazione pare in grado di soddisfare le prescrizioni della direttiva 2000/60/CE sull’allargamento dell’orizzonte di consultazione nella formazione dei piani.
Inoltre il richiamo al rapporto ambientale quale allegato del piano e alla valutazione ambientale strategica rende ancora più confuse le procedure e incerta l’effettiva approvazione dei piani di bacino proprio per la mancata individuazione del soggetto competente all’elaborazione del rapporto ambientale.
In sostanza il decreto non riesce a definire compiutamente gli strumenti di pianificazione e soprattutto non riesce a delineare il sistema dei rapporti tra i piani medesimi e tra questi e gli strumenti di pianificazione già vigenti in materia di difesa del suolo nonché i Piani Territoriali di coordinamento provinciale (PTCP) che neppure vengono presi in considerazione nonostante l’art. 57 del d.lgs. 112/1998 stabilisca che i PTCP possono assumere valore e contenuti di piano di bacino, creando tra l’altro il rischio di vanificare il governo unitario del bacino idrografico.
Anche con riferimento all’attività di programmazione in materia si osserva il totale accentramento al Ministero dell’Ambiente della funzione di formazione, finanziamento e controllo quando invece la L. 183/89 e la L. 267/98 attribuiscono alle Regioni un ruolo centrale nella formazione delle scelte. Il testo del decreto propone un modello di programmazione che di fatto esautora le Regioni e le Autorità di bacino dalle competenze in materia.
Altro aspetto dello schema di decreto che suscita notevoli perplessità riguarda le Autorità di bacino di distretto, sia per la parte che ne definisce gli organismi sia in quella che individua le otto nuove Autorità.
Per il primo aspetto si osserva che il peso delle Regioni nella Conferenza istituzionale permanente, introdotta all’art. 63 dal Governo, è fortemente ridimensionato, rispetto all’attuale composizione dei Comitati Istituzionali previsti dalla L. 183/99, in quanto si prevede un aumento dei rappresentanti del Governo nazionale: da quattro a sei, più il delegato del Dipartimento della Protezione civile. La presenza del solo Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio, in rappresentanza del Presidente del Consiglio, può essere sufficiente ad assicurare l’unità di indirizzo nazionale, senza inutili ridondanze. Per quanto concerne la Conferenza operativa di servizi, bizzarra invenzione che dovrebbe sostituire il Comitato Tecnico delle attuali Autorità di bacino, si nota che non appaiono chiari i compiti che sono definiti in maniera molto approssimativa (“provvede all’attuazione ed esecuzione di quanto disposto ai sensi del comma 5, nonché al compimento degli atti gestionali e di ordinaria amministrazione”). Si ricorda inoltre che il Comitato Tecnico delle Autorità di bacino era incaricato dalla L. 183/89 di redigere il Piano di bacino, avvalendosi dalla segreteria tecnica, funzione che il testo in esame “dimentica” di attribuire.
Per il secondo aspetto, l’individuazione degli otto nuovi Distretti idrografici, si nota come faccia perdere uno dei principi fondamentali introdotti dalla L. 183/89, vale a dire la dimensione del bacino idrografico come riferimento unico ed imprescindibile per ogni azione di pianificazione, programmazione e gestione della difesa del suolo e del ciclo delle acque; appare infatti incongruente con le logiche di bacino idrografico la suddivisione dell’Italia appenninica in tre distretti-fasce (settentrionale, centrale, meridionale) posti a cavaliere del crinale, in quanto non vi sono ragioni per valutare insieme le problematiche territoriali della difesa del suolo e delle acque dei versanti tirrenico ed adriatico, separati ed indifferenti l’uno all’altro. L’individuazione dei distretti idrografici proposta risulta a dir poco improvvisata, arbitraria e senza criteri ordinatori, ma soprattutto svincolata dai principi informatori della Direttiva 2000/60/CE che definisce i Distretti Idrografici come bacini omogenei soprattutto in relazione alle finalità della direttiva stessa, e quindi agli obiettivi di qualità e di bilancio idrico da garantire.
Nonostante il nuovo disegno degli organi delle Autorità di bacino, queste continuano a configurarsi quali soggetti a totale emanazione statale in netto contrasto con quanto disposto dalla L. 183 ove le Autorità di bacino nazionali sono configurate quali organismi a partecipazione mista Stato-Regioni e le altre autorità quali organismi a totale composizione regionale.
La composizione della conferenza istituzionale permanente stabilita all’art. 63, comma 4, sembra non garantire un’adeguata rappresentatività di tutti gli enti cointeressati e coinvolti. Tale previsione potrebbe determinare l’anomalia per cui nei distretti idrografici insulari o di piccole dimensioni (quelli di Sicilia e Sardegna e del Serchio) le decisioni verrebbero assunte da una conferenza di servizi a netta prevalenza governativa, con notevoli effetti anche sul principio della sussidiarietà.
Il meccanismo dell’adozione a maggioranza del piano in sede di conferenza inoltre può comportare l’imposizione di scelte e decisioni in materia di pianificazione non condivise da parte di una singola Regione.
Ulteriore motivo di censura riguarda la totale assenza di normativa transitoria che regolamenti le fasi di passaggio dalle norme di cui si prevede l’abrogazione a quelle in questione e di passaggio dai piani vigenti e quelli qui previsti.
In conclusione le principali incongruenze e problematiche insite nella sezione decreto dedicato alla difesa del suolo possono così schematicamente riassumersi:
Recepimento solo formale della Direttiva 2000/60/CE e violazione dei principi e criteri direttivi della legge delega n. 308/2004.
Accentramento delle competenze in capo al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio con conseguente esclusione della Regione.
Frammentazione delle competenze nella pianificazione, programmazione e gestione degli interventi nei settori della difesa del suolo, della tutela quali-quantitativa e della gestione delle risorse idriche.
Incompletezza e confusione nelle procedure di adozione e di approvazione dei piani di bacino.
Mancato coordinamento tra i piani di settore tra loro e tra questi e gli strumenti di pianificazione vigenti.
Mancanza di regole fino all’approvazione del Piano di bacino idrografico.
Impossibilità, allo stato attuale, di approvare il Piano di bacino distrettuale.
Perplessità e dubbi in merito alla individuazione dei Distretti idrografici ed ai compiti della Conferenza operativa dei servizi
Appare evidente che il Governo ha perso un’importante occasione per creare una normativa unica, completa e coerente, in cui siano comprese, integrate e aggiornate le norme necessarie ad assicurare sia la tutela dell’ambiente, inteso quale insieme dei sistemi suolo, sottosuolo, acqua, aria, flora, fauna, habitat, sia l’uso razionale delle risorse ambientali, nonchè le norme utili ad indirizzare lo sviluppo socio-economico del territorio verso forme e modalità coerenti con le caratteristiche dell’ambiente.
Non è pensabile approntare normative di importanza strategica e di forte impatto sul territorio senza coinvolgere nel processo decisionale le Regioni, giungendo perfino a sopprimere le Autorità di Bacino della legge 183/89 e tutto ciò che queste hanno prodotto fino ad oggi in termini di sistemi di pianificazione, normative, vincoli e prescrizioni.
Il pericolo maggiore derivante da questo decreto è quello di creare un vuoto normativo che rischi di abbandonare a se stesso e ad un uso improprio il territorio italiano, che, per le sue caratteristiche fisiche oltre che per il verificarsi sempre più frequente di eventi climatici estremi, è sempre più soggetto a fenomeni di dissesto idrogeologico, con danni ingenti alle popolazioni, all’urbanizzato, alle infrastrutture, alle attività produttive.
Profili metodologici
Alla lamentata inadeguatezza del testo proposto rispetto alle necessità di riforma del settore “acqua” e alla scarsa trattazione organica dei tre profili di materia oggetto della Parte III (difesa suolo, tutela delle acque e gestione delle risorse idriche) è stato obiettato dal Governo che, al contrario, le tre inerenti Sezioni sono “fra loro fortemente interconnesse e consequenziali”.
Ed infatti esse sono così “connesse e consequenziali” che, tanto per citare alcuni esempi:
- l’apparato definitorio, fondamentale chiave di lettura dell’intera disciplina di settore, risulta duplicato nelle varie sezioni con refusi, ridondanze e incongruenze tra le stesse, con ciò compromettendo una piana applicazione delle norme e creando difficoltà interpretative destinate a condizionare gli operatori dl settore ed aumentare il rischio di contenzioso amministrativo e giurisdizionale;
- la Sezione Terza relega alla parte finale della Parte III disposizioni inerenti la gestione delle risorse idriche aventi carattere di principio generale fondamentale; si pensi ad esempio al principio di pubblicità di tutte le acque, cardine dell’intero sistema di tutela e gestione e che come tale, in una vera rivisitazione organica della materia, avrebbe avuto una ben diversa collocazione al fine di improntare l’intera disciplina conseguente, a partire dalla stessa difesa del suolo nella sua accezione storica anche di difesa “delle” acque;
- la gestione del demanio idrico attinente all’utilizzo delle acque pubbliche è trattata contestualmente e in modo frammentario alla Sezione Seconda e alla Sezione Terza, ripercorrendo i relativi passaggi rispettivamente del d.lgs. 152/1999 e della l. 36/1994, senza compiere quel riordino e quella compenetrazione tra i due corpi normativi che da tempo si auspicava per consentire alle Regioni di porre rimedio ai danni provocati da una precedente gestione da parte della burocrazia statale praticamente inesistente;
- le problematiche relative al bilancio idrico e alla sua pianificazione sono state trattate in due distinte Sezioni, dimenticando lo stretto rapporto che intercorre tra bilancio idrico e pianificazione dell’economia idrica, il solo strumento che può farsi carico della concreta soluzione del grave problema degli squilibri quantitativi della risorsa;
- a sua volta il risparmio idrico, anziché essere sancito come principio fondamentale, relativo ad ogni utilizzazione della risorsa, è trattato sia nella Sezione Seconda, sia nella Sezione Terza ma in un’ottica sostanzialmente circoscritta al servizio idrico integrato, con riferimenti assolutamente generici agli altri comparti e in particolare a quello agricolo, che invece meriterebbe maggiore attenzione in relazione ai rilevanti volumi in gioco ed alle notevoli potenzialità di recupero di risorsa attuando politiche di risparmio idrico.
Riparto di competenze
Il Governo richiama anche con riferimento alla Parte III dello schema di decreto le considerazioni già sviluppate nella parte generale del suo documento con riferimento al rapporto tra competenza legislativa esclusiva statale in materia di tutela ambientale e competenze legislative regionali costituzionalmente garantite.
La lettura dell’articolo 117 Cost. che l’Esecutivo propone, sia in linea generale sia con riferimento specifico al rapporto con il governo del territorio, è a dir poco rigida e pretestuosa, fondandosi su un ipotizzato riparto di attribuzioni che nega l’interferenza della competenza esclusiva statale con quelle di competenza concorrente.
Ben diversamente si è espressa la Corte costituzionale, che ha ripetutamente sostenuto il contrario con riferimento non solo alla tutela ambientale, ma anche ad altri fondamentali profili, come la tutela della concorrenza.
Ed è alla Corte Costituzionale e non solo alle Regioni che vanno fatte risalire considerazioni che il Governo reputa “di nessun rilievo”, quali:
- una tutela dell’ambiente non configurabile come una sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, in quanto investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze regionali (come nel caso di specie quella inerente il governo del territorio) e che se da un lato attribuisce allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale, dall’altro non esclude affatto la possibilità che le leggi regionali, emanate nell’esercizio della potestà concorrente o di quella residuale, possano assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale, fissando se del caso criteri più restrittivi di quelli statali[5];
- l’affermazione dello spirito di corresponsabilità e leale collaborazione che deve improntare il rapporto tra esigenze che, come nel caso di quelle afferenti agli interessi unitari di tutela ambientale e a quelli locali di governo del territorio, non possano essere attribuite nel loro insieme ad un'unica materia, perché concernono posizioni non omogenee ricomprese in materie diverse sotto il profilo della competenza legislativa[6];
- un’applicazione del principio di sussidiarietà ampia e diffusa ma che, in quanto tale, quando assume carattere “ascendente” verso lo Stato deve essere limitato a quanto strettamente indispensabile per garantire esigenze unitarie per lasciar spazio a quella “discendente” verso Regioni ed Enti locali al fine di una più diretta e immediata risposta alle esigenze del territorio[7].
La denunciata incostituzionalità dello schema di decreto legislativo è confermata dai rilievi mossi dalle Commissioni parlamentari laddove invitano il Governo:
- a tenere costantemente presente l'esigenza di non definire il rapporto Stato-Regioni-Enti locali secondo un modello di reciproco isolamento nelle rispettive sfere di attribuzioni e di attuare, invece, i principi di corresponsabilità, di collaborazione e di concorrenza fra i diversi livelli territoriali della Governance ambientale, al fine di scongiurare il rischio di un contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale, che rischierebbe di annullare le finalità di conferire finalmente e stabilmente organicità, razionalità e certezza alla normativa ambientale italiana;
- a valorizzare il ruolo di Regioni ed Enti locali nel governo complessivo del territorio, in quanto qualunque arretramento su questo piano, rispetto alla normativa vigente, sarebbe, fra l'altro, non conforme alla legge di delega - sia alla previsione generale di cui al comma 8 dell'articolo 1, sia al criterio specifico di cui all'articolo 1, comma 9, lettera c), ove è stato espressamente prescritto al legislatore delegato di «valorizzare il ruolo e le competenze svolti dagli organismi a composizione mista statale e regionale».
Il recepimento da parte del Governo delle innanzi richiamate condizioni e osservazioni del Parlamento è risultato peraltro parziale, essendosi limitato soltanto a rivisitare gli organi delle Autorità di bacino e non l’intero impianto dei rapporti istituzionali sottesi alla Parte III e soprattutto peggiorando il rapporto tra i livelli di pianificazione.
Gli istituti di pianificazione per la tutela delle acque
Non solo dalle Regioni è stato rilevato il non riuscito tentativo di trasfondere nell’ordinamento interno gli istituti di pianificazione previsti dalla direttiva 2000/60/CE e di coordinarli con le vigenti disposizioni che disciplinano i Piani di bacino ed i Piani di tutela delle acque.
A fronte di un criterio di delega che prevedeva l’adozione “di misure che assicurino la tempestività e l'efficacia dei piani e dei programmi di tutela ambientale”, il testo propone infatti ben sei istituti (Piano di bacino distrettuale, Piano stralcio per la tutela dal rischio idrogeologico, Piano di gestione, definizione degli obiettivi a scala di bacino, Piano di Tutela delle acque, Programma di misure) di cui è pressoché impossibile comprendere i reciproci rapporti e la cui adozione è affidata a procedure farraginose.
Sia le controdeduzioni del Governo, sia le considerazioni svolte dalla Camera (che ritiene che i Piani regionali di tutela delle acque debbano essere relegati ad un ruolo meramente integrativo ed attuativo dei Piani di Gestione) non tengono debitamente conto che il necessario recepimento degli strumenti pianificatori comunitari non può prescindere da quanto già compiuto in Italia con la l. 183/1989 e con il d.lgs. 152/1999.
Con la previsione del Piano di tutela delle acque quale stralcio del Piano di bacino, già nel 1999 il legislatore nazionale aveva inteso dare attuazione ai disposti di quella che allora era la Proposta di Direttiva 2000/60/CE, inserendo l’attività pianificatoria regionale nei complessi meccanismi della l. 183, che fin dal 1989 si fondava proprio sull’individuazione del bacino idrografico come unità ecosistemica di riferimento per una efficace attività di governo di difesa del suolo e tutela delle acque.
In quest’ottica nei bacini di rilievo nazionale l’operato dell’Autorità di bacino si distingue da quello delle Regioni che la compongono per il livello su cui incide: in nome dell’unitarietà del bacino idrografico, su macro-scala vengono fissati priorità e obiettivi comuni a tutte le Regioni afferenti al bacino stesso, mentre in ambito regionale, nel rispetto delle peculiarità e specificità locali, sono determinati e attuati gli interventi e le azioni preordinate al raggiungimento dei fini prefissati.
Quello regionale si rivela infatti un livello appropriato per la risoluzione dei problemi legati alle risorse idriche, elementi contemporaneamente fluenti e localizzati sul territorio, perché:
- esso dispone di una ampiezza territoriale idonea a coordinare e armonizzare i molteplici interessi, spesso antagonisti, insediati sul territorio che i corpi idrici attraversano,
- l’istituzione Regione, in quanto ente dotato di rappresentatività e di autonomia politico-amministrativa, nonché titolare del potere legislativo e dei poteri di pianificazione e assetto del territorio nel suo complesso, possiede gli strumenti necessari per disporre delle situazioni giuridiche soggettive attive e passive che interferiscono con gli interessi pubblici presi a riferimento.
Attraverso l’approvazione dei singoli piani regionali di tutela previsti dall’articolo 44 del d.lgs. 152/1999, tra loro accomunati dalla fissazione di obiettivi di bacino volta a garantire la considerazione ecosistemica del territorio di cui alla legge 183/1989, si perviene conseguentemente alla realizzazione della complessiva pianificazione di bacino nel settore della tutela qualitativa e quantitativa delle risorse idriche postulata dalla stessa legge sulla difesa del suolo.
I Piani di tutela così individuati si identificano pertanto a pieno titolo con i Piani di gestione ed i Programmi di misure della Direttiva comunitaria e, sempre secondo le indicazione della stessa Direttiva, rispondono all’enunciato secondo cui “Le decisioni dovrebbero essere adottate al livello più vicino possibile ai luoghi di utilizzo effettivo o di degrado delle acque. Si dovrebbero privilegiare le azioni che rientrino fra le competenze degli Stati membri, attraverso programmi di misure adeguati alle condizioni regionali e locali” [8].
Il modello procedimentale del coordinamento tra livello di bacino e livello regionale, prescelto nella realtà italiana dal d.lgs. 152/1999, risulta quindi pienamente rispondente allo spirito della Direttiva quadro e, seppur necessitante di affinamenti, poteva ritrovare conferma nel decreto legislativo in esame.
Gli emendamenti apportati il 19 gennaio 2006 non solo non hanno tenuto di quanto sin qui illustrato, ma risultano ulteriormente peggiorativi avendo privato il Piano regionale di tutela delle acque della forza propria degli strumenti di pianificazione di ”tutela”, appunto, che gli derivava dall’essere stralcio del Piano di bacino e quindi sovraordinato alle pianificazioni di settore.
La disciplina della tutela delle acque
Diversamente da quanto accade per la Sezione Prima inerente la difesa del suolo, gli interventi operati dal Governo nella Sezione Seconda relativa alla tutela delle acque possono apparire di primo acchito meno innovativi dell’attuale normativa della materia.
Tuttavia anche nel caso di specie permangono una serie di novità che, da un lato, rappresentano vere e proprie ingerenze dell’apparato statale tese alla compressione del ruolo delle Regioni e delle Autonomie locali al di là del dettato costituzionale e parlamentare e, dall’altro, non sono solo “profili correttivi di istituti, che negli anni di vigenza delle attuali disposizioni, avevano manifestato elementi di criticità o suscitato controversie interpretative e problematiche applicative” come sostiene il Governo.
Posso ascriversi al primo profilo:
- la ripetuta subordinazione della potestà normativa (e quindi politica) regionale ad atti ministeriali, di natura prettamente amministrativa (si vedano ad esempio l’articolo 113 in merito alla disciplina regionale delle acque meteoriche di dilavamento e di prima pioggia e l’articolo 114 in materia di disciplina di restituzione delle acque);
- l’insistente previsione di casi in cui le potestà di pianificazione e programmazione risultano sottoposte alla “supervisione” del Ministero in una logica di controllo governativo sul sistema Regioni-Autonomie locali che la Riforma Bassanini aveva inteso superare in base al principio di responsabilità (come nel caso dell’articolo 121 laddove è previsto che le Regioni trasmettano al Ministero dell’ambiente per le “verifiche di competenza” il Piano di tutela delle acque adottato, tra l’altro già soggetto al parere vincolante delle Autorità di bacino);
- la riappropriazione da parte dello Stato di funzioni amministrative già decentrate a livello locale (si vedano l’articolo 91, laddove viene demandato al Ministro e non più alle Regioni la facoltà di designare aree sensibili, o l’articolo 104, ove è prevista la competenza ministeriale e non più regionale per l’autorizzazione dello scarico di acque risultanti dall’estrazione di idrocarburi nelle unità geologiche profonde);
- l’emanazione da parte del Governo di norme del più minuto dettaglio in ambiti di competenza del sistema Regioni-Autonomie locali (come nel caso dell’articolo 96, le cui previsioni concernono la definizione di procedimenti attinenti alla gestione del demanio idrico rientranti nelle competenze trasferite dal d.lgs. 112/1998 e coerenti al dettato dell’articolo 118 cost.);
- una pletora di interventi sostitutivi e commissariamenti da parte del Governo, anche in caso di provvedimenti endoprocedimentali di minuto dettaglio (come nel caso dell’articolo 96 comma 1 ove è prevista la nomina da parte del Ministero di un Commissario ad acta per l’espressione di un parere persino sulle piccole derivazioni di acqua).
Attengono invece al secondo aspetto:
- la modificazione della nozione di scarico, cardine dell’intera disciplina, rispetto alla quale - come rilevato anche dalla Commissione della Camera - con l’eliminazione al riferimento di qualunque immissione diretta “tramite condotta”, si sconvolge una copiosa dottrina e una ormai consolidata giurisprudenza sul tema e si rimette in discussione il difficile rapporto con la normativa sui rifiuti, ritenuta universalmente la disciplina di chiusura del sistema atta ad evitare che restino prive di controllo le “rilevanti ipotesi di introduzione di sostanze nei corpi ricettori in assenza di condotta” evidenziate dal Governo;
- l’introduzione nelle definizioni di acque reflue industriali del criterio "qualitativo" in sostituzione di quello della "provenienza" che costituisce un oggettivo passo indietro che determinerà grosse complicazioni applicative, non rispecchiando neppure la definizione prevista dalla direttiva 91/271/CEE sul trattamento delle acque reflue urbane;
- la nuova definizione di agglomerato, che introduce concetti non meglio definiti quali le attività produttive e la fognatura dinamica che risultano ancora una volta palesemente incoerenti ed in contrasto alla definizione di agglomerato stabilita dalla direttiva 91/271/CEE;
- la designazione di aree sensibili oggetto di procedura d’infrazione comunitaria ex art 226 del Trattato (N. 2002/2124) su cui lo stesso Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, con il supporto di tutte le regioni, ha avviato un proficuo momento di confronto con gli uffici tecnici della Commissione Europea che potrebbe portare alla decisione di non includere tali aree tra quelle sensibili. L’anticipata designazione proposta dallo schema di Decreto può comportare rilevanti costi di investimento non necessari, poco funzionali rispetto al raggiungimento degli obiettivi e incoerenti rispetto alle strategie adottate, con la condivisione del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, dalle regioni nei Piani di tutela delle Acque;
- una definizione di sostanza pericolose così generica da risultare fuorviante e di nessuna utilità sotto il profilo applicativo;
- le competenze in materia di autorizzazioni allo scarico impropriamente attribuite all'Autorità d'ambito e la previsione di fattispecie di silenzio assenso.
Appare poi senza dubbio fuori luogo la riproposizione del parere dell’Autorità di bacino sulle istanze di derivazione di acqua pubblica, trattandosi da un lato di un ingiustificato aggravamento di un procedimento amministrativo già particolarmente complesso e da altro lato di una competenza che ben può essere limitata alle sole derivazioni significative e incidenti sul bilancio idrico e svolta dalla Regione cui è demandata la predisposizione del Piano di tutela delle acque.
Sotto il profilo della minore tutela ambientale si segnalano poi le disposizioni tese, attraverso la riapertura e lo slittamento di termini, a permettere l’ulteriore sanatoria di comportamenti abusivi, con l’introduzione di una discutibile disparità di trattamento rispetto a coloro che, per i medesimi comportamenti, sono stati nel frattempo sanzionati, come nel caso dell’articolo 96 comma 6.
Si rileva infine che non si è in alcun modo tenuto conto dei risultati degli studi e delle modalità di applicazione della predetta direttiva messi in atto tra il 2000 e il 2005, in Europa e in Italia, per contribuire alla strategia comune di attuazione, trascurandosi completamente documenti quali la “Common Implementation Strategy for the WFD” e le “Linee Guida” derivanti dai gruppi di lavoro europei.
Gestione delle risorse idriche
Anche su questo fronte nell’ultimo decennio è stata avviata in molte parti del Paese, una corposa e significativa revisione dell’intero sistema di gestione e tutela del patrimonio idrico cui lo schema di decreto legislativo risponde con previsioni assolutamente inadeguate allo scopo e che si è già avuto modo di commentare negativamente in precedenza.
In questa sede si ribadisce ulteriormente l’inaccettabilità dell’obsoleto approccio di parziale modifica del t.u. n. 1775 del 1933 (peraltro incoerentemente contenuta nella Sezione II dedicata alla tutela delle acque) e la frammentarietà delle ulteriori norme in materia di gestione del demanio idrico contenute nella Sezione III, mentre sarebbe stato necessario esplicitare e integrare sin dall’esordio della Parte III i principi fondamentali in materia di utilizzazione delle acque, demandando alla potestà regionale la puntuale disciplina dei relativi procedimenti amministrativi per fornire loro gli strumenti utili alla preservazione di un integro patrimonio idrico per le generazioni future.
Sul fronte poi del servizio idrico integrato lo schema di decreto, nel vano tentativo di tenere conto delle problematiche emerse in fase di attuazione della riforma prevista dalla legge Galli, propone in molti casi soluzioni tali da portare ad una inaccettabile battuta d’arresto nelle complesse e gravose attività svolte in merito dalle Amministrazioni regionali, come nel caso:
- dell’introduzione dell’obbligatorietà del “gestore unico” al termine della scadenza dei termini di cui al comma 15 bis art. 113 del T.U.E.L., mentre la l. 36/1994 prevedeva più realisticamente la realizzazione di una “gestione unitaria” del ciclo idrico;
- della previsione di una adesione facoltativa alla gestione unica del servizio idrico integrato per i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti inclusi nel territorio delle comunità montane, che - atteso l’elevatissimo numero di comuni di queste dimensioni presente in Italia - mina alle basi il complesso processo di riforma di settore, vanifica gli sforzi compiuti dalle Regioni per convincere i piccoli comuni montani ad aderire alle Autorità d’ambito e creerà non pochi problemi alle Autorità d’ambito già costituite ed operanti.
- l’addossare ai Comuni i costi di funzionamento delle Autorità d’ambito, cui sono obbligati ad aderire anche contro la loro volontà e la cui costituzione ha già rappresentato in moltissimi casi la perdita di un gettito molto significativo (si pensi ad esempio ai comuni in cui i proventi delle tariffe di acquedotto e fognatura costituiva la principale voce di bilancio).
Sotto altri profili l’intervento statale risulta soverchio e, come tale, lesivo dell’assetto di competenze costituzionalmente garantite a causa delle previsioni di esorbitante dettaglio e di soluzioni che non lasciano spazio di autonomo adattamento in sede regionale e locale.
Si pensi in particolare alla disciplina dalla scelta della forma di gestione, delle procedure di affidamento del servizio e dei conseguenti rapporti tra autorità d’ambito e soggetti gestori, cui il Governo, anziché limitarsi ad un mero rinvio alle norme generali di tutela della concorrenza in materia di servizi pubblici locali per lasciar spazio alla legislazione regionale, dedica un intervento normativo in contrasto con il principio di ragionevolezza già utilizzato dalla Corte costituzionale per dichiarare l’illegittimità di alcuni ben più stringati disposti dell’articolo 113 del d.lgs. 267/2000 [9].
In tale contesto inoltre il Governo non tiene conto delle salvaguardie disposte dall'articolo 113, comma 15-bis del T.U.E.L., che attualmente consentono ad alcuni gestori, se presentano le caratteristiche descritte dalla norma, di rimanere fino alla naturale scadenza del rapporto, così come si dà per presupposto che il periodo transitorio cessi comunque al 31 dicembre 2006, circostanza smentita dallo stesso art. 113, comma 15-bis del T.U.E.L. (secondo periodo e seguenti) così come da varie leggi regionali.
Stupisce inoltre che il decreto legislativo, nonostante i rilievi della Commissione della Camera, continui ad ignorare completamente il potere normativo regionale ai fini della specifica declinazione delle componenti generali di costo per la determinazione della tariffa del servizio idrico integrato, dopo che la Corte costituzionale ha chiaramente intravisto in merito una prevalente competenza regionale. Contrariamente a quanto sostenuto dal Governo, la sentenza 335/2005 ha infatti respinto il ricorso proposto dallo Stato contro una legge regionale che affidava ad un decreto del Presidente della Giunta la definizione del metodo per la determinazione della tariffa relativa al servizio idrico integrato ed alla gestione dei rifiuti dichiarandolo “inammissibile per l'assenza di qualsiasi motivazione in ordine ai parametri costituzionali, peraltro di dubbia pertinenza, meramente invocati”.
Anche nel merito, infine, gli interventi operati sulla tariffa lasciano del tutto perplessi, come l’omissione della previsione già contenuta nell’articolo 13 della legge 36/1994 e concernente la necessità di tener conto “degli obiettivi di miglioramento della produttività”. Una tale carenza - rinunciando all’utilizzo di uno degli strumenti più efficaci per favorire il miglioramento dell’efficienza delle gestioni, ovvero della leva tariffaria - configura una tariffa priva del controllo sui costi di gestione e può implicare il riconoscimento a piè di lista dei costi operativi del gestore eliminando il miglioramento progressivo in termini di efficienza previsto dalla normativa precedente.
CONSIDERAZIONI SULLA PARTE IV IN MATERIA DI GESTIONE DEI RIFIUTI E DI BONIFICA DEI SITI INQUINATI.
La disciplina in materia di rifiuti e bonifiche ha subito una notevole evoluzione: dopo una fase iniziale di applicazione, il d.lgs. n. 22/1997 è stato oggetto di modifiche che hanno significativamente migliorato l’impianto complessivo della norma.
In materia di gestione rifiuti
Per quanto concerne i rifuti lo schema del nuovo decreto delegato non solo non pone rimedio alle criticità ancora esistenti ma, intervenendo drasticamente su alcuni aspetti della normativa vigente, va a modificare l’organizzazione delle competenze e dell’intero sistema di gestione proprio negli istituti che finora sono stati applicati con buoni risultati, senza peraltro fornire gli elementi per una diversa organizzazione del sistema, coerente con il quadro costituzionale e aderente ai principi comunitari.
In un quadro involutivo rispetto all’attuale si spostano competenze dalla periferia al centro, si sovrappongono e duplicano funzioni e atti di programmazione, si separano settori che al contrario necessitano da tempo di integrazione, si moltiplicano i processi decisionali e di controllo aumentando l’incertezza degli operatori pubblici e privati, annullando processi regionali e locali di grande valore e di riconosciuta efficacia, nonché programmi e traguardi raggiunti, allontanando l’allineamento del nostro paese alla disciplina europea.
Dietro l’obiettivo di semplificazione dell’intera normativa si nasconde un altissimo rischio di allentamento delle maglie della tutela del bene ambiente, costituzionalmente garantito.
Emerge con evidenza sin dalla prima analisi del testo che uno tra gli obiettivi principali è quello di sottrarre quanto più possibile i rifiuti da attività industriali ed artigianali, alla disciplina di settore escludendo le aziende da significativi obblighi di carattere sostanziale, anzichè operare con alleggerimenti burocratici nell’ambito della normativa dei rifiuti. In tal modo si rende tortuoso e indecifrabile il percorso del rifiuto a partire dalla sua produzione.
Con un apposito articolo, particolarmente dettagliato, vengono espressamente e direttamente escluse dall’ambito dei rifiuti e dall’applicazione della normativa le terre e rocce da scavo con evidenti contraddizioni rispetto agli orientamenti delle istituzioni comunitarie. In merito alla disciplina delle terre e rocce da scavo di cui alle l. n. 93/2001 e l. n. 443/2001 (“delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici”) la Commissione europea ha avviato nei confronti dello Stato italiano una specifica procedura di infrazione.
Il decreto legislativo colloca in primo piano il ruolo dello Stato limitando fortemente l’autonomia delle regioni e degli enti locali, in contrasto i principi introdotti con la riforma del titolo V della Costituzione e, in particolare, con gli artt. 117 e 118 Cost.
Le Regioni perdono ogni autonomia legislativa, anche laddove questa viene costituzionalmente garantita ovvero in materia di governo del territorio (competenza concorrente) e di tutela dell’ambiente (nella interpretazione fatta propria dalla Corte Costituzionale) e devono osservare, in ciascun aspetto della materia e anche per l’esercizio delle competenze amministrative, linee guida elaborate dallo Stato.
Le Province si vedono sottrarre gran parte delle funzioni amministrative concernenti la programmazione e la organizzazione della gestione rifiuti.
I Comuni perdono l’attribuzione espressa della gestione, in privativa, dei rifiuti assimilati agli urbani. Il legislatore limita drasticamente la facoltà di assimilazione con conseguente riduzione dei rifiuti sottoposti alla programmazione degli enti pubblici, estensione dell’area dei rifiuti speciali, limitazione della sfera di gestione degli operatori pubblici con una riduzione del gettito tariffario.
Altro aspetto rilevante riguarda la creazione di nuovi enti di gestione e di controllo che determina la sottrazione di buona parte delle competenze attualmente in capo a Regioni e Province per attribuirle in modo confuso ai nuovi enti, con sovrapposizione e duplicazione di funzioni e atti di programmazione, creando incertezza per gli operatori pubblici e privati. Ulteriore conseguenza di tale disegno è la difficoltà di individuazione del soggetto responsabile delle scelte in campo ambientale.
In tal senso è paradigmatica l’attribuzione all’autorità di ambito delle competenze relative all’affidamento del servizio di gestione integrata dei rifiuti, sulla base di contratti di servizio conformi ad uno schema tipo adottato dalle Regioni, osservando criteri ed indirizzi elaborati dallo Stato.
Mentre il d.lgs. n. 22/1997 prevede obiettivi di raccolta differenziata e una scala di priorità certe ( riutilizzo, riciclaggio, recupero di materia, recupero di energia e infine smaltimento) il nuovo testo fa genericamente riferimento al recupero ponendo sullo stesso piano ed anzi avvantaggiando il recupero di energia. Gli obiettivi di raccolta differenziata vengono completamente vanificati con lo spostamento al 2006 di obiettivi già fissati al 2003 (35% di RD). Viene inoltre considerato come raccolta differenziata anche il rifiuto raccolto indifferenziatamente e separato successivamente in impianti dedicati. In tal modo si elude il significato effettivo di RD che ha lo scopo di separare al momento della raccolta le varie frazioni che compongono il rifiuto garantendo una qualità che permette un effettivo recupero di materia, evitando così il conferimento in discarica. L’esperienza ventennale nella gestione di tale rifiuto consente di affermare con certezza che il rifiuto separato meccanicamente è di qualità scadente, non può essere recuperato ed ha come unica destinazione lo smaltimento in discarica.
Vengono in tal modo vanificati gli sforzi effettuati dalle amministrazioni virtuose.
Sul sistema autorizzativo si rileva che, al di là delle possibili semplificazioni per cui si rimanda alle osservazioni in materia di accordi di programma e alle norme che consentono alle aziende registrate EMAS di sostituire il rinnovo dell’autorizzazione con la presentazione di un’autocertificazione, la durata dell’autorizzazione viene portata a dieci anni; termine che appare eccessivo anche in relazione all’evoluzione tecnologica cui sono soggetti gli impianti tecnologici di recupero e smaltimento dei rifiuti.
A titolo esemplificativo si descrivono in sintesi gli aspetti più problematici dello schema di decreto in discussione.
Recupero dei rifiuti – accordi di programma
Il ricorso allo strumento degli accordi e dei contratti di programma tra soggetti pubblici e privati esorbita dai limiti propri dell’istituto essendo previsto che i medesimi accordi possano attuare norme del decreto sostituendosi ampiamente all’attività normativa secondaria. Tale scelta normativa stravolge il sistema delle fonti del diritto in quanto ammette che gli accodi producano una disciplina generale ed astratta soggetta ad approvazione con decreto ministeriale e aperta all’adesione di terzi. L‘approvazione degli accordi con decreto ministeriale e l’applicazione del decreto esclusivamente agli aderenti, comporterebbe il venir meno dei principi di certezza del diritto, uguaglianza, generalità ed astrattezza delle norme.
L’attività normativa viene affidata, con una delega in bianco, a una fonte atipica quale l’accordo di programma il cui contenuto è elaborato con il concorso di alcuni soggetti privati, destinatari della norma stessa.
Si riscontra una sostanziale contrattualizzazione dell’attività normativa. La disposizione contrasta con principi fondamentali dell’ordinamento che escludono la possibilità di accordi tra enti pubblici e privati con riferimento ad attività normativa e programmatoria (art. 11, 13 l. n. 241/2000 e 34 d.lgs. n. 267/2000).
Nel merito con gli accordi di programma si viola la normativa delle direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE sulla necessità di fissazione, nell’ambito di atti normativi definiti in via generale, dei criteri per l’espletamento delle attività di recupero. In contrasto con la normativa comunitaria viene prevista in via generale la possibilità di escludere completamente l’attività di recupero dal regime autorizzativo. Ai sensi dell’art. 11 della Direttiva 75/442/CEE la dispensa dall’autorizzazione è subordinata all’adozione da parte delle “autorità competenti” di “norme generali che fissano i tipi e le quantità di rifiuti” soggette alla dispensa. Nell’ipotesi in esame non sussisterebbe il quadro normativo generale richiesto dalla direttiva.
La deroga al sistema autorizzativo e l’esclusione dalla prestazione delle garanzie finanziarie (con iscrizione in apposita sezione dell’albo) a favore dei soggetti che concludono accordi di programma si pone in contrasto con i principi generali dell’ordinamento sopra indicati.
Tale scelta normativa stravolge il sistema delle fonti del diritto in quanto ammette che gli accodi producano una disciplina generale ed astratta soggetta ad approvazione con decreto ministeriale e aperta all’adesione di terzi. L‘approvazione degli accordi con decreto ministeriale e l’applicazione del decreto esclusivamente agli aderenti, comporterebbe il venir meno dei principi di certezza del diritto, uguaglianza, generalità ed astrattezza delle norme.
Definizioni
- raccolta differenziata: occorre mantenere la definizione già in essere nel d.Lgs. 22/97, in quanto la nuova definizione vanifica il vero significato della RD. Non è ammissibile identificare con il termine raccolta differenziata operazioni di separazione che avvengono durante la lavorazione del rifiuto, e quindi successivamente alla raccolta. Inoltre si ritiene che debba essere privilegiato il recupero dei materiali di qualità e quindi che sia necessario un conferimento separato dei rifiuti per frazioni omogenee.
- Alla luce dei lavori in corso in sede di conferenza Stato Regioni (tavolo tecnico sui centri di raccolta) si ritiene necessario l’inserimento tra le definizioni di “centri pubblici di raccolta per rifiuti urbani” anche al fine di escluderli dal sistema autorizzativo generale.
Competenze - aspetti generali
- Sotto il profilo della funzione legislativa lo Stato avrebbe dovuto attenersi ai criteri elaborati, dopo la riforma del titolo V della Costituzione, dalla giurisprudenza della Consulta e nello specifico:
a) il riconoscimento dell’ambiente come "valore" costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia trasversale, in ordine alla quale si manifestano competenze regionali, spettando allo Stato le sole determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale[10];
b) l’affermazione dello spirito di corresponsabilità e di leale collaborazione, che deve informare i rapporti interistituzionali per garantire l’effettività della tutela attraverso un approccio alle tematiche delle politiche ambientali che, coinvolgendo tutti gli enti, possa tener conto della complessità del tema[11];
c) l’ampia applicazione del principio di sussidiarietà, di matrice europea, rapportando gli interventi alla dimensione territoriale degli interessi e all’individuazione del livello ottimale di allocazione delle diverse funzioni.
- Con il decreto viene sostanzialmente vanificata la competenza concorrente delle regioni in materia di governo del territorio. Il decreto contiene una disciplina di dettaglio escludendo qualsiasi intervento legislativo regionale autonomo.
- La scelta compiuta dal legislatore delegato in ordine alla distribuzione delle competenze amministrative tra Stato, Regioni ed enti locali si pone in contrasto con i principi costituzionali di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza previsti dall’art. 118 della Costituzione comprimendo la sfera di intervento delle Regioni e degli enti locali e favorendo un deciso accentramento dei poteri a livello ministeriale non giustificato da esigenze di trattamento unitario degli interessi coinvolti.
In ambito pianificatorio e programmatorio i vincoli stabiliti in sede ministeriale ledono le potestà regionali in ordine alla definizione degli indirizzi e all’organizzazione del sistema di governo delle attività connesse alla gestione rifiuti.
Competenze - aspetti specifici
1) Accentramento di competenze da parte dello Stato
a) Programmazione
L’accentramento a livello ministeriale delle attività programmatorie e pianificatorie emerge in particolare nell’individuazione degli impianti di recupero e smaltimento di preminente interesse nazionale senza l’intesa della conferenza Stato Regioni e delle Regioni interessate alla localizzazione dell’impianto; nella determinazione di criteri generali per la elaborazione dei piani regionali che sono una prerogativa esclusiva delle regioni; delle linee guida per la delimitazione degli ambiti territoriali ottimali; della determinazione delle linee guida per la definizione delle gare d’appalto e dei relativi capitolati.
Ne consegue una sostanziale esclusione delle Regioni dall’esercizio dell’attività pianificatoria sul territorio di propria competenza in merito agli impianti di recupero e smaltimento di preminente interesse nazionale.
Non sono definiti chiaramente i presupposti per l’esercizio della competenza statale ed emerge una sovrapposizione tra le competenze pianificatorie e operative delle Regioni e delle ATO nella stessa materia.
b) Qualità dei servizi
Deve ritenersi di competenza statale esclusivamente l’individuazione degli standard minimi di prestazione del servizio agli utenti mentre rientra nella sfera delle competenze regionali e locali la determinazione degli obiettivi, che non possono ritenersi uniformi su tutto il territorio nazionale.
La previsione in oggetto esorbita dalle competenze costituzionalmente affidate allo Stato limitando fortemente il campo di intervento regionale in un’attività caratterizzante dell’azione politica.
c) Assegnazione della concessione del servizio integrato
La previsione in oggetto là dove stabilisce i vari criteri in base ai quali le gare devono essere aggiudicate eccede evidentemente dalle competenze statali in materia di concorrenza e si pone in contrasto con la giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 272/2004) realizzando una illegittima compressione dell'autonomia regionale.
Occorre che tali linee guida siano elaborate secondo principi di carattere generale.
d) Piani regionali di gestione dei rifiuti
La previsione di un potere sostitutivo in capo al Ministro dell’Ambiente per omissioni rispetto ai contenuti del piano regionale contrasta con il principio di sussidiarietà, costituzionalmente garantito, e di omogeneità di cui alla L. 59/1997
e) Assimilazione
Il decreto fissa alcuni criteri per l’assimilazione demandando ad un successivo decreto ministeriale la determinazione di ulteriori criteri qualitativi e quali-quantitativi per l’assimilazione. A tal proposito si evincono dei limiti di assimilazione sui rifiuti che potrebbero avere ripercussioni sull’organizzazione dei servizi integrati e sull’applicazione della tariffa. Al fine di permettere una programmazione efficiente sarebbe opportuno prevedere l’estensione della privativa su tutte le fasi della gestione dei rifiuti, oggetto di assimilazione. In tal caso solo i produttori di rifiuti non assimilati (derivanti da aree aventi superfici superiori ai 150 metri quadri nei comuni con popolazione residente inferiore a 10.000 abitanti, o superficie superiori a 250 metri quadri nei comuni con popolazione residente superiore ai 10.000 abitanti) non usufruirebbero del servizio di raccolta svolto dal servizio pubblico, a meno di ricorso ad apposite convenzioni tra le parti.
Per quanto riguarda l’applicazione della tariffa, la scelta del legislatore di escludere dall’assimilazione un rilevante quantitativo di rifiuti potrebbe determinare una sensibile riduzione del gettito introitato dalle amministrazioni comunali. Tale riduzione, legata alla mancanza di iscrizione a ruolo dei soggetti produttori di rifiuti non assimilati, potrebbe avere delle ripercussione sulle ripartizione dei costi relativi ai servizi accessori effettuati dalle amministrazioni comunali, ad esempio il servizio di spazzamento e lavaggio strade.
2) Competenze delle Regioni
Le competenze regionali vengono limitate in quanto gli atti regionali devono attenersi a specifici criteri emanati dallo Stato in una serie di aspetti che attengono alla sfera di intervento regionale. Peraltro una serie di criteri già di competenza statale a distanza di otto anni dall’emanazione del d.lgs. n. 22/1997 non sono ancora stati emanati bloccando l’attuazione della norma.
Si rileva che viene affidata all’autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti una serie poteri di controllo difficilmente coordinabili con le competenze attribuite agli enti locali.
Si ritiene inoltre in contrasto con il principio di sussidiarietà, costituzionalmente garantito, e di omogeneità di cui alla l.n. 59/1997 la previsione di un potere sostitutivo in capo al Ministro dell’Ambiente per omissioni rispetto ai contenuti del piano regionale
3) Competenze delle Province
Vengono sottratte alle province tutte le competenze amministrative concernenti la programmazione e l’organizzazione della gestione dei rifiuti. La frammentazione delle attribuzioni delle funzioni sottratte alle province e affidati ad altri soggetti e istituti (es. albo, ATO, autorità di vigilanza, accordi di programma) sarà di ostacolo all’ottimizzazione della gestione dei rifiuti e allo scambio di dati e informazioni.
Occorre riflettere sull’opportunità di attribuire alle Province esclusivamente funzioni di controllo in quanto molte non sono più strutturate per tali fini e conseguentemente devono avvalersi di altri organismi pubblici (vedi ARPA).
4) Competenze dei Comuni
Così come disciplinate, le competenze dei comuni si sovrappongono a quelle attribuite all’ATO: i comuni devono adottare i propri regolamenti sulla base delle decisioni assunte nell’ambito dell’ATO.
Per quanto riguarda le disposizioni di carattere sanitario non sono di competenza di questo decreto. Inoltre i comuni non possono assicurare tale tutela in alcune operazioni sui rifiuti in quanto non di loro competenza.
Raccolta differenziata
Occorre assolutamente evitare che l’obbligo di raggiungere almeno il 35 % di raccolta differenziata, già in vigore dal marzo 2003, sia rinviato al 31 dicembre 2006, in quanto tutte le programmazioni in materia hanno tenuto conto di tale obbligo e gestito risorse e strumenti per raggiungerlo.
Occorre rivedere la definizione di raccolta differenziata, soprattutto per quanto riguarda frazione organica umida separata fisicamente dopo la raccolta in quanto è un rifiuto derivante da un trattamento effettuato su rifiuti indifferenziati.
Non si condivide che per l’eventuale indicazione di maggiori obiettivi di raccolta differenziata debba essere necessaria un’apposita legge regionale.
Autorizzazioni e iscrizioni
Si evidenzia un’assenza di sistematicità nell’ambito delle previsioni del decreto relative al sistema autorizzativo. E’ necessaria la rivisitazione degli articoli relativi alle procedure ordinaria e semplificata coordinandoli con le norme che prevedono deroghe al medesimo sistema.
Gli esoneri dalle autorizzazioni escludono la possibilità di controllo sulle attività di gestione ponendosi in contrasto con la direttiva comunitaria sui rifiuti. Sarebbe auspicabile una semplificazione dell’iter autorizzativo che non va confuso con la sottrazione al sistema autorizzativo.
Particolarmente significativa è la previsione che ammette la possibilità di attuare le norme tramite accordi di programma sottraendo le attività di recupero alla procedura semplificata
La comunicazioni in ordine alle procedure semplificate sono demandate all’Albo. Si ritiene che tale competenza debba rimanere in carico alle province.
Desta preoccupazione la previsione della lista di rifiuti non pericolosi che non sottostanno all’obbligo di comunicazione semplificata.
La durata dell’autorizzazione stabilita in dieci anni appare inoltre eccessiva.
Catasto, MUD, formulari
- Occorre che le norme di organizzazione e gestione del Catasto siano stabilite d’intesa con le Regioni e che inoltre siano prese in considerazione le esigenze di informazione dell’UE contenute nel Reg. 2150/2002.
- E’ necessario rendere disponibili le informazioni contenute nei MUD a tutti gli Enti competenti in materia di programmazione sulla gestione dei rifiuti, stabilendo inoltre tempistiche idonee e concordate con i suddetti Enti.
- In merito ai formulari di identificazione eliminare il riferimento agli uffici regionali e provinciali competenti in materia di rifiuti.
Albo nazionale gestori ambientali
In merito all’istituzione di registri delle imprese autorizzate alla gestione dei rifiuti e del loro aggiornamento mensile, si ritiene che le disposizioni previste risultino piuttosto gravose e non prendano in considerazione i sistemi informativi già presenti, ne il coordinamento di tali sistemi.
Procedure semplificate
Non si condivide la possibilità di derogare le disposizioni dei decreti relativi al recupero dei rifiuti tramite accordi di programma.
Operazioni di recupero
Non si ritiene opportuno demandare all’Albo le procedure semplificate sul recupero dei rifiuti. Si propone di lasciare la suddetta competenze alle Amministrazioni provinciali
Tariffa
Nell’ambito dell’applicazione della tariffa non si ritiene opportuno utilizzare dei parametri che esulano dalle quantità e qualità medie dei rifiuti prodotti per unità di superficie.
In materia di bonifica di siti inquinati
Per quanto concerne il nuovo testo in materia di bonifica, si osserva che la modifica dell’impianto giuridico, costituito dall’articolo 17 del d.lgs. 22/1997, tende a spostare l’obiettivo della norma dalla primaria tutela dell’ambiente alla tutela dell’attività produttiva senza troppo contemperare queste due lecite istanze, configurando a tutti gli effetti un eccesso rispetto alla delega conferita dal Parlamento che prevede una distinzione delle previsioni tra siti con attività produttive e non.
Vengono infatti introdotti nuovi vincoli procedurali che pongono pesanti limitazioni all’azione della Pubblica Amministrazione nei confronti di chi ha causato una situazione di inquinamento; tale effetto è rafforzato dal fatto che tutta la precedente struttura delle competenze con l’attribuzione della potestà autorizzativa dai Comuni alla Regione viene quasi completamente rivoluzionata pur non essendo ciò previsto dalla legge 308/2004 ed in assoluto contrasto con il principio di sussidiarietà dell’azione amministrativa.
L’articolo 242, che disciplina le procedure amministrative risulta essere non coordinato internamente e lascia ampi margini di incertezza sui ruoli dei soggetti coinvolti. Se da un lato la competenza procedimentale viene affidata alla Regione, dall’altra essa è vincolata nella sua azione ad una conferenza decisoria (si suppone ai sensi della l. 241/1990) i cui partecipanti non sono a priori definiti, ma possono variare a seconda dei casi.
Va inoltre osservato che tale norma trasferendo la responsabilità del procedimento in capo ad un unico ente paralizza di fatto il procedimento per l’attuazione degli interventi di bonifica ed inoltre comporterebbe la necessità di un aggiustamento del quadro normativo regionale con i relativi tempi e le incertezze amministrative.
Viene poi nel resto del testo fatto genericamente riferimento ad una “Autorità competente” che in molti casi non è facilmente identificabile dal momento che non è specificato a cosa sia competente.
È poi eliminato il privilegio generale mobiliare nei confronti del responsabile dell’inquinamento ed è modificata l’applicabilità dell’onere reale sulle aree, indebolendo sensibilmente la posizione della Pubblica Amministrazione nel momento in cui essa debba recuperare le somme spese per la realizzazione in danno degli interventi.
La riforma si incentra comunque sull’introduzione della definizione di “messa in sicurezza operativa”, tale modalità di intervento, benché essenzialmente prevista dalla legge delega, risulta andare oltre le previsioni dando implicitamente la possibilità alle aziende di inquinare le aree di propria competenza fatta salva la necessità di monitorare che tale inquinamento non causi problemi sanitari ai lavoratori e non si propaghi all’esterno.
La bonifica è rimandata non a quando l’azienda si sarà organizzata per farlo coordinatamente alle altre proprie attività, secondo un piano operativo eventualmente concordato, ma indefinitamente a quando l’attività stessa verrà dismessa. Ciò, per assurdo, potrebbe comportare il mantenimento di piccole attività fittizie su grandi aree industriali al solo scopo di non dover attuare il risanamento dell’area.
Risulta inoltre opportuna una riflessione sulla prestazione delle garanzie finanziarie già precedentemente previste dalla normativa a favore delle Regioni.
Le nuove disposizioni riducono di fatto, o potrebbero rendere addirittura insignificante, lo strumento introdotto dal precedente “decreto Ronchi” per assicurare la realizzazione ed il completamento degli interventi di bonifica già avviati.
Non viene infatti indicato un limite minimo per la presentazione delle garanzie finanziarie e la fissazione del tetto massimo del 50 % nega agli enti territoriali la facoltà di determinare importi diversi per garantire il raggiungimento degli obiettivi di bonifica e di tutelare nel contempo in termini ragionevoli la spesa pubblica necessaria al raggiungimento degli stessi.
Si rimarca la mancanza di forme sanzionatorie nei casi in cui i soggetti obbligati non provvedano al versamento delle garanzie finanziarie prescritte.
Risulta infine necessario introdurre un chiarimento in merito all’eventuale obbligo di versamento delle garanzie da parte dell’ente pubblico qualora responsabile dell’inquinamento.
Sempre nell’ottica di favorire essenzialmente il processo produttivo senza alcuna valutazione sulla compatibilità con l’ambiente delle scelte è da intendere la previsione, devastante dal punto di vista della possibilità della gestione amministrativa del problema, riportata all’articolo 265 comma 4 che sancisce la possibilità di riformulare in termini meno gravosi per i soggetti responsabili la gran parte degli interventi approvati a far data dall’entrata in vigore del D.M. 471/1999.
L’entrata in vigore di una norma siffatta prefigura, in definitiva, una situazione di ingestibilità del problema da parte del sistema pubblico vanificando i risultati ottenuti in molte Regioni in materia di bonifica di siti inquinati.
Il testo in materia di bonifiche risulta ancora poco integrato con quello elaborato in ordine al danno ambientale ed anzi in alcuni aspetti le due discipline sembrano sovrapporsi in modo discordante. Da ciò può conseguire una pericolosa ambiguità per la possibilità di applicazione.
Di particolare rilievo è poi la modifica delle competenze in materia di interventi di interesse nazionale per i quali non è più prevista l’intesa con la Regione territorialmente competente per l’approvazione del progetto ma, in completa dissonanza con il resto del testo, la conferenza di servizi introdotta non è definita come “decisoria” ed è quindi da intendersi meramente consultiva. Tenuto conto della natura degli interventi di interesse nazionale, incidenti su territori vasti e che coinvolgono aspetti socio economici e di gestione territoriale rilevantissimi, la scelta è in netto contrasto con i pronunciamenti della Corte Costituzionale in materia di ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, oltre che con le valutazioni da più parti espresse per una delega al livello locale di tale tipo di interventi.
Il testo in esame non tiene poi conto del fatto che in base alla legge 426/1998 ed al D.M. 468/2000 i fondi del programma nazionale delle bonifiche sono già stati trasferiti alle Regioni che verrebbero quindi a dover gestire finanziamenti per interventi da esse non approvati.
Vista l’esperienza degli ultimi anni e le complesse problematiche emerse si poteva poi cogliere l’opportunità di prevedere che la programmazione degli interventi di bonifica non fosse parte integrante del piano di gestione dei rifuti.
Per quanto riguarda l’allegato 1 si sottolinea come esso riporti senza modifiche o correzioni le tabelle dell’attuale allegato 1 al D.M. 471/1999; come da più parti segnalato tali tabelle contengono numerosi errori o limiti per i quali è necessario provvedere ad una nuova formulazione, ciò anche in considerazione che, benché l’analisi di rischio sito specifica permetta una valutazione accurata di limiti più aderenti alla realtà del singolo intervento, un limite troppo restrittivo implica comunque la realizzazione di una dispendiosa caratterizzazione. Deve pertanto essere fatto riferimento allo specifico documento Apat – Arpa che ha evidenziato puntualmente gli specifici aspetti da modificare. Tra essi si sottolinea particolarmente quello relativo al limite per i PCB in area residenziale / verde pubblico che, nell’attuale definizione, risulta sensibilmente inferiore ai livelli medi della presenza di fondo di tali composti sul territorio nazionale, soprattutto per quanto le aree urbanizzate; si propone dunque di adottare il limite di 0,06 mg/kg utilizzato dalla U.S. E.P.A..
CONSIDERAZIONI SULLA PARTE V IN MATERIA DI TUTELA DELL’ARIA E DI RIDUZIONE DELLE EMISSIONI IN ATMOSFERA
Secondo il mandato della legge delega il decreto doveva affrontare la revisione della disciplina per le emissioni di gas inquinanti in atmosfera, nel rispetto delle norme comunitarie ed in particolare della Direttiva 2001/81/CE, la cosiddetta “Direttiva NEC” (recepita con d.lgs. 21 maggio 2004, n. 171) e degli accordi internazionali sottoscritti in materia, prevedendo una serie di attività di cui solo le n. 1 (integrazione della disciplina relativa alle emissioni provenienti dagli impianti di riscaldamento per uso civile), n. 3 (disciplina in materia di controllo delle emissioni derivanti dalle attività agricole e zootecniche) e n. 6 (prescrizioni per i grandi impianti di combustione esistenti) sono, sia pure in modo molto discutibile, trattate nella Parte quinta in esame.
Il decreto non tratta affatto gli altri punti che, peraltro, avrebbero certamente richiesto un coordinamento con altri Ministeri, in particolare quello delle Attività Produttive, coordinamento che il testo del decreto in esame dimostra non essere avvenuto nemmeno all’interno del Ministero Ambiente medesimo (vedasi, ad esempio, nella parte Rifiuti, la citazione di norme che, nella parte Aria, vengono abrogate).
Il decreto sembra principalmente, anzi unicamente, finalizzato agli aspetti dei processi autorizzatori, tanto che anche i diffusi e ripetuti richiami ai piani e programmi previsti in materia di qualità dell’aria, ne colgono solo l’aspetto riguardante la fissazione di “Prescrizioni” o “Valori limite” più o meno restrittivi da parte delle autorità preposte alla loro elaborazione, ricordando che non è ammissibile imporre limiti più restrittivi senza aver completato i processi di pianificazione.
Sembra inoltre che il decreto sia ispirato ad una limitazione dei poteri oggi in capo alle Regioni: all’art. 281, comma 10, si prevede, infatti la necessità di un’intesa con il Ministro per la fissazione di limiti più restrittivi da parte della Regione. Tale disposizione è inaccettabile e lesiva delle attuali competenze regionali di programmazione/pianificazione in materia e non sembra nemmeno essere in linea con quanto previsto in altre normative quali ad es. l’art. 8 del d.lgs 59/2005 in materia di IPPC che espressamente prevede la possibilità per le Regioni di fissare all’occorrenza limiti più restrittivi, facoltà peraltro riconosciuta di recente dalla giurisprudenza costituzionale. Il contrasto fra i due approcci è ben evidente e poiché IPPC nasce proprio sulla scorta dell’approccio regolatore fissato dalla Direttiva quadro in materia di qualità dell’aria 84/360/CE, una limitazione più rigida alla potestà delle Regioni appare al contempo immotivata e pericolosa.
La legge delega non conteneva mandato per il recepimento della Direttiva 2001/80/CE relativa ai grandi impianti di combustione (Direttiva LCP che doveva essere recepita in via amministrativa nell’ambito della Legge comunitaria 2002), ma si limitava a richiedere la predisposizione del piano nazionale di riduzione di cui all’articolo 4, paragrafo 6 della medesima per stabilire prescrizioni per i grandi impianti di combustione esistenti (vale a dire quelli la cui autorizzazione iniziale di conduzione sia stata concessa anteriormente al 1° luglio 1987, che l’Italia aveva già fatto diventare 1° luglio 1988 nel decreto di recepimento della vecchia direttiva 88/609/CEE di cui la 2001/80/CE costituisce “aggiornamento”). Peraltro il suddetto piano nazionale di riduzione avrebbe dovuto essere presentato entro il 27 novembre 2003 alla Commissione Europea, perché lo potesse valutare entro il 27 maggio 2004, tutti termini ampliamente trascorsi prima dell’approvazione della legge delega n. 308/2004.
Occorre peraltro rilevare che solo i grandi impianti di combustione di potenzialità pari a 50 MW termici sarebbero soggetti all’autorizzazione prevista nella parte V del decreto in esame, in quanto tutti gli altri di potenzialità superiore a 50 MW termici ricadono nella Direttiva IPPC. La problematicità dei rapporti fra la Direttiva LCP e la Direttiva IPPC risulta oltretutto essere un tema all’ordine del giorno in Europa sul quale si sta ampiamente dibattendo.
L’assenza poi di qualunque riferimento alla Direttiva NEC è l’ulteriore riprova di come non sia stato effettuato nessuno sforzo per almeno tentare di porre in relazione in modo sinergico le Direttive NEC, LCP e IPPC ed il sistema di autorizzazione delle emissioni in atmosfera, in un’ottica di pianificazione per la tutela ed il miglioramento della risorsa “aria”.
Va inoltre notato a questo proposito, come questo decreto, ma anche quello relativo a “VAS, VIA e IPPC”, non richiamino in nessun modo il sistema di autorizzazione alla emissione di gas serra introdotto con la Direttiva 2003/87/CE, il cosiddetto “Emission Trading Scheme”, sviluppato in modo completamente centralizzato con i noti decreti di fine 2004, che hanno visto la totale esclusione delle Regioni dal processo.
Eppure la valutazione della introduzione di strumenti regolatori basati sul mercato, anche se certamente difficile da strutturare e praticare, è una possibilità che può essere contemplata nei piani di risanamento e che può riguardare anche inquinanti diversi da quelli regolati dal protocollo di Kyoto. Non affrontare nel decreto questo aspetto di evoluzione dei sistemi regolatori sembra di fatto una limitazione alla azione degli enti che sono preposti alla pianificazione.
Titolo I – Prevenzione e limitazione delle emissioni in atmosfera
Premesso che risulta inderogabile il fatto che prima di arrivare alla individuazione di una procedura autorizzatoria debbano essere stabiliti con chiarezza i seguenti concetti:
impianto: stabilimento o unità tecnica permanente in cui siano svolte una o più attività che possono provocare inquinamento atmosferico. La presente definizione include tutte le installazioni funzionali all’impianto ed il sito ove queste sono ubicate.
autorità competente: la regione o la provincia autonoma o la diversa autorità indicata dalla legge regionale quale autorità competente al rilascio dell’autorizzazione alle emissioni.
gestore: qualsiasi persona fisica o giuridica che detiene o gestisce l’impianto
autorizzazione: atto scritto con cui l’autorità competente consente al soggetto richiedente di costruire, modificare, trasferire ed esercire un impianto a determinate condizioni. L’autorizzazione deve stabile la quantità e la qualità delle emissioni, le metodologie di controllo delle stesse, nonché il termine per la messa a regime dell’impianto e la data di scadenza.
contenuti della domanda di autorizzazione: progetto dell’impianto in cui sono descritti ciclo produttivo, tecniche adottate per limitare le emissioni, qualità e quantità delle emissioni, termine per la messa a regime dell’impianto.
autorità competente al controllo: l’autorità competente al controllo è quella che rilascia l’autorizzazione. La stessa può avvalersi per l’espletamento della funzione di controllo della collaborazione di soggetti all’uopo individuati.
Per quanto attiene invece l’individuazione del campo di applicazione va osservato che:
- sono esclusi gli impianti soggetti ad IPPC;
- sono esclusi gli impianti normati di recente come gli inceneritori, per i quali si rinvia al d.lgs 133/2005 (anche se nell’applicazione delle procedure semplificate del recupero rifiuti è prevista una previa autorizzazione ai sensi della Parte V del decreto);
- sono esclusi gli impianti indicati al comma 5 dell’art. 272 (impianti per la difesa nazionale, sfiati da ambienti di lavoro, ecc.), nonché una parte degli ex “impianti ad inquinamento atmosferico poco significativo” precedentemente governabili con normativa tecnica autoregolamentante in quanto esclusi non dal campo di applicazione ma solo dalle procedure autorizzative;
riservando pertanto le indicazioni relative alla procedura autorizzatoria ed ai limite di emissione esclusivamente ad impianti di dimensione medio-piccola.
E’ bene notare che una delle innovazioni introdotte che potrebbe essere accolta favorevolmente è la fissazione di un tempo massimo di validità dell’autorizzazione.
Appare tuttavia utile sottolineare come questa previsione sia contraddittoria: da un lato è certamente positiva rispetto ad una situazione in cui le autorizzazioni ex DPR 203/88 non avevano scadenza; dall’altro lato, la durata di 15 anni sembra assolutamente sproporzionata, sia rispetto ai processi di adeguamento degli impianti alle nuove esigenze ambientali dettate dalle politiche di sostenibilità (viene infatti annullata la possibilità per l’autorità competente di modificare d’ufficio le prescrizioni dell’autorizzazione in seguito all’evoluzione delle Migliori Tecniche Disponibili e della situazione ambientale, possibilità che viene conservata esclusivamente ogni 15 anni in sede di rinnovo dell’autorizzazione), sia rispetto alla durata di altre autorizzazioni ambientali, quali ad esempio:
- autorizzazione integrata ambientale (IPPC) che di norma dura 5 anni, oppure 6 anni per impianti certificati ISO 14.000 e 8 anni per quelli certificati EMAS;
- autorizzazione allo scarico idrico che dura 4 anni.
Questa particolarità sembra anche un indicatore del fatto che la previsione che era contemplata nella legge delega di giungere ad una semplificazione dei procedimenti autorizzatori con il rilascio di un’autorizzazione unica, non trova nessun riscontro nel testo della bozza di decreto “Norme in materia di procedure per la valutazione di impatto ambientale (VIA), per la valutazione ambientale strategica (VAS) e per l'autorizzazione ambientale integrata (IPPC)”, continuando quindi a privilegiare un approccio di tipo settoriale.
Una strada possibile di riunificazione potrebbe essere proprio quella di estendere i termini di durata delle autorizzazioni fissati per gli impianti IPPC a tutte le normative settoriali.
Per quanto riguarda le osservazioni relative alla procedura autorizzatoria è bene considerare che il concetto di impianto di cui all’art. 268 della proposta di decreto non è conforme a quanto previsto dalla normativa comunitaria in materia (direttiva 84/360/CEE) e fino ad oggi consolidato nel rilascio delle autorizzazioni alle emissioni in atmosfera (es. DPR 203/88, anche in relazione al DM 44/04, ecc.) che considera l’impianto non come singola macchina o punto di emissione ma l’insieme delle installazioni funzionali alla produzione di beni o servizi, ivi compreso il sito in cui queste sono ubicate.
Inoltre è bene tener presente che non ha nessun significato pratico andare a dividere gli impianti esistenti secondo diverse scadenze temporali, in quanto una procedura semplificativa dei processi autorizzatori dovrebbe individuare come esistenti tutti gli impianti, appartenenti al campo di applicazione, autorizzati prima dell’entrata in vigore del decreto, mentre dovrebbe individuare come nuovi tutti gli impianti per i quali viene presentata domanda di autorizzazione alla costruzione, modifica sostanziale o trasferimento successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto.
Appare inoltre evidente che i valori limite e le prescrizioni riportate negli allegati (l’Allegato I è sostanzialmente la riproposizione del D.M. 12 luglio 1990) sono del tutto carenti per quanto attiene il rilascio delle autorizzazioni per un nuovo impianto, rimandando la definizione di tali indicazioni a provvedimenti legislativi da emanarsi successivamente all’entrata in vigore del presente decreto (entro 1 anno).
Gli allegati 1,2,3 contengono valori limite alle emissioni minimi e massimi la cui logica aveva senso nel 1988, in quanto per la prima volta dava un assetto unico sul territorio nazionale, ma indicava anche l’opportunità di adeguarsi a detti valori entro e non oltre il 1997. Appare ovvio che la riproposizione degli stessi valori limite e degli stessi criteri di valutazione corrisponderebbe ad ammettere che le attività produttive non hanno ottemperato, a distanza di sette anni dall’ultima data di scadenza prevista, al contenuto della norma stessa. Inoltre, comporterebbe la vanificazione degli strumenti amministrativi e tecnici che le regioni hanno posto in essere per il contenimento delle emissioni in atmosfera. Sostanzialmente l’ approvazione e la conseguente adozione del contenuto di questi tre allegati riporterebbe la situazione emissiva al 1990, con il conseguente peggioramento della qualità dell’aria e il mancato incentivo nella applicazione delle migliori tecniche disponibili.
La mancata possibilità delle regioni, in particolar modo per quelle ad alta industrializzazione, di mantenere comunque in essere le proprie discipline specifiche, molto più restrittive rispetto ai contenuti della legge delega, provocherebbe uno stato di confusione procedurale, amministrativa e di contenuto nei singoli provvedimenti portando ad un trattamento non univoco con possibile esborso economico differenziato fra un soggetto in possesso di un atto regionale e un soggetto sottoposto alla disciplina statale in approvazione.
Ne consegue la necessità di definire in un solo allegato, aggiornato sulle base delle migliori tecniche attualmente disponibili, tutto quanto concerne il rilascio di un’autorizzazione per un nuovo impianto (es. limiti di emissione, metodologia di controllo delle emissioni, soglie di applicabilità della norma), lasciando che gli impianti oggi esistenti, per altro già dotati di autorizzazione (anche se tacita in alcuni casi), vadano fino alla naturale scadenza della stessa (5 anni dall’entrata in vigore del presente decreto) nel rispetto delle condizioni autorizzate.
Titolo II - Impianti termici
Con riferimento al Titolo II si osserva preliminarmente che la materia degli impianti termici continua ad essere oggetto di molteplici normative tra loro non coerenti, nonostante la necessità evidenziata in diverse sedi, ivi compresa la legge delega n. 308/2004, di razionalizzare le disposizioni in un’ottica di semplificazione e certezza normativa.
A questo riguardo, gli articoli di riferimento (artt. 282-290) pongono forti perplessità poiché non vanno nella direzione auspicata. Le disposizioni di questo titolo infatti continuano a non raccordarsi con la normativa “energetica” vigente né tanto meno con quanto previsto dal D. Lgs n. 192/2005 di recente emanazione attuativo della direttiva 2002/91/CE in materia di rendimento energetico degli edifici.
In particolare si formulano le seguenti osservazioni:
- all’art. 283, lettera i), continua a persistere l’annosa questione relativa alle autorità competenti in materia di controlli, che a seguito dell’art. 31 del D. Lgs 112/98 dovrebbero essere unicamente le Province (come sottolineato alla Regione Piemonte dal Commissario di Governo);
- l’art. 284 prevede la trasmissione di apposita denuncia all’autorità competente, in caso di installazione o di modifica di un impianto termico civile nominale superiore al valore di soglia, limitandosi a perpetuare le disposizioni della L. n. 615/1966 senza prevederne l’integrazione con quelle derivanti dalla normativa energetica. Il DPR 412/93, come modificato dal successivo DPR 551/99, all’art. 11, comma 11, stabilisce, infatti, oltre al libretto di centrale o di impianto, la scheda identificativa dell’impianto che, per quelli nuovi o sottoposti a ristrutturazione, deve essere compilata dall’installatore. D’altra parte la denuncia, secondo lo schema allegato, è simile (anche se riduttiva) agli schemi di rapporto di controllo tecnico per gli impianti termici di potenza maggiore o uguale a 35 kW e per quelli di potenza inferiore, allegati al testo di recepimento della direttiva citata;
- l’art. 288, nel prevedere e disciplinare nuove sanzioni, non tiene conto delle disposizioni (peraltro articolate) attuative della direttiva 2002/91/CE. E’ pertanto necessaria un’analisi accurata al fine di non determinare confusioni interpretative e applicative. L’art. 34, comma 5, della legge 10/91, (oltremodo discusso anche per l’entità e i destinatari delle sanzioni previste) stabilisce sanzioni per il proprietario o il terzo responsabile, che non ottemperino alle disposizioni relative all’esercizio e manutenzione degli impianti. Il testo attuativo della direttiva citata, stabilisce sanzioni più severe anche nei confronti degli operatori incaricati del controllo e dei manutentori. Da ultimo, l’articolo in esame aggiunge sanzioni per esempio nel caso di omessa denuncia di cui all’art. 284 da parte dell’installatore.
Va infine rimarcato che l’Allegato IX Parte II è una copia delle “antiche” normative del DPR n. 1391/1970 (persino nell’utilizzo delle unità di misura non coerenti con quanto indicato dal sistema internazionale), di cui si era già decretata la necessità di aggiornamento nel DPCM 8 marzo 2002.
CONSIDERAZIONI SULLA PARTE VI IN MATERIA DI TUTELA RISARCITORIA CONTRO I DANNI ALL’AMBIENTE
Per quanto concerne la materia del danno ambientale, premesso che è intenzione del legislatore delegato recepire la Direttiva 2004/35/Ce, con contestuale abrogazione dell'art.18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, occorre evidenziare innanzitutto il sensibile rafforzamento delle competenze in capo al Ministro cui viene riservata, oltre ad ogni decisione in merito alle misure di ripristino e riparazione ambientale (artt.305 e segg.), in una logica centralista nella quale Regioni ed Enti locali non vengono interpellati in ordine alla scelta da adottarsi nel loro territorio, la competenza ad emettere ordinanze- ingiunzioni a contenuto ripristinatorio e risarcitorio (art.313), nonché la competenza ad agire in via giurisdizionale, anche esercitando l'azione civile in sede penale, allo scopo di conseguire l'equivalente patrimoniale o il risarcimento in forma specifica (cfr. art.311).
Alle Regioni, alle Province autonome, agli Enti locali, alle persone fisiche e/o giuridiche viene riconosciuta una facoltà di richiesta dell'intervento statale tramite la presentazione di denunce o osservazioni (art.309), la legittimazione ad agire per l'annullamento di atti e provvedimenti adottati in violazione della normativa in esame, nonché avverso il silenzio inadempimento del Ministro, e la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno subito a seguito di ritardi nell'attivazione – da parte del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio - delle misure di riparazione del danno ambientale (cfr. art.310).
Tale nuovo assetto di competenze risulta riduttivo nei confronti degli Enti territoriali interessati laddove, vigente l'art.18 della legge 349/1986 citata, a detti soggetti viene riconosciuta la legittimazione all'esercizio dell'azione di risarcimento del danno ambientale. Tale "statalizzazione" della tutela del danno ambientale mal si concilia con i principi della sussidiarietà orizzontale e verticale cui, a seguito delle recenti riforme costituzionale, dovrebbe ispirarsi l'azione delle Istituzioni. Posto che l'ambiente viene sempre più considerato un valore, e non una materia, parrebbe opportuno garantire allo stesso forme di tutela sia a livello centrale che periferico.
Peraltro, suscita non poche perplessità l'attribuzione dei (forti) poteri, cui si è fatto cenno, comportanti valutazioni ed attività di carattere prettamente tecnico, in capo ad un soggetto, il Ministro, dagli innegabili connotati politici, il tutto in palese violazione delle normative vigenti in materia di netta separazione tra funzione di indirizzo politico-amministrativo, che spetta agli organi politici e funzioni tecnico-amministrative di attuazione e gestione, di spettanza dirigenziale. E ciò anche se nel testo licenziato dal Consiglio dei Ministri del 19 gennaio 2006 all'art.299, comma 1, viene inserita la previsione che il Ministro esercita funzioni e compiti "direttamente o mediante la Direzione generale per il danno ambientale…omissis…e gli altri uffici ministeriali competenti"."
Con riferimento all’articolo 309, che contempla la richiesta di intervento statale da parte dei soggetti legittimati, si riscontra una differenza rispetto alla disciplina comunitaria, in quanto nello schema di decreto non è prevista la possibilità per il presunto operatore del danno di far conoscere le proprie opinioni circa la richiesta di azione e le osservazioni allegate, in violazione dei principi che prevedono la partecipazione del soggetto al procedimento cui è interessato; solo nel caso in cui il Ministro decida di adottare l’ordinanza è previsto il rispetto degli articoli 7 e seguenti della L.241/90.
L’articolo 310 disciplina i ricorsi amministrativi: dubbi sorgono circa la competenza del legislatore delegato ad introdurre, ancorchè in via facoltativa, un doppio ricorso in opposizione al Ministro nel caso di inerzia di quest'ultimo a fronte della prima opposizione, laddove l'ordinamento vigente prevede i ricorsi amministrativi in unica istanza (cfr. D.P.R. n.1199/1971).
Si deve ritenere che dall’applicazione dell’articolo 310 sia escluso l’operatore, che potrà impugnare l’ordinanza avvalendosi di tutti i mezzi amministrativi e giurisdizionali normativamente previsti in via ordinaria, a meno che lo stesso rientri nella fattispecie di cui all’articolo 309, comma 1, lett.b).
Rispetto alla disciplina dell’ordinanza ministeriale (artt.312 e seguenti) si rileva innanzitutto come per l’emanazione della stessa sia previsto un termine decadenziale di due anni dalla notizia del fatto. Da tale previsione sembrerebbe discendere come conseguenza l’impossibilità di richiedere dopo tale termine il risarcimento in forma specifica, che dovrebbe invece rappresentare sempre la via preferenziale. Infatti l’ordinanza è posta dal decreto quale via alternativa rispetto all’azione giudiziaria per il risarcimento del danno per equivalente patrimoniale (art.315) e si ritiene dunque che, decaduto il Ministro dalla possibilità di emettere l’ordinanza, non possa che percorrere la via giudiziaria per ottenere un risarcimento patrimoniale.
Suscita perplessità la procedura instaurata ex art.304 nel testo licenziato dal Consiglio dei Ministri del 19 gennaio 2006, laddove, a fronte di un obbligo, per l'operatore interessato, di adottare, in caso di minaccia imminente di un danno ambientale, le necessarie misure di prevenzione e messa in sicurezza nel termine di ventiquattro ore, al comma 2 si prevede che i suddetti interventi devono necessariamente essere preceduti da comunicazione agli enti ivi previsti, con conseguente consumazione di parte del tempo utile. E’ inoltre previsto che il soggetto sia abilitato all’intervento di messa in sicurezza solo quando detta comunicazione sia pervenuta dal comune, cosa di cui l’operatore non può avere conoscenza entro le ventiquattro ore a meno che non consegni personalmente la comunicazione al protocollo comunale.
Così come suscita perplessità la riduzione, ex citato comma 2 art.304 testo licenziato dal Consiglio dei Ministri del 19 gennaio 2006, delle sanzioni ivi previste
Peraltro, in detto ultimo testo è inserito,all'art.313, un nuovo comma 2, che legittima il Ministro, nelle ipotesi ivi previste (mancato ripristino, in tutto o in parte, ad opera del responsabile, ripristino in parte o in toto impossibile, o eccessivamente oneroso), ad emanare ordinanze per il pagamento di una somma a titolo di risarcimento per equivalente pecuniario. Posto che altri articoli fanno genericamente riferimento all'ordinanza ex art.313 (cfr. ad esempio, artt. 312, comma 1; 314, comma 6; 315,comma 1; 316), sarebbe opportuno un coordinamento o una specificazione del comma onde evitare possibili difficoltà interpretative, tenuto conto che ora detto articolo contiene la previsione di due tipi di ordinanze.
Altrettanto opportuno pare il coordinamento, nel titolo II, delle norme che delineano una responsabilità "specifica" (il riferimento è "all'operatore", ex artt. 304 e 305), con le norma che, ex art. 311, delinea una responsabilità generica, non dei soli operatori, ma di chiunque, ancorchè limitata alle ipotesi di dolo o colpa.
Si segnala poi, che, per quanto concerne i costi dell’attività di prevenzione, ripristino e riparazione ambientale, la direttiva comunitaria (art.9) lascia impregiudicata qualsiasi disposizione del diritto nazionale riguardante l’imputazione dei costi nel caso di pluralità di autori del danno, in particolare per quanto concerne la ripartizione della responsabilità tra produttore e utente di un prodotto; tale precisazione non risulta ripresa nel testo del decreto, che peraltro fa unicamente accenno ai responsabili in solido con riferimento al risarcimento del danno in forma specifica.
L'abrogazione dell'art.1, commi 439, 440, 441, 442 e 443 della legge 23 dicembre 2005, n.266, operata ex art.318, comma 2, lett. d), del testo licenziato dal Consiglio dei Ministri del 19 gennaio 2006, ripristina la certezza del diritto che l'inserimento, nella Legge Finanziaria 2006, dell'istituto in oggetto, nelle more della prossima adozione, e dell'entrata in vigore, di una normativa che, secondo le intenzioni espresse, dovrebbe disciplinare in maniera organica la materia, aveva fortemente messo in discussione.
Suscita, infine, perplessità il mancato adeguamento alla Direttiva comunitaria 2004/35/CE laddove quest'ultima opera una distinzione tra danno derivante da attività pericolose (con conseguente limitazione del principio di responsabilità oggettiva a dette sole attività) e danno derivante da qualsiasi altra attività.
[1] Corte Cost. n. 15/1999; nn. 126 e 163 del 2000.
[2] Corte Cost. n. 280/2004
[3] Corte Cost. nn. 407 del 2002; 536 del 2002; 222, 307, 311 e 331 del 2003; 259 del 2004; 62,111 e 214 del 2005. Già nella sentenza 183 del 1987 la Corte costituzionale considerava l’ambente “non materia” in senso tecnico, bensì “interesse” perseguibile dalle Regioni nell’esercizio delle competenze nei settori di materie strettamente connesse con l’ambiente quali l’urbanistica, i lavori pubblici, l’agricoltura, la caccia e la pesca, l’assistenza sanitaria, il turismo, la navigazione e i porti lacuali.
[4] Corte Cost. nn. 50 e 219 del 2005.
[5] Sentenze 273/1998; 382/1999; 54/2000; 507/2000; 407/2002; 536/2002; 307/2003; 311/2003; 331/2003; 222/2003; 259/2004; 111/2005; 214/2005;
[6] Sentenze 370/2003; 50/2005; 62/2005; 219/2005; 231/2005;
[7] Sentenze 303/2003; 6/2004; 242/2005;
[8] vedasi il punto 13 del preambolo alla Direttiva
[9] Sentenza 272/2004, a mente della quale il criterio della proporzionalità e dell’adeguatezza appare essenziale per definire l’ambito di operatività della competenza legislativa statale attinente alla "tutela della concorrenza" e conseguentemente la legittimità dei relativi interventi statali. Non è quindi possibile per lo Stato – prosegue al Corte – stabilire dettagliatamente e con tecnica autoapplicativa, i vari criteri in base ai quali una gara viene aggiudicata, che pongono in essere una illegittima compressione dell’autonomia regionale, poiché risulta ingiustificato e non proporzionato rispetto all’obiettivo della tutela della concorrenza l’intervento legislativo statale.
[10] Corte Cost. nn. 407 del 2002; 536 del 2002; 222, 307, 311 e 331 del 2003; 259 del 2004; 62,111 e 214 del 2005. Già nella sentenza 183 del 1987 la Corte costituzionale considerava l’ambente “non materia” in senso tecnico, bensì “interesse” perseguibile dalle Regioni nell’esercizio delle competenze nei settori di materie strettamente connesse con l’ambiente quali l’urbanistica, i lavori pubblici, l’agricoltura, la caccia e la pesca, l’assistenza sanitaria, il turismo, la navigazione e i porti lacuali.
[11] Corte Cost. nn. 50 e 219 del 2005.