INDAGINE CONOSCITIVA
SULLE TEMATICHE RIGUARDANTI LA
MODIFICA DELLA PARTE SECONDA DELLA COSTITUZIONE
AUDIZIONI SVOLTESI PRESSO LA
COMMISSIONE I
DELLA CAMERA DEI DEPUTATI
MAGGIO 2004
Segreteria della Conferenza dei Presidenti delle
Regioni e delle Province autonome
INDICE
SEDUTA DEL 18 MAGGIO
2004.
3
Giulio Salerno, professore straordinario di istituzioni di diritto
pubblico presso la facoltà di economia dell'Università di Macerata.
3
Vincenzo Cerulli Irelli, professore ordinario di diritto amministrativo
presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università «La Sapienza» di
Roma.
11
Nicolò Zanon, professore ordinario di diritto costituzionale presso la
facoltà di giurisprudenza dell'Università di Milano.
20
Stefano Ceccanti, professore straordinario di
diritto pubblico comparato presso la facoltà di scienze politiche
dell'Università «La Sapienza» di Roma.
32
Giovanni Pitruzzella, professore ordinario di
diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Palermo.
41
SEDUTA DEL 20 MAGGIO
2004.
48
Pietro Ciarlo, professore ordinario di diritto costituzionale presso la
facoltà di giurisprudenza dell’Università di Cagliari.
48
Andrea Giorgis, professore straordinario di garanzie
dei diritti fondamentali presso la facoltà di giurisprudenza
dell'università di Torino.
51
SEDUTA DEL 21 MAGGIO
2004.
55
Umberto Allegretti, professore ordinario di diritto pubblico presso la
facoltà di giurisprudenza dell'Università di Firenze.
55
Giovanni Guzzetta, professore straordinario di
diritto pubblico presso la facoltà di sociologia dell'Università di
Trento.
64
professor Leopoldo Elia, Presidente emerito della Corte costituzionale.
75
Audizione di Francesco Pizzetti, professore
ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Torino.
83
Aldo Loiodice, professore ordinario di diritto
costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di
Bari.
99
Maria Elisa D'Amico, professore straordinario di diritto costituzionale
presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università dell'Insubria.
104
SEDUTA DEL 25 MAGGIO
2004.
111
Marco Olivetti, professore straordinario di diritto
costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di
Foggia e di
111
Luca Antonini, professore straordinario di diritto
costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di
Padova.
111
GIULIO SALERNO, Professore
straordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la facoltà di
economia dell'Università di Macerata. Signor presidente, desidero
preliminarmente fornire il quadro del mio intervento. All'inizio
affronterò tre questioni di metodo e, successivamente, svolgerò
un'analisi un po' più sistematica del disegno di legge di revisione
costituzionale approvato dal Senato ed ora all'esame della Camera dei
deputati; in modo particolare, mi occuperò della tematica relativa al
nuovo Senato federale.
La prima questione di metodo è relativa
all'opportunità di una riforma costituzionale che tocchi la parte
istituzionale della nostra Costituzione.
La seconda questione di metodo riguarda la
necessità di affrontare - dato questo nuovo assetto costituzionale - il
tema relativo alle istituzioni rappresentative. Si contempla, quindi, la
necessità di una riforma costituzionale che leghi la struttura
istituzionale rappresentativa del paese alle istanze del territorio.
Infine, la terza questione di metodo concerne la necessità che la
riforma - nel tentare di assicurare un coordinamento tra le istanze
territoriali e le decisioni a livello nazionale - assicuri un sistema
efficiente.
Per quanto riguarda l'opportunità di una
riforma costituzionale in materia istituzionale dobbiamo dire che
nell'ambito della dottrina costituzionalistica vi sono opinioni
discordi. Soprattutto negli ultimi tempi si sono levate voci volte ad
evidenziare come si sia passati dal mito della Costituzione - vista come
un qualcosa di assolutamente intangibile - al mito delle riforme
costituzionali (intese come oggetto di una possibile panacea), che
possono consentire di risolvere ogni tipo di problema dell'ordinamento e
della convivenza collettiva. Effettivamente, a mio avviso, non si deve
mitizzare l'uso dello strumento della riforma costituzionale; d'altro
canto, l'esperienza di tutti gli Stati a Costituzione democratica e
liberale ci insegna che tanto più le Costituzioni hanno dimostrato la
capacità di essere flessibili e di adeguarsi ai cambiamenti e ai
mutamenti delle circostanze, tanto più i valori ed i principi
costituzionali incarnati da questi testi costituzionali sono rimasti
saldi nel corso del tempo.
Quindi, non è vero che la riforma
costituzionale di per sé rappresenti uno strumento in grado di
scardinare i principi ed i valori essenziali dell'ordinamento; al
contrario, la possibilità di riformare l'ordinamento nei suoi aspetti
istituzionali è proprio il fattore che assicura alle Costituzioni di
vivere nella realtà dei nostri comportamenti. Riguardo la necessità di
creare un sistema istituzionale nel quale siano rappresentate -
essenzialmente al livello della formazione delle leggi - le istanze del
territorio penso che non vi siano dubbi. Si tratta di una posizione
piuttosto comune, ormai consolidata ed assolutamente da analizzare
perché necessaria.
Tale posizione è necessaria perché
l'ultima riforma costituzionale ha convinto tutti relativamente
all'esistenza di un intreccio tra le competenze legislative dello Stato
e degli enti regionali. Si abbisogna quindi di una struttura statale
nella quale possano essere effettivamente coordinate le istanze
territoriali. D'altronde, è noto che le funzioni legislative esclusive
dello Stato - così come definite dall'attuale Costituzione - hanno un
carattere trasversale.
La Corte costituzionale ci ha insegnato
che, pur esistendo una ripartizione delle competenze, le funzioni
legislative esclusive dello Stato non possono non riflettersi
nell'ambito delle competenze regionali. Quindi, è necessario che la
struttura delle competenze legislative dello Stato tenga conto delle
competenze regionali.
D'altro canto, le competenze concorrenti regionali vivono nell'ambito
dei principi fondamentali stabiliti dalla legge dello Stato. Quindi, è
necessario che nella definizione di questi principi fondamentali della
legge dello Stato si tenga conto delle istanze del territorio.
D'altronde, penso sia corretta la soluzione scelta per il progetto di
legge di riforma costituzionale in corso di approvazione, laddove si è
mantenuta ferma la dizione di potestà legislativa concorrente, così come
conosciuta nell'ordinamento dal 1948. Tale soluzione è corretta, anche
se molti costituzionalisti ritenevano più opportuna la scelta tedesca
che vede lo Stato intervenire ogni qual volta non vi è una legge
regionale. Obiettivamente, la scelta tedesca appare difficile da
trasfondere nel nostro ordinamento. In primo luogo, ciò comporterebbe un
arretramento - che penso nessuno auspichi - rispetto alla soluzione alla
quale siamo giunti oggi. Inoltre, ormai nella nostra tradizione di
interpretazione ci siamo abituati a ragionare abbastanza correttamente
per ciò che concerne la distinzione tra i principi fondamentali che
spettano allo Stato e la legislazione che, invece, spetta agli enti
regionali. Quindi, mi sembra che questa impostazione possa essere
considerata corretta.
Riguardo alla necessità di una riforma che assicuri un funzionamento
efficiente delle istituzioni rappresentative a livello statale - mi
riferisco soprattutto a quelle istituzioni che producono leggi - mi
sembra un principio di buonsenso, ormai affermato anche dalla Corte
costituzionale. Quando la Corte costituzionale procede
all'interpretazione e all'applicazione delle stesse norme costituzionali
intende far sì che queste ultime agiscano e funzionino secondo un
criterio di efficienza che assicuri il buon funzionamento di tutte le
istituzioni. Quindi, penso che proprio gli organi preposti alla modifica
della Costituzione debbano tener conto di come concretamente le norme
possano funzionare.
D'altronde, è davanti ai nostri occhi l'esempio dato dall'articolo 119
della Costituzione concernente la materia fiscale e finanziaria. Si
tratta di un articolo da considerarsi quasi una sorta di utopia perché
concretamente non funziona, anche se la Corte costituzionale ne ha
assicurato una sorta di attuazione parziale e ritardata sostenendo che
non si possono approvare leggi innovative contrastanti con i principi in
esso contemplati. Quindi, anche la stessa Corte nel momento in cui si
debbono applicare norme di difficile implementazione del sistema cerca
strumenti che assicurino efficienza e buon andamento.
Il Senato federale della Repubblica è stato costruito all'interno di una
forma rinnovata di Governo modificando il bicameralismo paritario e
perfetto che oggi conosciamo. Più esattamente, il Senato federale si
presenta come un organo politico-rappresentativo dello Stato non
particolarmente dissimile dalla Camera dei deputati, sia dal punto di
vista della composizione sia dal punto di vista delle attribuzioni
relative alla produzione normativa.
Sul versante della composizione il Senato risulterebbe formato sulla
base del principio del suffragio universale e diretto, parzialmente
corretto dalla cosiddetta base regionale che vivrebbe nelle limitazioni
delle norme sull'elettorato passivo.
Per quanto riguarda il versante relativo
all'esercizio della funzione di produzione delle leggi, il Senato
federale concorrerebbe con la Camera dei deputati sulla base di una
ripartizione delle competenze. Per quanto riguarda il rapporto con il
Governo, il Senato si troverebbe svincolato dal rapporto fiduciario e
sottratto all'eventualità dello scioglimento anticipato da parte del
Capo dello Stato. È quindi venuta meno anche quella possibilità di
carattere residuale che consentiva al Presidente della Repubblica di
procedere, secondo il progetto originario, allo scioglimento anticipato
in caso di prolungata impossibilità di funzionamento del Senato. Il
potere di scioglimento della Camera viene attribuito alla volontà
preminente del Primo ministro o si prevede il suo automatico
determinarsi allorché si verificano determinate condizioni, ossia il
venir meno dell'accordo di maggioranza affermatesi nell'elezione della
Camera stessa, salvo che non segua, entro termini molto ristretti,
l'indicazione di un nuovo Presidente del Consiglio legato al medesimo
programma e alla medesima maggioranza di deputati. Sono note le critiche
di chi ha sottolineato lo sbilanciamento di un tale tipo di
bicameralismo. Come si potrebbe assicurare la stabilità e l'efficacia
dell'indirizzo politico nazionale tracciato dal Governo sulla base del
programma presentato al corpo elettorale, se non sussistano meccanismi
idonei attinenti sia ai momenti costitutivo e risolutivo del Senato
federale sia allo svolgimento delle attribuzioni legislative del Senato
medesimo, capace di assicurare una tendenziale uniformità tra la volontà
della maggioranza della Camera e quella presente nel Senato? Non si
prospetterebbe una sorta di impasse che sarebbe pericoloso per il
buon funzionamento delle istituzioni, non risolvibile neppure con
l'intervento del Capo dello Stato, ma solo con lo scioglimento della
Camera, quando non si formi al suo interno una maggioranza coerente con
quella esistente al Senato?
La domanda potrebbe essere posta anche in altri termini: le ragioni del
federalismo, che sono la base della volontà di abbandonare l'attuale
bicameralismo paritario e perfetto, sono tradotte in un nuovo e diverso
sistema bicamerale che assicuri, in via tendenziale, l'efficienza
necessaria al procedimento di formazione dell'indirizzo politico
nazionale?
A mio avviso, bisognerebbe pensare a
correzioni del testo al fine di perseguire un riequilibrio che appare
opportuno, non tanto al fine di ristabilire una «parità delle armi» tra
le assemblee, quanto per assicurare al circuito rappresentativo dello
Stato, complessivamente inteso, una sufficiente unità di intenti e di
azione.
A tal fine, si potrebbe agire sul
complesso degli aspetti della questione, intervenendo sia sul versante
della composizione del Senato, sia su quello della distribuzione e
dell'esercizio delle competenze di produzione delle leggi, giacché è
evidente che un solo aspetto non sarebbe sufficiente e che, comunque,
entrambi devono essere coerenti tra di loro.
Insieme ad autorevoli colleghi, ho
sostenuto che una soluzione ottimale sarebbe stata quella della
composizione del Bundesrat che era stata gradita anche da parte
di alcune forze politiche. È una soluzione che, con una grande
esperienza alle spalle, è stata adottata in un ordinamento che, per
molti aspetti, assomiglia al nostro, per vicinanza di cultura e per
storia costituzionale, soprattutto negli ultimi tempi. Sappiamo, però,
che le resistenze al riguardo sono molto forti e ci sono problemi di
realizzazione pratica.
Se questa soluzione non si è voluta
scegliere, devo dire, allora, che concordo con la scelta di principio
effettuata, vale a dire di evitare che nel Senato siano presenti
rappresentanze di diverse articolazioni territoriali. La contemporanea
presenza all'interno del Senato di esponenti rappresentativi di diverse
articolazioni territoriali, a mio avviso, sarebbe stata non solo molto
difficile da escogitare con un complesso coerente ed omogeneo di norme,
ma soprattutto avrebbe introdotto nel Senato stesso tali elementi di
frizione, da renderlo davvero assemblea ingovernabile. A questo punto,
la scelta per un sistema di suffragio diretto, scartando la soluzione
del Bundesrat, con il collegamento immediato con i governi
regionali, mi sembra una soluzione accettabile.
D'altronde, vorrei ricordare che Kelsen ci
insegna che una democrazia è tale tanto più la rappresentanza viene
formata in modo unitario. L'unitarietà del modo di formazione della
rappresentanza è un carattere di un sistema democratico. Se frazioniamo
la rappresentanza all'interno dello stesso organo, corriamo il rischio
di perdere alcuni connotati della democraticità del sistema; bisogna
fare molta attenzione ad inserire diverse rappresentanze di
articolazioni territoriali differenti all'interno dello stesso organo,
perché si corre il rischio di perdere la democraticità complessiva del
sistema.
La questione merita qualche cenno
ulteriore soprattutto in relazione alla sottrazione del Senato dal
circuito fiduciario e dallo scioglimento anticipato. La soluzione che
viene adottata sembra configurare il Senato come luogo istituzionale
dove possa manifestarsi una sorta di contropotere permanente, sempre
potenzialmente collegato con gli organi rappresentativi regionali, cui
spetterebbe una funzione di garanzia, largamente intesa, delle istanze
del territorio, e, dunque, eventualmente sia di freno, sia di
prospettazione di posizioni alternative e diverse rispetto alla volontà
decisionale che, guidata dal Governo, si afferma nella maggioranza della
Camera dei deputati.
Tuttavia, questa interpretazione, che può
essere corretta in un sistema nel quale vogliamo assicurare un
bilanciamento tra i poteri e quindi la creazione di pesi e contrappesi,
appare indebolita perché, nel processo di approvazione del testo, è
stato eliminato il criterio proporzionale come criterio di composizione
del Senato federale. Quindi, la legge elettorale per il Senato non sarà
più guidata necessariamente dal criterio proporzionale, che è il
criterio che assicurerebbe in modo migliore rispetto agli altri il fatto
che il Senato sia organo di garanzia di tutti i soggetti e di tutte le
forze politiche presenti nel paese.
Spetterà quindi alla legge elettorale, ora genericamente vincolata a
garantire la rappresentanza territoriale da parte dei senatori,
determinare le effettive modalità di composizione del Senato e stabilire
attraverso quali forme si debba assicurare, in un modo più o meno
tendenziale, la divaricazione o, al contrario, la corrispondenza tra i
rapporti di forza presenti in un'assemblea e quelli rappresentati
nell'altra.
È evidente che, se si intende dare al
Senato federale un volto costituzionalmente preciso come contrappeso
istituzionale, anche al fine di evitare una duplicazione rispetto alla
Camera dei deputati, sarebbe forse auspicabile indicare con maggiore
precisione quali principi di rango costituzionale debbano guidare la
relativa legge elettorale e, soprattutto, intervenire nelle norme che
disciplinano il procedimento di formazione delle leggi, al fine di
evitare che la contrapposizione tra le due assemblee conduca ad una
situazione di stallo e, quindi, di impossibilità di decisione.
Al riguardo, devo considerare senz'altro
positiva la modifica apportata al testo che prevede il mutamento della
tipologia del procedimento legislativo - dal procedimento «a preferenza»
del Senato al procedimento bicamerale - nel caso in cui il Governo
dichiari l'essenzialità delle modifiche da apportare al provvedimento
legislativo in atto. Se il Senato si oppone ad eventuali cambiamenti che
il Governo vuole introdurre, ciò non determina uno stallo completo ma il
procedimento tornerà ad essere quello vigente.
È anche apprezzabile lo sforzo che è stato
fatto per risolvere il conflitto di competenza fra le due Camere
mediante il procedimento delle intese tra i Presidenti delle Assemblee
che, eventualmente, possono attribuire questo compito, in seconda
istanza, ad un comitato misto.
Su questo aspetto specifico riguardante i problemi relativi ad eventuali
conflitti di competenza tra la Camera e il Senato, occorre però prestare
molta cautela poiché tali contrasti sono capaci di ripercuotersi sugli
ambiti di esercizio dell'iniziativa legislativa dei parlamentari, i
quali, inevitabilmente, all'interno di ciascuna Assemblea, potrebbero
proporre leggi soltanto in materie di competenza dell'Assemblea stessa.
Per risolvere questo problema - ai fini dell'ammissibilità del
provvedimento -, in sede di applicazione del regolamento parlamentare,
si potrebbe allora ipotizzare un'intesa dei Presidenti di Assemblea che
sia preliminare al momento di presentazione del testo del disegno di
legge, evitando un conflitto di competenza alla fine del procedimento.
Le medesime considerazioni valgono anche
per la distinzione tra la competenza legislativa di una Camera e
l'altra. Ad una di esse, infatti, vengono attribuite materie di
competenza legislativa esclusiva dello Stato e all'altra materie di
competenza concorrente. Sul punto, la dottrina tutta si è sforzata, nei
due anni decorsi dall'entrata in vigore dell'ultima legge di riforma
costituzionale, di segnalare certi profili critici della legge
costituzionale n. 3 del 2001, con particolare riferimento alla
definizione esatta delle materie specifiche. In tal senso, ritengo che
precisare in modo più puntuale e chiaro le materie di competenza dello
Stato e quelle di competenza concorrente sarebbe di giovamento per
tutti. Ovviamente, comprendo bene che si tratta di problemi estremamente
complessi, come lo sono le questioni toccate da queste disposizioni.
Vorrei, in ogni caso, rilevare come la scelta effettuata dalla Camera e
dal Senato nell'approvazione del disegno di legge in esame - tesa a
favorire una maggiore attività di coordinamento della legge statale
rispetto a materie di competenza amministrativa regionale - si inserisce
in una logica attualmente prevalente anche in seno alla Corte
costituzionale, il cui indirizzo interpretativo sembra preferire, nella
dinamica dei rapporti reciproci, più che una rigida separazione di
competenze (ex articolo 117 della Costituzione), il principio del
coordinamento (per cui al legislatore statale compete coordinare
l'esercizio delle funzioni amministrative regionali, ex articolo
118).
Da ultimo, mi limiterò ad un velocissimo accenno all'approvazione dei
testi di legge in materia finanziaria, rispetto a cui è stato disegnato
un sistema piuttosto intricato di competenze tra le due Assemblee:
ritengo che qualche precisazione sul punto potrebbe rivelarsi utile.
PRESIDENTE. Ringrazio il professor Salerno
per la sua chiarezza e cedo la parola ai colleghi per eventuali
interventi.
GIANCLAUDIO BRESSA. Sono con lei,
professor Salerno, quando sostiene che il modello migliore per una
Camera federale sia rappresentato dal Bundesrat tedesco ed
ugualmente concordo con lei sulle difficoltà di tipo politico a
realizzare questa soluzione; ciò che, però, mi è sembrato non
conseguente è la serie di argomentazioni che lei ha usato per dichiarare
di essere soddisfatto dal modello partorito dal Senato. Sarò conciso: la
rappresentanza federale in quel modello mi pare estremamente labile
nella sostanza. Lei sarà perfettamente in grado di comprendere, senza
che io mi dilunghi oltre, il motivo delle mie argomentazioni. Si tratta,
infatti, di una Camera in cui la rappresentanza politica prevale su
tutto il resto senza mostrare alcunché di realmente federale.
Ma non è su questo che vorrei porle la mia domanda. Lei,
precedentemente, e molto opportunamente, faceva rilevare come la riforma
del Titolo V porti con sé degli elementi di complessità che
meriterebbero di essere sciolti. Convengo con lei sul fatto che questa
debba costituire l'occasione per apportare modifiche migliorative
all'articolo 117 della Costituzione, posto che, d'altra parte, il Senato
non lo ha fatto. Lei si è riferito, inoltre, alla non immediata
applicabilità dell'articolo 119, lanciando l'allarme che io condivido.
Le chiedo, però, se sia davvero convinto che il modello, così com'è
stato concepito sinora, funzioni, o non si siano poste le premesse,
piuttosto, dal punto di vista della complessità nel procedimento di
formazione delle leggi, per dar vita ad una sorta di articolo 119
all'ennesima potenza, creando un meccanismo destinato a paralizzare il
processo legislativo. Ometterò qualsiasi osservazione e considerazione
sulla questione della fiducia, soffermandomi invece su un'altra
richiesta di chiarimento; se lei fosse in grado di illuminarmi circa le
sue opinioni riguardo alla possibilità che il Senato - così come
attualmente definito - funzioni o meno, le sarei grato.
MARCO BOATO. Domando scusa per non aver potuto seguire la prima parte
del suo intervento che, tuttavia, mi sarà possibile esaminare leggendo
la relazione in distribuzione. Nel suo intervento, lei ha parlato di
aggiustamenti necessari rispetto alla composizione del Senato e alla
distribuzione delle competenze legislative. Ha avuto modo di
approfondire entrambi gli aspetti, per poi parlare di unitarietà del
modo di formazione della rappresentanza: a questo riguardo, le chiedo di
manifestare il suo pensiero a proposito dei senatori eletti nella
circoscrizione estero, alla luce del ruolo della seconda Camera in
qualità di «Senato federale ». Ancora, lei ha parlato della sottrazione
del Senato dal circuito fiduciario, evidenziando, dunque, a tal
proposito, la previsione di una sorta di potere permanente; apprezzerei
molto, a questo punto, conoscere la sua posizione rispetto alla
competenza che il Senato può assumere anche in materia di legge
finanziaria e di bilancio, espressioni tipiche del rapporto fiduciario
tra Governo e Parlamento.
LUIGI OLIVIERI. Signor presidente, sarò
brevissimo. Ringrazio anch'io il professor Salerno per la sua relazione.
Lei parte da una affermazione che mi sento di condividere, ovvero la
tesi kelseniana della democrazia concepita come qualcosa di unitario.
Sempre seguendo tale logica, lei deduce l'impossibilità che il Senato
sia formato in modo diverso, ovvero possa esprimere una rappresentanza
territoriale articolata - oltre che a livello regionale -, anche,
eventualmente, su ulteriori livelli indicati all'articolo 114 della
Costituzione. Non riesco pienamente a cogliere la consequenzialità di
queste affermazioni, perché, mio avviso, risulterebbe democratico e
fortemente unitario anche un altro tipo di concezione. Inoltre, vorrei
porle una seconda domanda, tesa a comprendere in cosa lei possa
individuare la caratteristica federale di questo Senato, perché il
modello, come sottolineava giustamente il collega Bressa, così come è
costruito, di federale sembrerebbe avere solo l'aggettivo e quasi niente
altro.
MARCO BOATO. Vorrei integrare il mio
intervento con un'ulteriore richiesta di chiarificazione, a proposito
dell'istituto fiduciario. Il professore ha fatto riferimento al fatto
che nel disegno originario si prevedeva la possibilità di scioglimento
anche del Senato per prolungata impossibilità di funzionamento: vorrei
sapere se è favorevole alla reintroduzione di questa ipotesi.
MICHELE SAPONARA. Ringrazio anch'io il professore per la chiarezza della
sua relazione e, soprattutto, per la neutralità dimostrata nel
commentare il disegno al nostro esame. In sostanza, il professor Salerno
non si scandalizza di fronte a questo testo, sebbene rilevi
l'opportunità di apportarvi adeguate correzioni e ci spieghi in quale
parte la modifica dovrebbe intervenire. In proposito, apprezzeremmo sue
indicazioni per affrontare i profili critici evidenziati.
Aggiungo, infine, che la legge
costituzionale n. 3 del 2001 di modifica del Titolo V della Costituzione
presenta evidenti lacune, note a tutti, compresi coloro da cui fu
sostenuta sino all'ultimo minuto (ricordo le dichiarazioni di voto in
Aula): si pensava però, sin dalla sua approvazione, però, che quelle
carenze sarebbero state colmate. Alla luce di ciò, mi domando, quindi,
fino a che punto questa nostra riforma riesca a sanare le mancanze
presenti.
CARLO LEONI. Signor presidente, intervengo
molto brevemente poiché non riprenderò le considerazioni già svolte da
altri colleghi e con le quali concordo.
Professor Salerno, lei sostiene che per
una più efficace composizione del Senato sarebbe stato meglio mantenere
- a proposito della legge elettorale - il principio proporzionale,
mentre tra le possibili correzioni indica l'estensione dei principi di
rango costituzionale che debbono guidare la relativa legge elettorale.
Ha sostenuto che il sistema proporzionale è più adatto per la
composizione di organismi di garanzia. Indubbiamente, ciò è vero anche
se non necessariamente si deve far riferimento ad organismi di garanzia
territoriale. Se possibile desidererei che ella approfondisse meglio
quest'ultima questione.
Le chiedo quale principio proporzionale e
quale meccanismo elettorale può, secondo lei, configurare un'Assemblea
di rappresentanza territoriale.
PRESIDENTE. Do ora la parola al professor
Giulio Salerno per la replica.
GIULIO SALERNO, Professore
straordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la facoltà di
economia dell'Università di Macerata. L'onorevole Bressa sosteneva
che la rappresentanza prefigurata nel disegno di legge è politica e non
federale.
Vi sono però ordinamenti federali in cui la rappresentanza all'interno
del Senato è pienamente politica e determinata da una sistema elettorale
attraverso cui viene eletto un egual numero di parlamentari per ogni
Stato, per ogni soggetto presente all'interno della federazione.
All'interno di questo progetto vi è il tentativo di ridurre lo scarto
nell'ambito della rappresentanza territoriale delle regioni, al fine di
assicurare una rappresentanza diretta ed universale maggiormente
livellata fra le regioni; in tal modo, si darebbe a questa
rappresentanza un maggiore connotato federalistico. Certo che se vi
fosse stata una spinta ulteriore in questo senso - un numero pari di
rappresentanti per ogni regione -, ciò per il federalismo sarebbe stato
il massimo. In ogni caso, sono cosciente del fatto che, effettivamente,
una spinta in tal senso sarebbe difficilmente praticabile nel nostro
ordinamento.
Mi è stato anche domandato se sono convinto del fatto che il Senato
possa funzionare concretamente e se questo sistema non introduca
complicazioni. In questo caso, dobbiamo metterci d'accordo poiché è
chiaro che il federalismo complica la situazione: non esistono infatti
sistemi federali semplici. Il sistema federale impone la complicazione,
anche se ciò che auspico è che in questa sede si possono apportare
quelle correzioni utili a ridurre i problemi.
Rispetto al sistema odierno, sicuramente verranno a crearsi dei problemi
che obbligheranno i funzionari e tutti noi a lavorare molto di più,
anche se per i professori di diritto costituzionale ciò costituirà un
gran vantaggio poiché avranno parecchio da scrivere e da pubblicare!
Anche la Corte costituzionale rappresenta un organo di garanzia nato
nell'ambito dei sistemi federali, ad esempio, dell'Austria e della
Germania.
GIANCLAUDIO BRESSA. Io non avevo chiesto
se complica, ma se funziona.
GIULIO SALERNO, Professore
straordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la facoltà di
economia dell'Università di Macerata. Ciò, al momento non posso
prevederlo. Circa l'impossibilità di funzionamento del nuovo sistema, in
realtà sono contrario ad uno scioglimento anticipato del Senato. Se la
logica è quella di stabilire un organo di garanzia permanentemente
presente nel sistema lo scioglimento deve rappresentare l'ultima
risorsa. A mio avviso una soluzione abbastanza interessante sarebbe
quella di rendere il Senato un organo a formazione ripartita, così come
accade negli Stati Uniti d'America. In ogni caso, sappiamo che ciò
innescherebbe delle critiche di altra natura, quindi si tratta di un
rimedio difficile da sostenere.
L'onorevole Boato, molto cortesemente mi
aveva posto una domanda circa l'unitarietà e i senatori della
circoscrizione estero. Effettivamente, si tratta di un problema molto
delicato da risolvere attraverso una decisione politica; non credo,
infatti, che un giurista possa dare un'opinione al riguardo. Se infatti
prendiamo in esame la mera coerenza formale del disegno di legge in
questione debbo riconoscere, ad esempio, che non dovrebbero neanche più
essere previsti i senatori a vita.
Per quanto concerne il rapporto fiduciario
e le leggi di bilancio si tratta di una questione che ho già sollevato.
Il Senato deve ricoprire un ruolo nei confronti di leggi che trattano
della finanza relativa agli enti territoriali: ruolo ricoperto, ad
esempio, dal Bundesrat.
L'onorevole Olivieri non comprendeva come
mai potessi essere contrario ad articolazioni territoriali plurime, in
quanto anch'esse corrispondono ad un principio democratico.
È vero che qualsiasi rappresentanza
risponde ad un principio democratico, però bisognerebbe anche domandarsi
verso quale principio democratico si debba andare. Personalmente
auspicherei un principio democratico coerente e logico, quindi mi
sembrava che il sistema di elezione proporzionale fosse quello che
maggiormente vi rispondesse essendo distribuito in modo omogeneo sul
territorio.
Si sta parlando della rappresentanza dei
comuni, delle province, delle città metropolitane; da questo punto di
vista, ritengo che se il Senato non si fosse occupato della produzione
delle leggi la presenza di articolazioni territoriali differenziate
sarebbe stata ammissibile. Comunque, poiché il Senato produce leggi, mi
sembra piuttosto complesso far partecipare alla loro formazione soggetti
che non hanno competenza legislativa in senso stretto.
Debbo dire che il federalismo del Senato
dovrebbe nascere soprattutto nel momento dell'attuazione della legge
elettorale che determina esattamente i criteri di elezione del Senato
stesso.
In questa sede mi sembra piuttosto complesso proporre un meccanismo
proporzionale in senso specifico. Come sappiamo di meccanismi
proporzionali ne possono esistere a migliaia, in ogni caso mi sembra che
la proporzionalità del meccanismo elettorale, creata secondo le diverse
formulazioni immaginabili, possa costituire un principio guida che il
legislatore deve osservare. A tutt'oggi, viceversa, mi sembra che la
rappresentanza territoriale venga lasciata con una certa eccessiva
libertà al legislatore stesso.
L'onorevole Saponara mi aveva chiesto se
questo disegno di legge, in sostanza, tende effettivamente a correggere
la legge costituzionale n. 3 del 2001. Senz'altro esso tende a colmare
la lacuna fondamentale del sistema; si vuole creare cioè un organo
istituzionale rappresentativo dello Stato nell'ambito del quale, in via
di tendenza, si possano rappresentare le articolazioni territoriali.
Naturalmente non mi esprimo sulla forma di
Governo poiché si tratta di una questione che oggi non ho preso in
considerazione e, tra l'altro, penso che i miei colleghi possano dare al
riguardo il loro contributo.
VINCENZO CERULLI IRELLI, Professore
ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università «La Sapienza» di Roma. Ringrazio il presidente per
il cortese invito e chiedo scusa per la mia relazione alla quale ho
apportato alcune correzioni.
Come da richiesta mi soffermerò
esclusivamente sulle norme di modifica del titolo V della Costituzione
che rappresentano una parte del disegno di legge al vostro esame.
In via preliminare, constato due cose; in
primo luogo, il titolo V della Costituzione in gran parte viene
mantenuto e questo, per quanto mi riguarda, è motivo di una qualche
soddisfazione. In ogni caso, debbo dire che, forse, qualche modifica
ulteriore andrebbe introdotta.
Per ciò che concerne la questione delle
materie, credo che qualche errore sia stato commesso, forse anche un po'
per la fretta con cui nella scorsa legislatura dovemmo procedere.
Nei rapporti tra terzo e secondo comma
dell'articolo 117 qualche spostamento sarebbe opportuno; nel dire questo
penso alla politica dell'energia e, in genere, alla politica delle
grandi reti di telecomunicazione. Personalmente, inserirei queste due
materie nel secondo comma tra quelle di competenza esclusiva dello
Stato, anche se, tutto sommato, si tratta di una piccola notazione.
Per quanto riguarda il Senato, sia la
maggioranza sia l'opposizione di allora notarono che il testo prodotto
era monco poiché non prevedeva la costituzione di una Camera o di un
Senato delle regioni. Tale manchevolezza non fu dovuta alla volontà
delle forze politiche ma a difficoltà e contingenze obiettive di portare
avanti il processo di trasformazione.
Per fare in modo che un Senato o una Camera delle regioni possa svolgere
il suo ruolo di composizione e di concertazione di interessi - facendo
in modo che le rappresentanze dei governi regionali e locali vengano
fatte parte delle grandi scelte nazionali (soprattutto quelle di
politica legislativa) - occorre che le regioni, direttamente o
indirettamente, siano presenti nel Parlamento nazionale. Le modalità
tecniche di questa presenza possono essere studiate, in ogni caso
debbono essere presenti a questi fini.
Il Senato, così come previsto dal testo
del disegno di legge di riforma, ha però diverse caratteristiche delle
quali si può discutere positivamente o negativamente. Esso è composto da
membri eletti dal popolo italiano su base regionale, così come oggi. La
stessa presenza dei presidenti delle regioni è prevista - se non ricordo
male - esclusivamente per l'elezione dei membri del Consiglio superiore
della magistratura: francamente è troppo poco.
Per quanto concerne il complesso delle
modifiche vi è il problema di Roma. Non si tratta del problema
principale; in ogni caso il testo approvato dal Senato, a mio giudizio,
risulta difficilmente comprensibile.
Nella scorsa legislatura fu presa la
decisione di affidare l'ordinamento della città di Roma - in quanto
capitale della Repubblica - alla legge dello Stato, svincolandola dalla
modellistica rappresentata da comuni, province e città metropolitane.
Quindi, il Parlamento avrebbe costruito l'ordinamento della città senza
particolari vincoli, e ciò perché Roma ha particolari esigenze.
Naturalmente, questa ipotesi presenta il limite della potestà
legislativa. La città di Roma, infatti, tutto può avere tranne che la
potestà legislativa, e ciò perché un'altra norma costituzionale afferma
che tale potestà spetta esclusivamente allo Stato ed alle regioni.
Quindi, una volta stabilito questo limite sulla parte restante la legge
dello Stato può avere piena capacità inventiva.
Adesso il nuovo testo, da una parte
conferma questa scelta - si stabilisce infatti che la legge dello Stato
disciplina l'ordinamento della capitale -, ma dall'altra affida allo
statuto della regione Lazio l'individuazione di forme e condizioni
particolari di autonomia - anche normativa - nelle materie di competenza
regionale. Francamente, anche sul piano tecnico, non si capisce cosa ciò
possa significare. Ovviamente, infatti la regione Lazio potrà attribuire
alla città di Roma con propria legge - e, se possibile, anche attraverso
lo statuto - quello che vuole; comunque, l'ordinamento particolare della
città di Roma è stabilito dalla legge dello Stato.
Quando si usano i termini «condizioni
particolari di autonomia, anche normativa», se con ciò si intende
prendere in considerazione il potere regolamentare la cosa allora è
pacifica, ma di contro non credo sia possibile che tali parole possano
riguardare il potere legislativo perché, in tal caso, bisognerebbe
modificare la norma costituzionale che distribuisce la potestà
legislativa tra lo Stato e le regioni.
Passando ad un'altra questione,
sinceramente non comprendo il motivo per cui il Senato ha voluto
sopprimere il terzo comma dell'articolo 116 della Costituzione con il
quale si consente a regioni - principalmente a quelle del nord d'Italia
come, ad esempio, la Lombardia ed il Veneto - dotate di maggiori
capacità di Governo e di maggiore solidità istituzionale e finanziaria
di negoziare con il Governo nazionale (con l'approvazione del
Parlamento) un ampio modello di autonomia che investe più materie e
necessita di maggiori mezzi.
Questa scelta è non vincolante ma libera: è il Parlamento che dispone,
dopo la proposta della regione e la negoziazione del Governo. Dato che,
quindi, la norma in questione non fa che eliminare un'opportunità e non
un vincolo, non capisco perché il Parlamento ed il Governo si vogliano
togliere questa possibilità e ritengo, invece, che andrebbe conservata
una tale ricchezza di intervento da parte del Parlamento, del Governo e
delle regioni, contenuta nell'articolo 116, terzo comma.
L'articolo 117, così come è stato
riformulato, comporta una serie di problematiche. Nel testo approvato
dal Senato, è stato riscritto il quarto comma del suddetto articolo, il
quale individua le materie nelle quali le regioni hanno potestà
legislativa esclusiva, ossia non limitata dai principi fondamentali
stabiliti dalle leggi dello Stato, di cui al terzo comma.
Nella passata legislatura, quando fu redatto il testo in vigore, non fu
inserito l'aggettivo «esclusivo» riferito alla potestà legislativa delle
regioni: si intese, infatti, che la competenza legislativa regionale
fosse esclusiva nei limiti stabiliti dai principi fondamentali delle
leggi dello Stato, ma non lo nel medesimo significato con il quale si
intende quella esclusiva statale, di cui al secondo comma. Per esempio,
una materia come l'agricoltura, è certamente di competenza legislativa
regionale, ma i contratti agrari sono di competenza esclusiva dello
Stato; nello stesso senso, si pensi ancora all'organizzazione sanitaria,
vincolata dai livelli essenziali delle prestazioni stabiliti dalle leggi
dello Stato o, ancora, al commercio, limitato dalla legislazione statale
sulla tutela della concorrenza.
Occorre quindi intendersi su cosa significhi la nozione «esclusiva»
riferita alla potestà legislativa regionale: se voglia intendersi come
potestà non limitata dai principi fondamentali delle leggi dello Stato,
così come nel testo attuale, oppure se essa implichi una deroga al
secondo comma dello stesso articolo e, in tal caso, comporti che, nelle
materie ivi indicate, non operi la legislazione esclusiva dello Stato.
Dalle dichiarazioni del ministro Bossi e dall'incontro con il ministro
La Loggia, si è appreso che la nozione «esclusiva» non vuole essere
intesa in senso espansivo. Mi permetto di osservare, come modesto
cultore del diritto, che, comunque, un tale aggettivo, inserito nella
Costituzione, potrebbe dar luogo a conflitti interpretativi.
Per quanto riguarda le materie
espressamente elencate nel quarto comma dell'articolo 117, mostro
perplessità sulla polizia locale: non rappresenterebbe una grande
novità, se con essa si intendesse la vecchia polizia urbana e rurale, di
cui all'articolo 117 nel precedente testo, ma comporterebbe una modifica
sostanziale all'assetto complessivo del settore interessato se, invece,
per polizia locale si intenda l'ordine e la sicurezza pubblica di
carattere locale. A mio avviso, tale questione necessiterebbe qualche
riflessione in più da parte del Parlamento. Voglio però essere chiaro:
si può pure fare come in Catalogna, ove opera esclusivamente la polizia
catalana e non quella del Regno di Spagna, ma ritengo opportuno che il
Parlamento abbia consapevolezza di una tale inequivocabile modifica e di
ciò che ne consegue.
Mi permetto anche di consigliare qualche
aggiustamento delle materie indicate nel quarto comma dell'articolo 117.
È possibile tecnicamente attribuire una competenza che si autodenomina
esclusiva alle regioni in materia di organizzazione scolastica, quando,
al terzo comma, è prevista sull'istruzione - esclusa l'autonomia delle
istituzione scolastiche - la competenza legislativa concorrente di Stato
e regioni, ed ancora, al secondo comma, le norme generali
sull'istruzione vengono assegnate alla competenza statale esclusiva?
Insomma, si pone qualche difficoltà interpretativa, essendovi tre
menzioni della stessa materia contenute nello stesso articolo, che
daranno certamente luogo ad un contenzioso costituzionale più intenso e
ricco di quello attuale, che è già preoccupante.
Riguardo alla questione relativa alle intese tra regioni, di cui
all'articolo 117, ottavo comma, ritengo che il Senato abbia giustamente
indicato che tali intese siano volte al miglior esercizio delle funzioni
amministrative regionali. Ciò è assolutamente evidente e lo credevo
scontato, comunque l'averlo specificato non dà luogo ad equivoci.
Tuttavia, richiamo la vostra attenzione sul fatto che la suddetta norma
convive con la modifica apportata all'articolo 72, che prevede che il
Senato è organizzato in commissioni, anche con riferimento proprio a
quanto previsto dall'articolo 117, ottavo comma. Si potrebbe desumere
che le commissioni senatoriali possano essere organizzate regionalmente,
inserendo quindi in esse anche membri designati dalle regioni che, a
loro volta, sono membri di organi comuni tra le stesse. Rilevata qualche
perplessità sulla formazione di articolazioni regionali del Senato (si
pensi al Senato della Padania o a quello della Sicilia), sarebbe
opportuno ovviare all'ambiguità che comporta l'aver specificato, nel
nuovo testo, che gli organi comuni delle regioni hanno esclusivamente
funzioni amministrative, quando le Commissioni permanenti svolgono
compiti legislativi.
Vorrei anche accennare alla questione relativa all'interesse nazionale.
Ricordo che tale nozione, presente nel testo della Commissione
bicamerale presieduta dall'onorevole D'Alema, venne espunta dal titolo V
della Costituzione sia per non dar luogo ad ulteriori ambiguità nel
riparto di competenze tra Stato e regioni, sia per ragioni di difesa
regionalistica; infatti, attorno a tale concetto, la Corte
costituzionale aveva costituito una vera barriera alla competenza
legislativa regionale.
D'altra parte, si ritenne - e lo ritengo
tuttora - che l'interesse nazionale fosse abbondantemente presente nel
testo attuale: tutte le competenze indicate nel secondo comma
dell'articolo 127, che investono largamente la capacità di governo delle
regioni, si esercitano in funzione dell'interesse nazionale.
Ora, nel testo approvato dal Senato, si è
voluto reinserire questa nozione, laddove si attribuisce al Governo il
potere di impugnare davanti al Senato federale le leggi regionali che
non si ritengano compatibili con le esigenze di interesse nazionale.
Viene così affidato ad un organo politico, esclusivamente statale - in
tale sede, il Senato opera senza la presenza dei rappresentanti
regionali - il giudizio sulla violazione da parte di una legge regionale
delle esigenze di interesse nazionale. Ciò rappresenta, quindi, una
forte limitazione dell'autonomia regionale e si tratta di una scelta
politica che ha un certo peso.
A mio avviso, è poi assolutamente impensabile affidare la decisione
definitiva sulla questione sollevata al Presidente della Repubblica, il
quale non è organo politico ma di garanzia. Una tale decisione,
comportando una scelta eminentemente politica, potrebbe porlo in
conflitto sia con il Senato sia con il Governo che ha avuto la fiducia
della Camera dei deputati. Ha un senso invece - pur essendo discutibile
- affidare tale competenza al Senato che è un organo politico (in tal
caso, tra l'altro, suggerirei l'inserimento di rappresentanti delle
regioni).
Da ultimo, vorrei fare un'osservazione
assolutamente positiva sulla modifica operata all'articolo 118, ultimo
comma, laddove si inseriscono gli enti di autonomia funzionale nella
protezione della norma, come già era stato inteso dall'attività
interpretativa e dalla Corte costituzionale.
PRESIDENTE. Ringrazio il professore per la
relazione testé svolta e do la parola ai colleghi che intendono
intervenire.
MARCO BOATO. Anche io ringrazio il
professor Cerulli Irelli per la sua partecipazione e per la relazione
che ci ha consegnato.
Condivido molte delle affermazioni del
professor Cerulli Irelli, compresa anche quella incidentale, su cui
avevamo già discusso all'epoca del dibattito sulla revisione
costituzionale, in materia di devoluzione.
Vorrei chiedere al professore un approfondimento sul secondo punto che
ha affrontato nella relazione sulle caratteristiche
politico-istituzionali del Senato. Avendo rilevato che, così come è
configurato, tale organo non ha una rappresentanza del sistema regionale
in quanto si prevede una forma di elezione del tutto analoga a quella
attuale, vorrei sapere se aveva suggerimenti da rivolgere alla
Commissione al riguardo.
Altro approfondimento merita la questione
del rapporto fra l'articolo 117, ottavo comma, e l'articolo 72, quinto
comma, nel testo approvato dal Senato.
Non ritengo che tale testo - da me non
condiviso - faccia riferimento alla partecipazione di rappresentanti
regionali a queste Commissioni. Mi sembra di poter ricavare, piuttosto,
dalle disposizioni contenute nel provvedimento la possibilità di
costituire Commissioni parlamentari per il Senato di tipo territoriale,
cioè non relative a ripartizioni per materia, bensì legate al
territorio, ipotesi che, come noi sappiamo, ci è stata più volte
prospettata da parte di alcuni settori politici della maggioranza.
Condivido, dunque, le riserve manifestate ma ritengo comunque che dal
testo in esame non sia desumibile un'ipotesi di partecipazione diretta
dei rappresentanti regionali.
Da ultimo, farò cenno ad un problema di
redazione normativa, di drafting, che io pongo perché potrebbe
rivelarsi utile un approfondimento a riguardo, condotto in questa sede.
Lei si è dichiarato concorde sull'opportunità di riconoscere - tra i
soggetti richiamati all'articolo 118, ultimo comma - anche gli enti di
autonomia funzionale, così come previsto dall'articolo 35 del disegno di
legge in discussione. Però, mi chiedo - e un eguale domanda pongo a lei
- se sia necessario aggiungere un periodo aggiuntivo all'ultimo comma di
quella disposizione.
Fra l'altro, ricordo che il testo vigente della norma suddetta venne
approvato, all'epoca, in Assemblea e non in Commissione, se ben ricordo
(fui io, peraltro, a firmare l'emendamento), e pressoché all'unanimità
della Camera, da maggioranza e opposizione. Per ottenere l'effetto
voluto, occorrerebbe semplicemente aggiungere all'attuale ultimo comma
dell'articolo, dopo le parole «Stato, regioni, città metropolitane,
province e comuni, riconoscono e favoriscono l'autonoma iniziativa dei
cittadini singoli e associati» le parole : «e degli enti di autonomia
funzionale» (il resto del testo proseguirebbe poi inalterato nella sua
versione nota: «per lo svolgimento di attività di interesse generale
sulla base del principio di sussidiarietà».
Invece, il testo che ci proviene dal Senato ha compiuto diversa
operazione, aggiungendo dopo il quarto comma, questo periodo: « Essi
riconoscono e favoriscono altresì l'autonoma iniziativa degli enti di
autonomia funzionale per le medesime attività e sulla base del medesimo
principio» con evidenti ripetizioni, certamente censurabili dal punto di
vista della redazione legislativa, anche perché inserita nel corpo della
Carta costituzionale.
Ripeto, invece, che sarebbe sufficiente ad
ottenere il medesimo risultato, ma con maggiore chiarezza e correttezza
formale, l'operazione che all'inizio suggerivo. È una questione
apparentemente soltanto di drafting, che però, avendo a che fare
con la Costituzione della Repubblica italiana, il cui testo ha una
propria unità stilistica generale, acquista un certo significato; alla
luce di ciò, apprezzerei molto il suo parere.
LUIGI OLIVIERI. Signor presidente, sarò
molto breve. Ringrazio il professore per il suo contributo e soprattutto
per la capacità - dovuta anche alla sua esperienza di legislatore - di
calarsi nel merito. La mia domanda sarà molto rapida e precisa. Lei si è
soffermato, in modo che condivido, sulla questione dell'interesse
nazionale, criticando poi la composizione del Senato, come configurata
dal disegno di legge approvato dall'altro ramo del Parlamento; ha,
quindi, sottolineato la valenza politica dell'organo parlamentare
definito dal provvedimento in discussione. È sicuramente vero che, in
ogni Costituzione, soprattutto in quella «federale», vi è la necessità
di una norma di chiusura. Tuttavia, così come è costruita, tale norma
sembra assolutamente inaccettabile, rischiando di divenire uno strumento
attraverso il quale il Parlamento nazionale, nella fattispecie il
Senato, servendosi della potenziale versatilità interpretativa
dell'interesse nazionale, la cui individuazione è oggetto di una
valutazione politica, potrebbe riappropriarsi di tutto, e dunque le
stesse competenze cosiddette esclusive ben riuscirebbero a rientrare
dalla finestra. Qual è il suo suggerimento in proposito, dato che la
definizione di interesse nazionale è generale e generica? Quale sarebbe
il suo suggerimento, per la norma di chiusura? Forse quello di mutuare
l'esperienza della Costituzione tedesca, oppure ha qualche altro
suggerimento da fornirci?
MICHELE SAPONARA. Signor presidente, anch'io la ringrazio, professor
Cerulli Irelli, per la sua relazione chiarissima e onestissima. Dico
onestissima essendo noto a tutti che la formulazione e redazione della
legge costituzionale n. 3 del 2001 è dovuta, in gran parte, alla sua
opera ed al suo impegno. Tutti voi dell'allora maggioranza avete
sostenuto che quella legge fosse blindata, di fatto, e comunque ne avete
riconosciuto l'incompletezza unitamente alla necessità di un successivo
intervento per colmare i vuoti presenti. Le domando, pertanto: fino a
che punto la proposta di legge approvata dal Senato ha risposto, secondo
lei, alle esigenze che voi evidenziavate, in che misura è riuscita a
sanare le carenze da voi lamentate e contestate?
PIETRO FONTANINI. Il professor Cerulli
Irelli ha sostanzialmente definito la seconda Camera - come prevista dal
disegno di legge in esame - uno pseudo Senato federale, per il modo in
cui è stata configurata; volevo, però, sottolineare, professore, come
nell'articolo 4 del testo siano contenuti alcuni requisiti innovativi
per quanto riguarda l'elettorato passivo, come la residenza o l'aver
ricoperto cariche pubbliche elettive presso gli enti territoriali
locali. Questi elementi, secondo lei, sono insufficienti a qualificare
il nuovo Senato «federale»? E se lei preferisce un Senato federale, qual
è la sua ipotesi, quella tedesca del Bundesrat?
VINCENZO CERULLI IRELLI, Professore
ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università «La Sapienza» di Roma. In primo luogo, rendo nota la
mia disponibilità a trasmettere a questa Commissione un eventuale
documento per illustrare le mie posizioni attorno ai problemi appena
delineati, qualora il presidente fosse così cortese da richiederemi un
intervento scritto. In ogni caso, risponderò anche immediatamente e in
modo sintetico alle domande che mi sono state poste nel corso della
seduta odierna.
Innanzitutto, mi soffermerò sul Senato,
vero punto chiave dell'intera la riforma. Mi permetto anche di osservare
- lo faccio in questa sede a ragion veduta -, che il Senato, così come
concepito, è un po' troppo forte perché il sistema possa correttamente
funzionare, e questo a prescindere dalla questione squisitamente
federalistica. Un Senato che non dà la fiducia al Governo e quindi non
può subire gli effetti - di converso - di una eventuale questione di
fiducia posta dal Governo, un Senato che non può esser sciolto e ha
competenza esclusiva - cioè di ultima istanza - su tutte le materie
dell'articolo 117, terzo comma, cioè sulla gran parte delle materie
oggetto del programma di Governo (politica dell'energia, delle
infrastrutture, delle reti), sembra scontrarsi, almeno in parte, con
l'esigenza di governabilità.
Lo dico a latere delle vostre
osservazioni e dell'oggetto della mia conversazione. Certamente, che la
Camera dei deputati possa approvare un testo, il quale vede la stessa
Camera ridotta a svolgere una funzione servente rispetto al Governo,
mentre il Senato, viceversa, è dotato di una forza politica
insuperabile, sembra difficilmente realizzabile. Trovo, cioè,
improbabile che la Camera dei deputati possa approvare, sul punto, una
scelta che per essa stessa sia di così evidente diminutio.
Vengo, ora, alle osservazioni più
specifiche. Il problema è che il Senato, ai fini del Titolo V e della
riforma federalista, deve essere rappresentativo delle regioni e degli
enti del governo territoriale, o almeno «anche» rappresentativo di
questi soggetti. Ritengo che, in tal senso, quanto contenuto
nell'articolo 4 non introduca alcunché di decisivo, perché il fatto che
i senatori debbano essere stati consiglieri comunali o debbano risultare
residenti nella regione non introduce in realtà qualcosa di
significativamente nuovo rispetto ai requisiti già posseduti dai
componenti del Senato: chi di voi non ha mai ricoperto una carica
elettorale presso i consigli regionali, almeno una volta? Chi di voi non
è residente nel territorio di una determinata regione? Queste condizioni
si realizzano già adesso. Credo che, invece, l'elemento più
significativo sia rappresentato dall'elezione contestuale a quella dei
consigli regionali, ai sensi dell'articolo 57 secondo comma, che
introduce effettivamente principio idoneo a configurare la
rappresentanza senatoriale come «regionalizzata». Tuttavia, anche in
tale caso, occorrerebbe esplicitare ciò che appare sotteso alla
disposizione. Cosa significa contestuale? Forse che, in caso di
scioglimento del consiglio regionale decadono anche i senatori? Il testo
è silente in proposito, ma se fosse effettivamente questo ciò che si
intende affermare, quando si scrive «contestuale», allora ne sarebbe
necessaria un'esplicitazione. Da quanto ho potuto evincere dalle
discussioni in Senato, questa conseguenza logica e interpretativa è
stata esclusa, almeno nelle dichiarazioni rese dai parlamentari.
MARCO BOATO. No, lo si evince anche dal
testo.
VINCENZO CERULLI IRELLI, Professore
ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università «La Sapienza» di Roma. Questo non lo so, almeno non
ho avuto modo di notarlo. Sicuramente sarà come lei sostiene, onorevole.
In ogni caso, si tratta di un elemento importante che occorre tener
presente. Ritengo, comunque, che la contestualità delle elezioni, per
quanto significativa, non sia un presupposto sufficiente per fare in
modo che le regioni si sentano rappresentate. La mia è una valutazione
quantitativa.
In sintesi, il problema che pongo è il seguente: una volta che il Senato
abbia assunto delle scelte, le regioni si sentiranno coinvolte e
rappresentate, o invece le decisioni compiute saranno percepite come
espressione di un potere diverso, cioè dello Stato, cui queste non
partecipano? Il problema attuale è, dunque, quello di coinvolgere le
regioni nelle scelte da compiere. In tal senso, un risultato certamente
positivo è stato ottenuto in sede di Conferenza Stato-regioni, il cui
peso, originariamente modesto, sta crescendo progressivamente; la
Conferenza, infatti, è ormai divenuta un tavolo di negoziazione ove
Governo e regioni pervengono congiuntamente a conclusioni politicamente
condivise.
Alla luce di ciò, quel tavolo sta
acquistando una rilevanza piuttosto considerevole nell'assetto
complessivo del governo del paese. Il Senato così come è, però, a mio
giudizio, è privo di queste caratteristiche. Capisco le difficoltà
esistenti, le conosco benissimo, e so pure che il Senato è ostile a
modificare se stesso. Anche all'epoca della precedente modifica del
testo costituzionale incontrammo grandi difficoltà che il legislatore
affronterà anche questa volta. Il Senato, certamente, non accetterà
modifiche di un certo tipo. Ma questa è una difficoltà politica di cui
dobbiamo tener conto.
Se volete, invece, una osservazione di
carattere tecnico-istituzionale, allora mi sento di poter dire che il
Senato, così come concepito, non sia rappresentativo delle regioni,
essendo inidoneo a garantirne il pieno coinvolgimento nelle grandi
scelte del paese. Un correttivo al testo attuale potrebbe essere
rappresentato - e di ciò si è ampiamente discusso, a quanto mi risulta,
in Senato -, dal coinvolgimento di rappresentanti delle regioni non
soltanto nella umiliante funzione di eleggere i componenti del CSM -
iniziativa a cui le regioni dovrebbero risultare estranee, come estranee
sono alla materia della giustizia -, ma, lo ripeto, nell'adozione delle
rilevanti decisioni nazionali, come nel caso della valutazione
dell'interesse nazionale. In tali processi decisionali avrebbero dovuto
essere coinvolti i presidenti delle regioni, come pure in alcune delle
scelte legislative che riguardano l'articolo 119, cioè la distribuzione
delle risorse, e l'articolo 117, terzo comma della Costituzione. Se voi
riusciste, mantenendo il Senato così com'è, ad inserire, in alcuni
momenti determinanti della politica legislativa, i rappresentanti delle
regioni, allora potrebbe cambiare la situazione. Occorrerebbe, dunque,
individuare alcuni snodi dell'attività senatoriale, importanti ai fini
degli interessi regionali e in quelli inserire rappresentanti delle
regioni. Questa potrebbe essere una soluzione, una via d'uscita.
È chiaro che io penso al modello tedesco,
l'ho sempre pensato, e nella scorsa legislatura ne proposi l'adozione,
ma so bene che quel modello da noi non avrebbe fortuna politica,
pertanto non mi dilungherò troppo a discuterne, non essendovi la
possibilità di una sua accettazione. In alternativa, come correttivo del
sistema attuale, ripeto, mi permetto di suggerire agli onorevoli
commissari quanto appena detto, cioè un più ampio e più forte
inserimento dei rappresentanti delle regioni nei momenti deliberativi
importanti del Senato. Quanto alle intese, può essere che l'onorevole
Boato abbia ragione. Se la sua fosse l'interpretazione corretta, allora
nulla quaestio.
MARCO BOATO. La quaestio c'è ma di
altra natura...
VINCENZO CERULLI IRELLI, Professore
ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università «La Sapienza» di Roma. Appunto, di altra natura. Che
il Senato possa organizzarsi in Commissioni a base regionale, intese nel
senso di organi parlamentari capaci di coinvolgere i senatori eletti in
una certa area territoriale, è una scelta che può esser ovviamente anche
criticata ma è di natura minore. Se così è, però, occorre modificare la
criptica formula usata dal Senato, che potrebbe dar luogo alle
conseguenze più diverse. Quando si dice, infatti, che «Il Senato (...) è
organizzato in Commissioni», il che è ovvio, «anche con riferimento a
quanto previsto dall'articolo 117, ottavo comma», cioè quando si fa
riferimento ad una norma che prevede organi comuni tra regioni, qualche
dubbio interpretativo ovviamente si pone.
Sulla questione dell'articolo 118, ultimo
comma, gli onorevoli mi trovano assolutamente favorevole; se fosse
possibile trovare una formula adeguata (utilizzando, ad esempio, un
inciso fra due virgole) per poi inserirla nel corpo del testo attuale
sarebbe sicuramente preferibile alla formulazione attuale usata nel
disegno di legge. Ma, in ogni caso, deve restare il riferimento alle
autonomie funzionali, perché, pur essendo questo, secondo alcuni, già
implicito nella versione vigente dell'articolo 118, ultimo comma - la
stessa Corte costituzionale lo ha affermato recentemente, a proposito
delle fondazioni bancarie, - dichiararlo esplicitamente sarebbe di certo
auspicabile.
Mi sia infine consentita una brevissima
precisazione a proposito di ciò che aveva precedentemente menzionato
l'onorevole Saponara: il testo della legge costituzionale n. 3 del 2001
non era affatto blindato, il testo fu ampiamente condiviso. Poi,
nell'ultima fase della legislatura si disse legittimamente da parte
dell'opposizione di arrestarne il percorso e di non procedere oltre. La
maggioranza volle approvare il provvedimento e ricordo che anche alcuni
autorevoli esponenti di quella ritenevano inopportuno l'ultimo
passaggio, non intendendo affermare un precedente. Quella posizione fu
assunta, però, più per una motivazione di opportunità politica che per
altre ragioni; infatti, sul testo, in realtà - come può confermare
l'onorevole Soda che conosce meglio di me l'intera vicenda - le intese
furono ampie.
Vorrei ricordare, da ultimo, che
l'articolo 119, cioè una delle norme chiave dell'impalcatura
costituzionale, non è stata toccata dal Senato, e bene ha fatto il
Senato a non farlo. Aggiungo che in questa Commissione, fummo
l'onorevole Soda ed io a trattare e redigere il testo dell'articolo 119,
insieme con l'onorevole Tremonti.
MARCO BOATO. Con gli onorevoli Tremonti e Salvati, per l'esattezza...
VINCENZO CERULLI IRELLI, Professore
ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università «La Sapienza» di Roma. Giustamente. Costoro dettero
un contributo decisivo alla stesura del testo e ne dà prova il fatto che
il Senato oggi non lo ha modificato, come del resto è intervenuto in
modo assai modesto sul testo complessivo della Costituzione vigente. Ciò
che in quella legge costituzionale mancava, ovviamente, erano norme
sulla configurazione del Senato. Mancava, forse, anche una parziale
modifica della Corte costituzionale, che è stata infatti attualmente
introdotta in modo opportuno, ma fondamentalmente difettava una modifica
relativa alla configurazione del Senato, più specificamente riguardo
all'inserimento delle regioni nelle grandi scelte nazionali.
Questo è stato fatto oggi? A mio giudizio no! Perlomeno non è stato
fatto a sufficienza. Quindi, pur consapevole delle difficoltà politiche
- date dai rapporti tra i due rami del Parlamento - che caratterizzano
tale questione, suggerirei a questa Camera di apportare alcune
significative modifiche.
Tornando a ciò che dicevo in precedenza, bisognerebbe anche riesaminare
il rapporto tra Senato e Governo poiché il fatto che questa Camera sia
completamente succube del Governo e l'altra completamente svincolata da
ogni impegno di governo qualche problema di funzionamento lo produce.
Ciò, soprattutto se si fa riferimento ad un testo che assieme
all'indirizzo federalista contempla anche un indirizzo teso alla
governabilità.
Questa cosiddetta governabilità verrebbe
pienamente assicurata - forse anche troppo - nei rapporti tra il Governo
e questa Camera, ma verrebbe completamente ostacolata nei rapporti tra
il Governo e l'altra Camera. Quest'ultima, non ha una funzione
consultiva, ma su alcune materie fondamentali (elencate dall'articolo
117, comma terzo) ha l'ultima parola, cioè la potestà legislativa
decisiva.
NICOLÒ ZANON, Professore ordinario di
diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Milano. Signor presidente, innanzitutto intendo
ringraziare i commissari per avermi concesso di riflettere assieme a
loro all'interno di questa prestigiosa sede.
Cercherò di concentrare la mia attenzione
su alcuni aspetti fondamentali del progetto di riforma della Corte
costituzionale, inserito naturalmente nel contesto più complessivo, più
ampio dell'intero progetto di revisione della seconda parte della
Costituzione.
Innanzitutto, desidero ricordare a me
stesso cosa si intende fare della Corte costituzionale e,
successivamente, inserirò e valuterò il relativo progetto nell'ambito
del quadro complessivo. Infine, mi concentrerò su alcune questioni
particolari - decisive per la revisione dell'organo costituzionale in
questione - riguardanti il numero dei componenti, il problema dei
giudici di elezione parlamentare e il problema dell'equilibrio delle tre
componenti della Corte. Inoltre, se vi sarà tempo affronterò qualche
altra questione che attiene sempre alla giustizia costituzionale, in
particolare il tema relativo all'eventuale introduzione del ricorso
delle minoranze parlamentari alla Corte contro le leggi appena approvate
dal Parlamento. Questo è un problema molto vecchio che ciclicamente
ritorna all'attenzione del legislatore costituzionale.
L'articolo 40 del progetto di legge
costituzionale non tocca le competenze della Corte e, probabilmente, si
tratta di una scelta saggia perché è vivo ancora il ricordo delle molte
critiche avanzate nell'ambito dell'ultima Commissione bicamerale
competente in materia.
Non si interviene sui requisiti richiesti
per l'elezione a giudice costituzionale. Probabilmente, anche questa è
una scelta molto saggia perché l'eccellenza giuridica dei componenti è
un presupposto irrinunciabile.
Non si interviene nemmeno sui quorum
richiesti per l'elezione dei giudici, ma si trasforma la normativa
vigente nel senso - naturalmente molto importante - che il solo Senato
federale (quindi non più il Parlamento in seduta comune) elegge i
giudici di competenza parlamentare. In ogni caso, tale elezione avviene
sempre a scrutinio segreto con la maggioranza dei due terzi, mentre per
gli scrutini successivi al terzo basta la maggioranza dei tre quinti.
Quindi, fondamentalmente si interviene
sulla composizione della Corte costituzionale. Come va valutata questa
scelta nel complesso del progetto? Innanzitutto, partirei da qualche
considerazione relativa alla riforma del titolo V della Costituzione
approvata nella scorsa legislatura.
Si tratta di una riforma che ha fortemente ampliato le competenze
legislative delle regioni, anche se ha dato luogo ad incertezze molto
gravi per ciò che concerne i rapporti tra competenza legislativa dello
Stato e competenza legislativa delle regioni. Come conseguenza si è
avuto un fortissimo aumento del contenzioso tra Stato e regioni di
fronte alla Corte costituzionale.
Questa situazione, se volete, ha ridato
corpo a due esigenze fra loro collegate e da tempo inserite nell'agenda
delle riforme. Da una parte, la creazione di una vera Camera delle
regioni e dall'altra la modifica della composizione della Corte con la
previsione al suo interno di componenti non di nomina regionale ma
dotati di una sensibilità regionalista-federalista. Queste due modifiche
sono strettamente collegate tra di loro.
Secondo il mio parere il Senato federale - la cosiddetta Camera delle
regioni - dovrebbe essere il luogo della mediazione politica preventiva
fra le esigenze del centro e le esigenze dei territori regionali. Tale
mediazione politica preventiva deve consentire alle stesse leggi statali
- approvate da un Parlamento che contempli un tal Senato federale - di
rappresentare il frutto di scelte condivise tra centro e periferia. Ciò
aiuterebbe ad evitare in via preventiva il contenzioso costituzionale di
fronte alla Corte, che ha fatto del nostro federalismo/regionalismo un
singolare federalismo o regionalismo di carattere giurisdizionale.
La cosa è sotto gli occhi di tutti: non vi è scelta legislativa seria -
dello Stato o delle regioni - che non finisca sotto il controllo, a
seguito di ricorsi, della Corte costituzionale. Se volete, l'esempio del
condono edilizio è il più eclatante, ma è solo uno degli esempi che si
possono fare.
Il risultato è che noi, a mio avviso, assistiamo ad una contrazione
della responsabilità e del ruolo delle assemblee parlamentari e ad una
sovraesposizione politica di un organo giurisdizionale quale è la Corte
costituzionale. Stiamo parlando di un ruolo che non è né richiesto, né
gradito, come ha detto l'attuale presidente della Corte in una recente
conferenza stampa.
Il progetto approvato dal Senato non mi pare che lavori realmente nella
direzione di creare un Senato che sia davvero la Camera di mediazione
preventiva tra le esigenze del centro e della periferia. Non mi sembra -
anche se, probabilmente, se ne può discutere - che ne esca un Senato
autenticamente federale e legato ai territori; qualche elemento è
presente, ma molto debole.
Non mi sembra che il progetto introduca semplificazioni e
razionalizzazioni necessarie nel riparto delle competenze legislative
tra Stato e regioni. Anzi, penso che questo progetto complichi ancor di
più il quadro della tipologia delle leggi statali perché crea categorie
molto opinabili.
Come avrete sicuramente avuto modo di osservare, vi sono le leggi a
prevalenza della Camera, le leggi a prevalenza del Senato, le leggi
necessariamente bicamerali e le leggi eventualmente bicamerali.
Naturalmente, tutto ciò sembra fatto apposta, non per attenuare il
contenzioso di fronte alla Corte, ma per consentire di aumentarlo.
Infatti, anche sulla qualificazione di queste leggi potranno nascere
conflitti non più tra enti territoriali - Stato e regioni - ma
addirittura conflitti costituzionali tra i due rami del Parlamento.
Il progetto non esclude tutto ciò poiché nel testo si afferma che, nel
caso di contrasto, la scelta è rimessa ai presidenti che possono
rivolgersi ad un comitato paritetico. Quella decisione non è sindacabile
in sede legislativa, ma lo sarebbe in sede giurisdizionale. Quindi,
anche da questo punto di vista, mi pare che il servizio compiuto per
cercare di attenuare il contenzioso non sia positivo.
Tutto ciò, innalzerebbe ancor più la sovraesposizione politica della
Corte, accentuando a mio avviso la deprecabile giurisdizionalizzazione
del nostro federalismo.
Tornando al ragionamento sul modello
ideale, naturalmente deve essere chiaro che il rimedio del ricorso alla
Corte per la difesa delle proprie competenze è, pur sempre, una garanzia
fondamentale ed irrinunciabile, sia dello Stato sia delle regioni perché
fa parte di quello che si potrebbe chiamare lo statuto minimo di un
ordinamento federale. Semmai, ciò che conta è che il contrasto tra Stato
e regioni - da risolvere in via giudiziaria - deve tornare ad essere una
mera possibilità e non, invece, una forte probabilità come accade
attualmente.
Comunque, è chiaro che questo complessivo
assetto verso il quale si andrebbe giustifica in ogni caso la modifica
della composizione della Corte con l'ingresso di componenti che abbiano
- come dicevo prima - una sensibilità di tipo regionalista.
Naturalmente, si tratta poi di vedere come può essere organizzata questa
presenza di componenti di sensibilità regionale.
Per quanto concerne le parti del progetto che riguardano la Corte
costituzionale bisogna innanzitutto parlare del problema relativo al
numero totale dei componenti il collegio. Relativamente a tale
questione, indipendentemente da ogni considerazione circa gli organi che
nominano o eleggono e la proporzione tra le diverse anime all'interno
della Corte costituzionale, direi che la soluzione - ancora un poco
instabile - verso la quale si è orientato il Senato tutto sommato è da
approvare.
I giudici restano quindici anche se in
precedenza e in molte circostanze si è parlato di diciannove componenti.
A mio avviso, mantenere il numero di quindici componenti è importante
allo scopo di tutelare due questioni di fondo. In primo luogo, mi
riferisco all'autorevolezza dell'organo; un organo troppo numeroso perde
di autorevolezza e di credibilità diventando pletorico, ed inoltre vi è
anche il rischio che esso si trasformi in una sorta di parlamentino
parapolitico, il che francamente sarebbe da evitare.
L'altro aspetto - più tecnico - riguarda
la preservazione della collegialità reale delle decisioni della Corte
costituzionale; credo si tratti di un questione sulla quale la stessa
Corte costituzionale si dimostra molto attenta. La collegialità infatti
è presente all'interno della Corte costituzionale: il relatore non è il
solo che si occupa della redazione della decisione.
Voi sapete che spesso si discute sulla
eventuale introduzione della dissenting opinion all'interno della
Corte costituzionale. Secondo me si tratta di una misura di civiltà
molto importante che esiste anche in altri ordinamenti. In ogni caso,
all'interno dell'organo questa ipotesi - che avrebbe potuto essere
introdotta con norma interna - non è stata accolta proprio perché si è
sostenuto che con l'introduzione dell'opinione dissenziente verrebbe
meno quello sforzo di partecipazione alla costruzione di una motivazione
comune che fa parte dell'esperienza attuale dei giudici costituzionali.
Attualmente l'equilibrio che si basa sui
quindici giudici costituzionali è instabile, quindi bisognerebbe
lavorare per mantenerlo.
Per ciò che concerne i componenti di
nomina parlamentare parto da un assunto. Il Senato federale nella forma
prevista dal disegno di legge elegge troppi giudici e, secondo me, non
ha senso escludere del tutto la Camera politica. Il problema è un po'
complesso e va affrontato con calma; la questione è capire da dove
provengono i membri della Corte costituzionale di sensibilità regionale.
Si tratta di una questione che,
ovviamente, non può essere risolta se si pensa alla Corte costituzionale
come ad una sorta di collegio arbitrale, nel cui seno le parti - Stato e
regioni - inviano i propri rappresentanti.
I commissari sanno meglio di me che ogni
giudice della Corte costituzionale svolge le sue funzioni in assoluta
indipendenza e non rappresenta alcunché se non l'esigenza della
Costituzione: è questo il modello ideale al quale - credo - siamo tutti
attaccati. Naturalmente, ciò non significa negare che ciascun giudice
svolge le sue funzioni con la particolare sensibilità che gli proviene
dalla sua esperienza, dalla sua storia e dalla sua origine. Ovviamente,
questa sensibilità è influenzata - non può non esserlo - oltre che dalla
professione di origine, anche dalle modalità della nomina e dal soggetto
che l'ha effettuata.
Quindi, se non è pensabile che i giudici
costituzionali siano rappresentanti dello Stato o delle regioni - perché
ciò vorrebbe dire svilire la Corte costituzionale a collegio arbitrale
-, la presenza di un Senato autenticamente federale risolverebbe il
problema perché consentirebbe una soluzione equilibrata e conforme ai
modelli stranieri più conosciuti, consistente nella nomina di un certo
numero di giudici da parte del Senato federale.
Il modello che il progetto accoglie è quello che vede sette dei quindici
giudici nominati dal Senato federale, integrato dai presidenti delle
giunte delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano.
In ogni caso, se si analizzano i lavori
preparatori e l'ispirazione complessiva del progetto, con riguardo al
Senato ci accorgiamo che la ragione di fondo di questa scelta non
risulta legata completamente all'idea di fare di quei giudici
espressione delle sensibilità regionali o territoriali, ma ad altri
motivi che provo ad elencare. A fronte della rilevanza delle competenze
che la riforma attribuisce in via esclusiva alla Camera, si afferma che
sarebbe ragionevole attribuire al solo Senato federale il compito di
provvedere alla nomina della quota di giudici costituzionali di elezione
parlamentare. Si aggiunge - e questo è importante - che la nomina dei
giudici da parte di un organo svincolato dal circuito fiduciario sarebbe
in grado di fornire maggiori garanzie.Il Senato stesso, in quest'ispirazione,
rappresenterebbe un organo di garanzia, anche perché svincolato dal
circuito fiduciario.
Credo che questa argomentazione sia poco
convincente perché, a mio avviso, è difficile ragionare in termini di
garanzia avendo a riferimento un Senato eletto democraticamente,
oltretutto sulla base di un sistema elettorale di tipo proporzionale in
cui i partiti ricoprirebbero un ruolo fondamentale.
Se poi ci si riferisce alle competenze che
il progetto complessivo distribuisce, non pare che il Senato federale
risulti particolarmente debole. Nell'attuale versione si afferma che il
Senato decide in ultima istanza su tutte le leggi affidate alla
cosiddetta competenza concorrente; si tratta di quelle famose leggi a
prevalenza Senato di cui in precedenza ho fatto l'elenco.
Insomma, proprio la natura politica e non
federale o di garanzia di questo Senato non consente di considerare
decisivo il suo essere svincolato dal rapporto fiduciario. Anzi, uno
degli aspetti di maggiore irrazionalità del progetto è proprio quello di
aver disegnato un Senato fondamentalmente politico svincolato dal
circuito fiduciario. In questo modo, si viene a creare un contropotere
che non è una garanzia, ma un ostacolo al buon funzionamento ed
all'efficienza del sistema.
Da una parte questa giustificazione non mi
convince, però dall'altra se considerassi il Senato federale davvero
tale - una Camera legata ai territori -, anche da questo punto di vista
la scelta secondo me sarebbe poco convincente. Ciò perché in molti Stati
federali alcuni giudici sono eletti dal Parlamento con la partecipazione
dell'assemblea che rappresenta le autonomie territoriali.
In ogni caso, il progetto prevede che
tutti i giudici di quota parlamentare siano eletti dal Senato federale,
con esclusione di qualsiasi intervento della Camera politica. Ciò,
secondo me porta ad una soluzione squilibrata nell'altro senso. Infatti,
se fosse vero che il Senato è Camera territoriale, la decisione di
escludere ogni compartecipazione della Camera politica nella scelta dei
giudici è eccessiva perché squilibra la Corte costituzionale sul
versante delle sensibilità territoriali, forse determinando la presenza
di un vizio speculare rispetto a quello che si è sempre lamentato in
relazione alla Corte ordinaria che si diceva essere centralista;
insomma, non si avrebbe più una Corte costituzionale centralista, ma
iperegionalista.
Infine, ricordo che la Corte non si occupa
solo dei contrasti tra Stato e regioni, ma vi sono tante altre
competenze che restano ferme e per le quali la sensibilità centrale e
regionale non conta nulla.
Se il Senato federale è davvero una Camera
legata ai territori, il problema dello squilibrio derivante
dall'ingiusta esclusione della Camera politica dall'elezione dei giudici
è evidentissimo.
Tra l'altro, nella funzione di eleggere i
sette giudici il Senato viene integrato dai presidenti delle regioni e
delle province autonome. Questo dato accentua simbolicamente, anche se
non numericamente, la natura territoriale dell'elezione in esame.
Se, invece, come sembra evincersi dagli
stessi lavori preparatori, il Senato federale tale non è fino in fondo
(anzi si potrebbe insinuare che l'integrazione, che ho appena ricordato,
smaschera la realtà, perché, se fosse davvero un'assemblea territoriale,
non ci sarebbe bisogno di integrarla in funzione regionale quando si
procede all'elezione dei giudici), presentandosi piuttosto come un
originale modello di camera politica per le regioni, tra l'altro eletta
con un sistema diverso da quello previsto per la Camera dei deputati,
ebbene, anche in tal caso - si direbbe a fortiori - l'esclusione
di ogni compartecipazione di quest'ultima appare irragionevole, proprio
perché non avrebbe senso escludere completamente la Camera
autenticamente politica dalla scelta di quella quota di giudici che,
allora, conformemente alla natura dell'organo che elegge, andrebbe a
costituire l'anima «politica» della Corte.
Comunque si voglia costruire la natura del
Senato, a mio avviso, la scelta contenuta nel progetto si presta a
critiche.
Dubito che il rimedio possa essere tornare
ad un'elezione da parte del Parlamento in seduta comune perché, nel
progetto di revisione, il bicameralismo perfetto viene spezzato per
lasciare spazio a due camere fortemente disomogenee e non avrebbe senso
prevedere una loro riunione per eleggere i giudici della Corte.
Forse, il rimedio allo squilibrio potrebbe
semplicemente consistere nel prevedere che, di quei sette giudici,
almeno una quota - potrebbero essere tre - siano nominati,
separatamente, dalla Camera politica.
Altra possibilità, nella logica del
progetto, sarebbe quella di attribuire l'elezione di tutti e sette
giudici all'assise che elegge il Presidente della Repubblica, ai sensi
del nuovo articolo 83 della Costituzione, che viene chiamata Assemblea
della Repubblica e che è composta dai componenti delle due Camere, dai
presidenti delle regioni e delle province autonome e da un certo numero
di delegati regionali; in questo caso, sarebbero da espungere gli
ulteriori delegati regionali eletti dai consigli delle autonomie locali
tra i sindaci, presidenti di provincia o città metropolitana che non
sembrerebbero da coinvolgere nella scelta dei giudici costituzionali,
non occupandosi la Corte direttamente di competenze degli enti locali e
regionali.
Naturalmente questa è un'ipotesi da
studiare con cautela, perché, da un lato consentirebbe di recuperare per
intero i membri della Camera politica alla funzione di eleggere i
giudici, dall'altro sembra concedere questa scelta ad un'assemblea
ancora fortemente caratterizzata in senso territoriale.
Altro questione attiene all'equilibrio fra
le diverse anime della Corte: l'anima politica dei giudici eletti dalle
due Camere, l'anima giurisdizionale dei giudici eletti dalle supreme
magistrature ed infine quella istituzionale, propria dei giudici
nominati dal Capo dello Stato. Naturalmente, ogni tentativo di
distinguerle schematicamente pecca di semplicismo, ma si deve rilevare
con molta forza che l'anima politica della Corte assumerebbe una
posizione numericamente preponderante, trattandosi di ben sette giudici
su quindici, a differenza della composizione vigente (cinque giudici).
Ci si potrebbe chiedere, dopo aver
criticato l'esclusione totale della Camera dalla partecipazione a questa
elezione, se non sarebbe opportuno mantenere quella proporzione. Ciò
comporterebbe diminuire a cinque il numero dei componenti
complessivamente eletti dalle due Camere, separatamente, assegnandone -
è solo un'ipotesi - tre al Senato federale e, magari, due alla Camera.
Da ciò conseguirebbe che tornano ad essere cinque sia i giudici nominati
dal Capo dello Stato sia quelli eletti dalle supreme magistrature.
È chiaro che, in questo modo, la
fisionomia del progetto del Senato ne uscirebbe alquanto stravolta, però
ci sono forti ragioni che sostengono questa scelta: innanzitutto non
alterare un equilibrio delicatissimo, non modificare, in modo
irrimediabile, la fisionomia dell'organo che ha dato buona prova in
questi cinquant'anni di vita, mantenerne salda la natura realmente terza
e di garanzia, evitare qualunque rischio di colonizzazione
politico-partitica che, inevitabilmente, porterebbe al deperimento
dell'organo di giustizia costituzionale e all'insignificanza della sua
funzione.
In termini generali, con riferimento
all'impianto complessivo del progetto che - voglio dirlo - valuto
positivamente, il rafforzamento dell'efficienza e della forza
dell'esecutivo, nel l'ambito della forma di Governo orientata verso il
cosiddetto premierato, si accompagna al mantenimento e alla
rivitalizzazione degli organi di garanzia, Corte costituzionale in primo
luogo.
Ritengo utile approvare senza riserve la previsione contenuta nel nuovo
testo dell'articolo 135 della Costituzione, ove stabilisce che, nei
cinque anni successivi alla scadenza del mandato, il giudice
costituzionale non può ricoprire incarichi di governo, cariche pubbliche
elettive o di nomina governativa o svolgere funzioni in organi o enti
pubblici individuati dalla legge.
Si tratta di una modifica importante, da
molto tempo auspicata, che la stessa prassi degli ultimi anni sembra
sollecitare. Essa appare attuazione di un'evidente esigenza di
imparzialità nell'esercizio delle funzioni, perché bisogna evitare che
il modo in cui sono state esercitate le funzioni di giudice durante il
mandato possa essere «premiato» con l'attribuzione, alla fine del
mandato, di cariche o incarichi di varia natura, che appaiano come una
sorta di premio alla carriera. Tali nomine potrebbero gettare un'ombra
retroattiva di sospetto sulla reale imparzialità e indipendenza del modo
in cui il giudice costituzionale ha esercitato il proprio mandato.
Forse, dovrebbe essere considerato quale espressione di un principio più
generale da estendere anche ad altri giudici.
Concordo anche con la previsione,
contenuta nel progetto, per la quale questa disposizione non si
applicherebbe nei confronti dei giudici in carica alla data di entrata
in vigore della riforma costituzionale, perché, altrimenti, la
disposizione potrebbe suonare come un inopportuno giudizio negativo sul
modo in cui attualmente i giudici costituzionali stanno svolgendo le
proprie funzioni e, in secondo luogo, perché i diritti, i doveri e tutte
le complessive conseguenze dell'assunzione dello status di
giudice costituzionale devono essere noti al nominando, prima
dell'accettazione della nomina.
In conclusione, vorrei accennare a qualche
spunto sul ruolo della giustizia costituzionale per la creazione di uno
statuto dell'opposizione. Da tempo si ragiona in dottrina
sull'opportunità di attribuire all'opposizione il diritto di ricorrere
alla Corte costituzionale per chiedere che questa si pronunci, prima
della promulgazione, sulla legittimità di una legge appena approvata.
Questa è una vecchia questione sulla quale
ci sono opinioni diverse: chi vede con favore questa innovazione
sostiene che essa accrescerebbe diritti delle minoranze contro lo
strapotere delle maggioranze parlamentari; chi l'avversa, teme, invece,
che in tal modo la Corte, dovendo decidere sulla costituzionalità delle
leggi appena approvate, verrebbe trascinata nella contingenza della
polemica politico-partitica, fino ad assumere addirittura l'indebito
ruolo di una terza Camera.
Un progetto presentato dall'ISLE (Scuola
di scienza e tecnica della legislazione «M. D'Antonio») riattualizza
questa proposta con varie precisazioni.
Accogliendo lo spirito di tale proposta,
si deve tener presente che il progetto andrebbe a toccare e ad ampliare
significativamente le competenze della Corte costituzionale, ciò che,
finora, è stato escluso.
C'è poi un problema di coerenza
complessiva del progetto stesso, perché, fin qui, abbiamo ragionato
nell'ottica di prevedere una riduzione delle possibilità di contenzioso
di fronte alla Corte costituzionale, mentre questo tipo di riforma
chiaramente orienta verso un aumento delle possibilità di contenzioso di
fronte alla Corte stessa, con l'ulteriore minaccia di sovraesposizione
politica della stessa, sulla quale verrebbero facilmente scaricati
conflitti politici interni al Parlamento.
Bisognerebbe, inoltre, avere cura di
precisare chi siano i titolari del potere di ricorso e per quali vizi
che esso potrebbe essere sollevato. Un riferimento tradizionale può
essere il modello francese della saisine parlementaire, dove il
potere è attribuito ad una certa quota di parlamentari, non qualificato
come di opposizione o di maggioranza.
Il progetto dell'ISLE attribuisce la
titolarità di questo ricorso al capo dell'opposizione o addirittura ad
un capogruppo di minoranza. Ciò naturalmente presuppone che esista un
forte e stratificato statuto dell'opposizione.
La scelta di investire del potere il capo
dell'opposizione, come leader dell'insieme dei parlamentari non
collegato al Primo ministro, dotato della più estesa consistenza
numerica, potrebbe essere ragionevole nell'ambito della costruzione di
un efficace statuto dell'opposizione. Inoltre, la scelta compiuta dal
leader dell'opposizione sarebbe presumibilmente soggetta ad efficaci
meccanismi di responsabilità e, quindi, usata con una certa cautela.
Meno comprensibile risulterebbe
l'allargamento del potere di ricorso ad un altro capogruppo di una
qualunque minoranza diversa dall'opposizione che potremmo definire
istituzionale, proprio per i rischi che comporterebbe un suo uso
incauto.
Ribadisco, comunque, le mie forti
perplessità sull'introduzione di questo meccanismo per il rischio che
determinerebbe, soprattutto nel clima italiano, un facile coinvolgimento
della Corte in polemiche che potrebbero sminuirne il ruolo.
Quanto al profilo di vizi censurabili, il
suddetto progetto fa riferimento alla violazione da parte di una legge
approvata dal Parlamento dei diritti dell'opposizione o di una minoranza
riconosciuti nella Costituzione. Qui, però, si dovrebbe avere cura di
chiarire molto bene quali siano i diritti riconosciuti dalla
Costituzione all'opposizione, perché, altrimenti, il rischio sarebbe
quello di travolgere e sottrarre definitivamente alla sovranità
parlamentare tutti gli interna corporis che, invece, la
giurisprudenza costituzionale ha dimostrato in passato di voler
salvaguardare.
PRESIDENTE. Ringrazio il professor Zanon
per la sua relazione e do la parola ai colleghi che intendono
intervenire.
EGIDIO STERPA. Vorrei brevemente chiedere
al professore se non ritiene che l'impianto costituzionale costruito nel
progetto approvato dal Senato crei una sorta di diarchia parlamentare
estremamente conflittuale.
MARCO BOATO. Innanzitutto, vorrei
ringraziare il professor Zanon per le sue osservazioni puntuali, tutte
peraltro assolutamente condivisibili, osservando che sul tema più
delicato, l'alternativa al testo attuale, il professore è stato più
cauto, sia pure indicando alcune ipotesi che vanno certamente prese in
considerazione.
Vorrei sapere dal professore se abbia
qualche indicazione da sottoporre alla Commissione circa una diversa
soluzione rispetto all'attuale configurazione costituzionale ed
istituzionale del Senato, posto che essa si giustificherebbe, almeno in
parte, laddove quello delineato dal progetto approvato fosse
effettivamente un Senato federale o una Camera delle regioni, che
diventerebbe un luogo di mediazione politica preventiva. Siamo tutti
d'accordo sul superamento del bicameralismo perfetto o paritario, ma la
soluzione lì prevista sta suscitando insoddisfazioni trasversali e non
soltanto da parte dell'opposizione.
Inoltre, vorrei precisare che sono
favorevole alla dissenting opinion, cui il professore ha
accennato, definendola una misura di civiltà che comunque potrebbe
essere introdotta con norma interna. Come saprà, al riguardo il testo
approvato dalla Commissione bicamerale, di cui ero relatore, è stato
molto criticata. La Corte costituzionale, come tutti gli organismi
sottoposti ad ipotesi di riforma, non avrebbe voluto cambiare una
virgola. Le riforme possono essere giuste o sbagliate ma il problema è
che ogni istituzione, a cominciare dal Parlamento, fa fatica ad
accettarle. A quell'ipotesi di riforma, da parte di molti componenti
della Corte, informalmente, ci venne risposto di non procedere con la
riforma costituzionale, in quanto se ne prevedeva l'introduzione con una
modifica al regolamento interno. Ovviamente, non hanno fatto nulla e non
avevo alcun dubbio al riguardo.
Mi interessa sapere se il professore sarebbe favorevole all'introduzione
della dissenting opinion, che ritengo possa diventare un forte
strumento di equilibrio di fronte alle critiche, anche molto forti,
mosse nei confronti della Corte, provenienti non solo dai radicali ma
anche da esponenti dell'attuale maggioranza in Parlamento, e se non
ritenga che essa sarebbe un istituto che porterebbe la Corte ad una
maggiore attenzione ai rischi di sovraesposizione politica e di
sottoposizione a critiche all'esterno.
Vorrei porre un'ultima questione, emersa anche alcuni giorni fa, quando
una delegazione di questa Commissione (composta da alcuni di noi, a
partire dal presidente) ha avuto un inedito incontro con il Consiglio
costituzionale francese. Credo sia la prima volta che una Commissione
parlamentare abbia potuto discutere con ben sette componenti su nove di
questo organo di giustizia costituzionale. È un'esperienza di
grandissimo interesse, anche per gli stessi giudici del Consiglio
costituzionale francese che si sono potuti confrontare per la prima
volta con un organo politico.
Fra le principali questioni emerse, è
figurata l'enorme differenza tra il Consiglio costituzionale francese e
la Corte costituzionale italiana, questione collegata anche al rischio
della «terza camera», cui lei faceva riferimento quando parlava della
possibilità di ammettere un ricorso diretto delle opposizioni. In
Francia, a presentare ricorso, ai sensi normativi, non sono soltanto le
opposizioni, ma anche il Presidente della Repubblica, il Presidente
della Camera, quello del Senato, il capo del Governo e, infine, 60
deputati o 60 senatori. In realtà, ci è stato spiegato che, di fatto, in
questo ultimo caso, a presentare ricorso sono soltanto deputati o
senatori dell'opposizione. Ad ogni modo, il rischio di esposizione
politica, nell'imminenza di approvazione della legge, obiettivamente
risulta rilevante. Riconosco, comunque, che il professor Zanon abbia
fatto bene ad approfondire questo tema.
Un altro punto fondamentale è quello del
contenzioso elettorale, ambito non riconducibile alle competenze della
Corte costituzionale italiana. Si tratta di un tema particolarmente
attuale, basti pensare alla vicenda occorsa in questa legislatura: come
sappiamo, attualmente, questa è una Camera a plenum mancato, e
per tutta la legislatura opererà con 12 deputati in meno. Probabilmente,
se vi fosse stato un organo terzo, esterno il problema avrebbe potuto
essere, in un senso o nell'altro, risolto.
Questo interrogativo lo pongo anche a lei
che, sin dall'inizio, ha dichiarato di ritenere giusto non modificare le
competenze, per poi aggiungere che la Commissione bicamerale aveva, in
proposito, commesso degli errori radicali. Poiché sono stato io, insieme
ai miei colleghi, l'autore di quelle ipotesi di competenze aggiuntive,
sono anche molto attento alle critiche rivolte a certe soluzioni
prospettate. Detto ciò, trovo che l'ipotesi di ricorso in queste materie
così delicate possa essere una ipotesi da considerare. Rendo noto,
inoltre, che in tale materia il Consiglio costituzionale francese opera,
in fase istruttoria, per sezioni, ognuna delle quali è formata da un
giudice di nomina del Presidente della Repubblica, un giudice di nomina
del Presidente del Senato e uno del Presidente della Camera, estratti a
sorte. Tale ripartizione è stata chiaramente assunta per soddisfare la
necessità di diversificare le fonti di nomina. Lei, professore, sarebbe
favorevole a questo meccanismo? In ogni caso, come valuterebbe l'ipotesi
di articolare il lavoro della Corte costituzionale italiana per sezioni,
ovviamente in relazione alla fase istruttoria, dal momento che la
deliberazione dovrà comunque spettare all'organo collegiale?
LUIGI OLIVIERI. Sarò breve, signor
presidente, benché immagini già la risposta del professore Zanon,
contrario ad ogni momento di contenzioso della Corte costituzionale.
Venendo alla mia richiesta, apprezzerei molto conoscere il suo pensiero
in merito all'introduzione in Italia del giudizio diffuso di
costituzionalità: allo stato attuale, nel nostro sistema, esiste un
filtro giudiziario preliminare al promovimento del giudizio di
costituzionalità dinanzi alla Corte, costituito dalla verifica della non
manifesta infondatezza e della rilevanza della questione. Lei ritiene
che possa essere utile introdurre uno strumento di tutela così ampio,
come avviene in altri ordinamenti, oppure andremmo a ricadere nel
rischio già evidenziato? E se è utile, come io ritengo, quali sarebbero,
secondo lei, le modifiche da apportare all'attuale struttura della Corte
costituzionale?
GIANCLAUDIO BRESSA. Nel ringraziare il
professore per la solidità e la correttezza argomentativa, che mi hanno
fatto capire in maniera molto trasparente la sua opinione sulla riforma
- non solo della Corte ma anche del Senato -, volevo porre una domanda
un poco impertinente relativamente ad una norma transitoria, quella che
affiderebbe al Senato, non a quello futuro del 2011, ma a quello
attuale, ridenominato «federale», la nomina dei sette membri della Corte
costituzionale: qual è il suo giudizio?
NICOLÒ ZANON, Professore ordinario di
diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Milano. Cercherò di procedere nell'ordine in cui
sono state poste le domande, peraltro molto corpose, alle quali tenterò
di rispondere in modo sintetico.
L'onorevole Sterpa si chiede e mi chiede se l'impianto della riforma non
dia vita ad una diarchia parlamentare estremamente conflittuale. Sono
perfettamente d'accordo, ritengo che questo sia uno dei difetti
fondamentali del progetto. Se l'idea era quella di spezzare il
bicameralismo perfetto, proposta su cui si ragiona da tantissimo tempo,
allora, reputo che la situazione in concreto adottata sia la peggiore in
assoluto. Accennavo già precedentemente al fatto che, se una riforma
fosse approvata in questi termini, dovremmo scervellarci non solo sulle
famose competenze legislative esclusive regionali, ma anche sulle
procedure da scegliere a seconda del tipo di materia. Cioè, il problema
delle materie, definite in astratto e scritte in Costituzione,
diverrebbe ostacolo non solo per scegliere in capo a quale ente ma anche
a quale organo parlamentare affidarne la competenza. Naturalmente, le
definizioni contenute in una norma scritta possono essere significative,
ma intanto sono soggette ad interpretazione. La realtà è sempre più
complessa delle definizioni, per cui non è difficile immaginare che il
corretto procedimento parlamentare darebbe luogo ad un contenzioso,
soprattutto nei primi anni di applicazione di una riforma di questo
tipo. In base al disegno di legge che si discute, in caso di
contenzioso, a livello parlamentare, la questione verrebbe
automaticamente rimessa ad un accordo dei Presidenti dei due rami del
Parlamento, i quali sono competenti a decidere in materia di contenzioso
per competenza tra le due Camere in ordine all'esercizio della funzione
legislativa. I Presidenti, in ogni caso, possono devolvere la questione
ad un comitato paritetico (una trasposizione nel nostro ordinamento
della famosa commissione comune che esiste anche in Germania), la cui
decisione è insindacabile in qualunque sede legislativa. Come dicevo
prima, questo meccanismo apre la strada al conflitto di attribuzione tra
poteri.
Un altro aspetto da analizzare, uscendo
adesso dal problema del contenzioso e del procedimento parlamentare, è
rappresentato da un'ulteriore diarchia inquietante che vedo crearsi in
questo progetto: quella - poco efficiente - tra un Governo rafforzato,
il premierato, che a mio avviso rappresenta la razionalizzazione di una
tendenza manifestatasi nel nostro sistema politico da una parte, ed un
Senato federale, fortissimo, dall'altra, che mantiene l'ultima parola su
tutte le materie di competenza concorrente, fra le quali, tra l'altro
non è difficile individuare numerose leggi fondamentali per la
realizzazione dell'indirizzo politico della maggioranza.
In base alle ulteriori disposizioni del
progetto di legge, tuttavia, si prevede espressamente la possibilità per
il Governo di qualificare come essenziali per l'attuazione del suo
programma eventuali modifiche proposte dalla Camera dei deputati,
facendo scattare il meccanismo di convocazione di una commissione mista
- previa intesa dei Presidenti delle due Assemblee - incaricata di
proporre un testo sulle disposizioni che siano oggetto di contrasto tra
le due Camere, con il risultato di far diventare automaticamente i
relativi provvedimenti legislativi «bicamerali».
In merito a tale previsione, ritengo si possa discutere ampiamente in
termini giuridici, poiché essa apre la strada a possibilità di
contenzioso, diversità interpretative, e quindi scarsa funzionalità.
Sono, quindi, d'accordo sul fatto che questa soluzione crei una diarchia
estremamente conflittuale.
Vengo, poi, alle questioni sollevate
dall'onorevole Boato. Lei ha chiesto, onorevole, come poter realizzare
un Senato federale. Ovviamente, in materia il dibattito è stato molto
intenso, soprattutto all'inizio quando dovevano essere compiute le
scelte di riferimento. Vorrei però premettere che le costituzioni
redatte dai professori sono le peggiori in assoluto, perché non tengono
conto della realtà politica. L'esempio storicamente più interessante è
quello della Costituzione di Weimar, una carta bellissima finita però
come tutti sappiamo.
Perciò, ritengo che gli accademici debbano
muovere un passo indietro. Il senatore D'Onofrio è stato sempre molto
attento nel ricordare a tutti gli accademici questa necessità di
arretrare rispetto alle esigenze della politica reale. Occorre grande
cautela, da parte degli studiosi, nell'avanzare proposte di riforma che
lasciano il tempo che trovano, sono il frutto di un pensiero
individuale, molto spesso privo di agganci alla realtà politica.
Le costituzioni durevoli sono quelle in
cui la classe politica riesce a dare forma duratura, in nome di
interessi di lungo respiro, ad esigenze emerse realmente dal contesto
sociale. È del tutto evidente che questo progetto scontava e sconta
ancora una difficoltà fondamentale. Non si tratta solo di modificare le
competenze legislative e di intervenire su questioni secondarie; il
Senato doveva innanzitutto modificare se stesso, e quindi doveva e deve
rendere appetibile questa riforma, in primo luogo ai suoi componenti;
chiaramente, lo stesso problema si ripresenterà anche alla Camera quando
il plenum esaminerà il testo del provvedimento. Non vorrei
riesumare la categoria del conflitto di interessi, ma è evidente che le
istituzioni entrino in un conflitto di interessi quando ragionano su se
stesse. Non avendo, però, altra scelta possibile, le alternative si
ridurranno solo a due: o attribuiamo la scelta della Costituzione ad un
collegio di saggi che vive sulla montagna, oppure accettiamo che le
istituzioni riformino di se stesse.
Detto ciò, naturalmente, i modelli del
diritto comparato hanno comunque una certa importanza; tra quelli, il
Senato federale trova sicuramente una adeguata espressione nel
Bundesrat tedesco, in cui tutti i componenti del Senato sono
nominati dagli esecutivi dei Länder, cioè dei singoli enti
territoriali. È chiaro che una soluzione di questo tipo determinerebbe
lo stravolgimento di una tradizione storica, prestigiosa e autorevole,
creando problemi nella costruzione di una classe dirigente politica
alternativa a quella esistente: è pertanto chiaro che si tratta di un
progetto di difficile attuazione.
Alla luce di ciò, l'alternativa sembra essere quella di salvaguardare
l'elezione diretta per il Senato, che è un altro punto fondamentale del
nostro sistema - è chiaro, infatti, che i senatori non rinuncerebbero
facilmente alla legittimazione politica derivante da questa forma di
elezione -, conciliandola con il collegamento territoriale. Tuttavia, il
sistema della contestualità affievolita che è stato individuato, a mio
parere, è un poco debole. Bisognerebbe rafforzare ulteriormente la
connotazione territoriale del Senato, ad esempio, inserendovi, come
membri di diritto, i presidenti delle regioni. Reputo del tutto
praticabile questa proposta; del resto, alcune tracce della stessa si
rinvengono nel progetto di legge in discussione, come nel caso
dell'elezione dei sette giudici della Corte costituzionale. Si
tratterebbe di un'integrazione numericamente debole (sono pochi i
presidenti di regione), ma politicamente molto forte, intanto perché
garantirebbe quel prestigio che deriverebbe dall'elezione quasi sempre
diretta (più o meno tutti gli statuti prevedono questa scelta), e poi
perché intorno ai presidenti di regione si potrebbero costruire delle
logiche di schieramento non soltanto politico e partitico ma veramente
territoriali. La presenza di questi soggetti potrebbe rappresentare
un'innovazione quantitativamente piccola ma qualitativamente molto
significativa. Si tratta ovviamente di un'ipotesi, è come tale deve
essere considerata.
Quanto poi alla dissenting opinion,
si tratta un tema di grande interesse, a cui non sono contrario, in
realtà. Nel mio intervento osservavo semplicemente come dalla Corte
fosse stata respinta la dissenting opinion in nome della
collegialità, ma quando mi riferivo a questo, lo dicevo soltanto per far
capire come la collegialità sia un bene a cui la Consulta è molto
legata, e che va preservato. Personalmente, di questo istituto ho
un'opinione estremamente favorevole; ritengo che introdurlo sarebbe una
reale misura di civiltà, a livello generale: consentirebbe, infatti, di
disvelare i meccanismi interni attraverso i quali le decisioni sono
assunte e di capire, inoltre, che certe decisioni sono frutto di
contrasti molto forti all'interno della Corte costituzionale.
Questo molto raramente si comprende
all'esterno, se non in casi estremi, quando accade che il relatore,
originariamente designato, non firmi la motivazione, non condividendola:
in quel caso, il relatore originario viene sostituito. Questo è l'unico
caso in cui il dissenso emerge anche all'esterno. In realtà, mi chiedo
perché vergognarsi del dissenso; in una democrazia matura le opinioni
dissenzienti - anche di ordine costituzionale - minoritarie (per non
aver avuto peso giuridico, ma diffuse nell'ambiente sociale della
comunità delle persone interessate), rappresentano un elemento di grande
civiltà.
Per poter arrivare a questo risultato,
l'ideale sarebbe quello di intervenire con una norma di carattere
costituzionale, piuttosto che con una interna. Peraltro, in questo caso,
non ritengo che un intervento normativo sarebbe percepito come un
controllo, un atto di imperio nei confronti di un organo costituzionale.
Questa è semplicemente la mia opinione, ovviamente.
Quanto al contenzioso elettorale, ritengo si tratti di una delle poche
questioni che andrebbero inserite come nuova competenza della Corte.
L'esempio che lei ricordava della mancata integrazione del plenum
è, del resto, molto significativo.
L'affidamento di questa competenza ad un
organo quale la Corte, all'interno di uno stato di diritto in cui la
terzietà delle decisioni dell'organo decidente è molto importante,
sarebbe auspicabile. Ovviamente, sull'affidamento del contenzioso
elettorale e le relative modalità, occorrerebbe svolgere una
approfondita riflessione, sebbene la proposta mi trovi fondamentalmente
favorevole.
Da ultimo, interverrò a proposito
dell'articolazione in sezioni della Corte costituzionale, che
innanzitutto sembrerebbe rispondere ad uno scopo pratico, ovvero
consentire a ciascuna di esse di non essere un organo eccessivamente
pletorico.
L'unico rilievo che mi sento di fare,
riguarda, però, l'estraneità di questa soluzione alla tradizione della
Corte costituzionale, e sottolineo, pertanto, che la sua introduzione
potrebbe creare alcuni problemi. Tuttavia, non è neppure sbagliato
riconoscere che, ad esempio, il contenzioso tra Stato e regioni sia
ormai un ambito che richiede specializzazione. Del resto, già esistono
specializzazioni interne alla Corte (per cui ciascun giudice si occupa
prevalentemente di un determinato settore), la cui presenza potrebbe
agevolare l'introduzione di soluzioni tese ad un'integrazione dei
componenti e alla successiva articolazione per sezioni della Corte
stessa. Ribadisco, però, ancora una volta, che si tratterebbe di
intervenire introducendo un'innovazione estranea al tradizionale modo di
organizzazione della Corte costituzionale.
L'onorevole Olivieri ha posto una domanda
molto interessante sul giudizio diffuso di legittimità costituzionale,
chiedendosi se non si potrebbe lavorare sul provvedimento approvato dal
Senato per inserirvi disposizioni a riguardo. Questo, ovviamente, è un
tema di portata enorme e dunque sollecita uno studioso di giustizia
costituzionale a svolgere alcune considerazioni.
In proposito, vorrei pertanto sottolineare
che qualcosa di simile, a parte il giudizio di non manifesta
infondatezza, esiste già. La stessa Corte, nella sua giurisprudenza più
recente, è stata molto attenta a invitare i giudici a sollevare la
questione di legittimità costituzionale solo allorché il giudice a
quo abbia dimostrato per tabulas di non essere in grado
autonomamente di procedere ad un'interpretazione delle norme secondo
Costituzione. L'interpretazione secundum Costituzione, infatti,
rappresenta la prima regola ermeneutica che il giudice deve seguire
nella risoluzione del caso. Solo laddove il testo della disposizione
scritta non gli consentisse, proprio in quanto formulata in un certo
modo, tale operazione interpretativa, solo allora il giudice potrebbe
sollevare la questione; diversamente, se l'autorità giudiziaria
intervenisse autonomamente senza averne gli strumenti, si verificherebbe
un'ipotesi di manipolazione del testo costituzionale inammissibile.
Questo, in nuce, introduce qualcosa di simile al controllo di
costituzionalità diffuso. Aggiungo che già nel dibattito in seno alla
Costituente si dubitava della opportunità di affidare la Costituzione ad
una classe giudiziaria nella quale non si aveva ancora estrema fiducia.
L'iniziativa è diffusa, ma il giudizio finale è centralizzato: credo che
sia difficile prescindere da questo elemento che pesa molto nella nostra
tradizione.
Infine, l'onorevole Bressa esprime un concetto su cui sono assolutamente
d'accordo, del quale ho peraltro scritto nella mia relazione e che non
ho citato solo per ragioni di tempo: al punto 5 della menzionata
relazione («La prima applicazione della modifica della composizione: un
passaggio delicato), si osserva come le disposizioni transitorie del
progetto abbiano cura di precisare che, in sede di prima applicazione
della riforma, il Senato federale nomini i giudici di propria competenza
alla scadenza di giudici già eletti dal Parlamento in seduta comune, e
alle prime scadenze, di un giudice già eletto dalla suprema magistratura
ordinaria e di un giudice già nominato dal Presidente della Repubblica.
Il punto delicato, però, come risulta dall'articolo 42, comma 1, è che
la modifica della composizione della Corte si applicherebbe a decorrere
dall'inizio della prossima legislatura. Però, il prossimo Senato
resterebbe tal quale. Sarebbe semplicemente chiamato Senato federale
senza esserlo. Insomma, si tratta ovviamente di un aspetto molto
delicato che forse andrebbe corretto.
MARCO BOATO. Signor presidente, mi
consenta di ringraziare il professor Zanon per la sua diplomazia nel
rispondere alle domande che sono gli state poste nel corso di questa
seduta.
STEFANO CECCANTI, Professore
straordinario di diritto pubblico comparato presso la facoltà di scienze
politiche dell'Università «La Sapienza» di Roma. Signor presidente,
inizierei il mio intervento prendendo in esame la parte più deficitaria
del progetto, concernente lo statuto dell'opposizione e le garanzie
costituzionali.
Tra l'altro, segnalo che lo statuto della
regione Toscana - approvato in prima lettura venerdì 6 maggio - in
realtà è l'unico che contiene elementi significativi sullo statuto
dell'opposizione e sulle garanzie costituzionali. Anzitutto, esso
prevede la figura del leader dell'opposizione, il capo della
coalizione arrivata seconda alle elezioni - non comprensiva di tutte le
minoranze esistenti - che può essere cambiato in corso di legislatura.
Accanto a questo dato molto rilevante sono
compresi nello statuto della regione Toscana altre due significativi
elementi. Anzitutto, le commissioni di inchiesta - il tradizionale
strumento che dovrebbe servire all'opposizione per controllare la
maggioranza ed il Governo - sono istituite su richiesta di un quinto dei
membri del consiglio regionale della Toscana. Una norma analoga è
prevista anche nella bozza di statuto della regione Umbria approvata
però solo in commissione.
Un ulteriore elemento significativo che
contraddistingue lo statuto della regione Toscana è rappresentato dalla
modifica del quorum di partecipazione ai referendum.
Io penso che quest'ultimo, sotto vari
profili, sia il fattore che garantisce di più le minoranze poiché le
raccorda con spinte presenti nel paese e magari anche con parti di
elettorato della maggioranza al Governo che non vedono tutelati i loro
interessi specifici. Infatti, in fin dei conti viviamo in una società
complessa dove i cittadini, pur riconoscendosi in uno schieramento,
magari non ne condividono l'intero programma.
Molto opportunamente e in maniera analoga
a quanto previsto dal lavoro bipartisan svolto presso l'ISLE da
persone che hanno collaborato con tutti i gruppi parlamentari della
maggioranza e dell'opposizione, lo statuto della regione Toscana prevede
un quorum ragionevole e lo fissa alla metà più uno dei votanti
alle precedenti elezioni regionali. Quindi, evidentemente, si identifica
una soglia di partecipazione normale, ordinaria - che non può oggi
presumersi nell'interezza del corpo elettorale - che si desume sulla
base di un dato effettivo e riscontrato: la partecipazione alle
precedenti elezioni regionali.
Evidentemente, la trasposizione di questo
meccanismo permette che per le elezioni politiche nazionali si riporti
la metà più uno ai votanti, il metro di misurazione effettivo della
normale partecipazione. Altrimenti, il quorum di partecipazione
odierno - configurato alla metà più uno degli aventi diritto e pensato
in un periodo in cui la partecipazione elettorale superava il 90 per
cento dei voti -, quando attualmente vi è la tentazione di utilizzare
l'astensionismo come una sorta di no rafforzato, blocca la possibilità
di adoperare il referendum come contropotere.
Gli ultimi referendum che nel nostro paese
hanno raggiunto il quorum sono stati quelli del 1995. Essi
contemplavano una serie di temi - tra i quali la questione relativa alle
televisioni - e non registrarono nessuna campagna astensionista:
nonostante ciò, si raggiunse solo il 58 per cento dei voti.
Se ci troviamo in una situazione in cui -
avendo a riferimento i normali rapporti di forze - ad una maggioranza
parlamentare - qualunque essa sia - basta convincere meno della metà del
proprio protettorato ad astenersi, risulta evidente che mantenere il
quorum di partecipazione attuale significa sostanzialmente eliminare
il referendum abrogativo dalla Costituzione; vi inviterei quindi a
riflettere sulla soluzione già adottata dal consiglio regionale della
Toscana.
In ogni caso, possiamo ragionare
diversamente partendo, non tanto dall'elemento rappresentato dal
quorum dei partecipanti al voto, ma dalla presa d'atto di quanto sia
rappresentativo il sì. In altri termini, cosa si chiedeva in sostanza
attraverso il nostro articolo 75 pensato quando partecipavano al voto
pressoché tutti gli elettori? Si chiedeva che i sì fossero più di un
quarto del corpo elettorale. Quindi, in realtà il dato effettivo era
rappresentato dal fatto che il sì non fosse tipico solo di una
minoranza, ma espressione di almeno un quarto del corpo elettorale.
In conseguenza di ciò, si potrebbe pensare
in alternativa ad un unico quorum prevedendo che i sì debbano
comunque, oltre che prevalere sui no, essere superiori ad un quarto
degli aventi diritto.
Questo ragionamento mi consente di parlare
anche della norma relativa alla modifica dell'articolo 138 della
Costituzione, una delle disposizioni più delicate del testo.
Il vigente articolo 138 della
Costituzione, al di là del dato tecnico, intendeva esprimere una scelta
preferenziale per riforme condivise: per questo motivo i due terzi
esentavano dal referendum oppositivo. Inoltre, tale articolo consentiva
in subordine - se proprio non si raggiungevano i due terzi - la
possibilità di votare la maggioranza assoluta, anche se in questo caso
pendeva il referendum abrogativo.
È evidente che, così come è scritta,
quella norma presenta dei problemi; infatti, noi sappiamo che al giorno
d'oggi anche una riforma votata dai due terzi dei parlamentari potrebbe
non essere condivisa dai cittadini. Il rapporto tra i cittadini e i
partiti non è più quello che vi era nell'immediato secondo dopoguerra.
La legge statutaria del Friuli-Venezia
Giulia venne votata in consiglio regionale registrando un numero di voti
superiore ai due terzi del totale, mentre venne bocciata dal referendum
popolare (l'unico caso in cui vi è stato un referendum sulla regioni
speciali) promosso grazie alla legge costituzionale n. 2 del 2001
attraverso la quale - opportunamente - si previde la facoltà di
ricorrere al referendum anche nel caso in cui si superassero i due terzi
dei voti in consiglio regionale.
Non vi può essere una presunzione di
rappresentatività che esenta dal referendum, tuttavia dobbiamo trovare
un sistema che ci consenta di esprimere la preferenza attraverso un dato
tecnico: bisogna cioè privilegiare riforme largamente condivise.
Il testo presentato al Senato, si limitava
ad eliminare opportunamente l'esenzione dal referendum nel caso in cui
fossero state espressi più di due terzi dei voti, quindi possiamo dire
che giustamente raccoglieva questa preoccupazione antipartitocratica; in
ogni caso, non spingeva verso l'attuazione di riforme condivise.
Infatti, tutte le riforme votate da una qualsiasi maggioranza - purché
superiore alla maggioranza assoluta - si equivalgono poiché, comunque,
portano al referendum.
Il testo uscito dal Senato, in qualche
modo cerca di recuperare questo principio, ma lo fa in modo non positivo
poiché fa spuntare il quorum di partecipazione - la cui
sensatezza, perlomeno nelle forme attuali, è discutibile per quanto
riguarda il referendum abrogativo - anche sul referendum oppositivo, ma
solo quando la riforma viene approvata non con i due terzi.
Quindi, sulle riforme approvate a maggioranza assoluta incombe il
quorum di partecipazione, non previsto per le riforme votate a due
terzi. In questo modo, potrebbe entrare in vigore una riforma della
Costituzione votata da 5 milioni di elettori, mentre non passerebbe una
riforma della Costituzione votata da 20 milioni di elettori.
In conclusione, vi è da dire che la
soluzione tecnica individuata non funziona perché irrigidisce sui voti
alla fine del processo. Invece, se proprio dobbiamo pensare ad un
irrigidimento si potrebbe far riferimento a quello che avete adottato
per le regioni speciali a proposito delle leggi statutarie.
La soluzione prevista per le leggi
statutarie regionali e per quelle provinciali di Trento e di Bolzano non
irrigidisce in arrivo, ma in partenza. Quindi, se la legge statutaria
non è votata dal consiglio regionale o dal consiglio provinciale di
Trento e Bolzano a maggioranza di due terzi, aumenta il numero di coloro
che debbono richiedere il referendum. La conseguenza è che, a quel
punto, il referendum deve essere richiesto da un trentesimo o da un
quindicesimo del corpo elettorale, a seconda delle varianti previste da
regione a regione.
Quindi, essendo più difficile chiedere il
referendum quando la riforma procede con un largo consenso, mi sembra
che questo sarebbe il genere più sensato di irrigidimento. Ad esempio,
si potrebbe prevedere che quando la riforma è votata a due terzi debbano
chiedere il referendum dieci consigli regionali, anziché cinque, e un
milione di elettori anziché 500 mila.
Questo irrigidimento non creerebbe problemi, a differenza del numero dei
sì in coda che potrebbe presentare le complicazioni precedentemente
segnalate.
Per quanto riguarda la parte relativa al
premierato, mi sembra che i problemi consistano in un eccesso di
irrigidimenti presenti in particolar modo nella cosiddetta norma
antiribaltone, nell'automatismo sfiducia-scioglimento.
È evidente che, rispetto ad un sistema dei
partiti alquanto sfrangiato qual è tuttora il nostro, non possiamo avere
un grado di flessibilità parlamentare simile a quello odierno, poiché il
Parlamento neoeletto avrebbe dei margini di modifica - rispetto alle
scelte compiute dagli elettori - troppo ampi e incoerenti con il sistema
elettorale adottato. Tuttavia, non possiamo introdurre norme troppo
rigide che prevedano - sempre e comunque - lo scioglimento automatico
dell'assemblea in caso di sfiducia al Governo in carica, o che, in
qualche modo, sottendano una costituzionalizzazione di un certo sistema
elettorale.
Se si afferma che è possibile cambiare il
premier in corso di legislatura purché una maggioranza assoluta
di parlamentari firmi una mozione al riguardo, ciò significa supporre
che una maggioranza assoluta vi sia sempre e comunque; questo,
naturalmente, comporterebbe l'ipotesi della costituzionalizzazione di un
sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza, l'unico che
garantisce a priori una maggioranza assoluta.
È opportuno costituzionalizzare un sistema elettorale preciso? Le
Costituzioni - anche quelle più recenti - costituzionalizzano parti
della formula elettorale, ma costituzionalizzare un dato sistema
elettorale mi sembra francamente, una soluzione un po' rigida. Peraltro,
tale soluzione è un po' in contraddizione con la norma che parla
genericamente ed opportunamente di sistema elettorale che incentiva, che
favorisce le maggioranze, non che le garantisce. Quindi, vi è uno
stridore, una contraddizione tra la norma antiribaltone che richiede una
maggioranza assoluta e la norma che parla di favorire l'espressione di
una maggioranza.
Più in generale, possiamo osservare che le altre esperienze
comparatistiche non considerano negativa a priori la costituzione
di governi - i cosiddetti governi di minoranza - a maggioranza relativa.
Il Governo spagnolo, ad esempio, può contare su un'ampia fascia di voti
a favore o di astensioni ma, in quanto tale, è monocolore.
Per carità, in astratto tutti noi - se le
condizioni politiche lo permettessero - preferiremmo che coloro che si
presentano assieme alle urne possano governare essendo pienamente
coinvolti; in ogni caso, le concrete situazioni politiche, a volte, non
sono ben ingabbiate da questa nostra disciplina. Per questo sarebbe bene
anche stare attenti ai quorum dell'eventuale voto di fiducia
iniziale, o dei voti di sfiducia, o della questione di sfiducia. Infatti
negli altri paesi, normalmente, si adottano quorum che tendono a
favorire l'esistenza di governi di minoranza. Quindi, sia per la mozione
di sfiducia sia per la questione di fiducia sia per la fiducia iniziale,
si intende che il Governo ha vinto quando i voti contrari non sono di
maggioranza assoluta. Questo, infatti, consente che vi siano delle forze
cuscinetto a volte in accordo e a volte in disaccordo con il Governo.
Per questo, penso che dovremmo cercare di
avere certi margini di flessibilità del sistema, che permetterebbero di
sdrammatizzare la questione relativa al potere di scioglimento, in
quanto, garantendo la possibilità di funzionamento anche a governi
minoritari, diverrebbe più raro un ricorso eccessivo a tale potere. In
fin dei conti, credo che tutti quanti, dall'analisi delle esperienze
parlamentari della scorsa legislatura, abbiamo riflettuto sul fatto che,
se vi fosse stato il quorum negativo sulla questione di fiducia,
non si sarebbe verificata la crisi del governo Prodi.
Oltre al deterrente dello scioglimento,
giustamente invocato contro il rischio di crisi, anche la protezione di
governi minoritari consente una certa di navigazione
politico-parlamentare, che non smentisce il verdetto elettorale,
riuscendo, peraltro, a far proseguire la legislatura.
Bisognerebbe concentrarsi sulle norme che danno un certo grado di
flessibilità al sistema, certo inferiore a quello odierno, ma non così
rigido come quello previsto nel testo in discussione.
Non a caso, nel corso dei lavori della Bicamerale, la discussione svolta
sul testo presentato dal relatore Cesare Salvi giocò sui due modelli di
«premierato» di equilibrio e di contrappeso al potere di scioglimento,
sui quali si è poi fondato il dibattito successivo. Il relatore Salvi
presentò in partenza le norme della Costituzione spagnola, che prevedono
il potere di scioglimento discrezionale del premier, il quale si
può arrestare quando si presenta una mozione di sfiducia. Le proposte
alternative discusse allora propendevano di più per una soluzione di
tipo svedese, prevedendo che ci possa essere un potere di scioglimento
anche in seguito all'approvazione di una mozione di sfiducia contro il
Governo, che è quello che ha vinto le elezioni.
A mio avviso, la formula più flessibile
tra le due è quella svedese, che concepisce in misura più efficace lo
scioglimento come deterrente. Con una formula analoga a quella presente
nella Costituzione spagnola, invece, visto che la presentazione della
mozione di sfiducia, con possibilità di riuscita, comporta trattative
politico-parlamentari che richiedono un certo periodo di tempo, diventa
molto più concreto il rischio che il premier voglia sciogliere in
anticipo rispetto ad eventuali «ribaltoni» parlamentari.
Per completezza di esposizione, occorre
rilevare l'anomalia di fondo del testo approvato dal Senato, che
inficia, alla radice, l'intero progetto. Giorni fa, svolgendo una
relazione a Parigi, il professor Fulco Lanchester, preside della mia
facoltà, lo ha definito quale progetto «strabico», proponendosi da una
parte di risolvere i problemi di efficienza e di governabilità con varie
soluzioni, dall'altra prevedendo un Senato che non si può sciogliere
anticipatamente ma che, dal punto di vista quantitativo e qualitativo,
si trova a votare leggi fortemente incidenti sull'indirizzo politico, a
cominciare dalla finanziaria e da tutte le leggi sui principi
fondamentali delle materie concorrenti, che distruggono alla radice la
possibilità di governabilità nel nostro paese.
Quindi, delle due l'una: o seguiamo
un'ipotesi che rafforzi la governabilità - allora, però, dobbiamo
mettere in discussione quel Senato, che ha il privilegio di non essere
soggetto al rapporto di fiducia e allo scioglimento, divenendo così una
Camera in balìa di sé stessa, con un potere di veto pressoché assoluto -
oppure si ritorna all'idea, che ormai è un'anomalia italiana, delle due
Camere entrambe con potere fiduciario e quindi scioglibili.
La soluzione attuale invece disloca una ingovernabilità totale, in
seguito alla figura prevista di un Senato come Camera assembleare che
non paga nessun prezzo per eventuali instabilità che provoca il sistema.
PRESIDENTE. Ringraziando il professor
Ceccanti per la relazione testé svolta, do ora la parola ai colleghi che
intendono intervenire.
MARCO BOATO. Ringraziando anzitutto il
professore per il copioso materiale che ci ha fornito, vorrei porre
alcune domande. Rispetto a quelli che ha definito eccessi di
irrigidimento, mi interessa conoscere quali siano le proposte
alternative che suggerisce.
In merito alla modifica dell'articolo 138 della Costituzione, ritengo
che non si debba modificare nulla, salvo eliminare l'ultimo comma, in
modo che si possa promuovere il referendum anche nel caso in cui la
legge sia approvata con la maggioranza dei due terzi dei componenti di
ciascuna della Camere.
Vorrei però richiamare l'attenzione
sull'ipotesi che una legge, votata con ampia partecipazione in
Parlamento, venga bocciata da una minoranza nel paese, che inviti
all'astensione dal voto referendario. Ciò inibirà le Camere
dall'approvare riforme costituzionali che, in tal modo, potrebbero non
entrare mai in vigore. Si pensi all'esempio del Friuli da lei citato.
Non essendovi il quorum di partecipazione sul referendum proposto
su una riforma costituzionale approvata con una amplissima convergenza
parlamentare, basta che prevalga un «no» su un «sì» perché venga
bocciata. Potrà quindi accadere che sia facilmente bocciata una riforma
costituzionale approvata con la maggioranza dei due terzi o che,
comunque, non entri mai vigore quella riforma costituzionale, per la
quale, non essendo stata approvata con la maggioranza dei due terzi,
diventa obbligatorio il quorum di partecipazione che,
realisticamente, non si raggiungerà mai. Vorrei quindi sapere se il
professor Ceccanti abbia valutato anche questa ipotesi.
GIANCLAUDIO BRESSA. Nell'ambito
dell'eccesso di irrigidimento dovuto agli automatismi che lei lamentava
con riferimento al «premierato», vorrei conoscere la sua opinione
relativamente al secondo comma dell'articolo 94, che disciplina il
potere di scioglimento sulle proposte ritenute prioritarie e decisive
per l'azione di Governo; in particolare, non ritiene che questa formula
possa, in qualche modo, risolversi in un sorta di ricatto del Governo
verso il Parlamento e, quindi, in un vero e proprio esproprio del potere
legislativo in capo alla Camera?
ANTONIO SODA. Condividendo la relazione
del professor Ceccanti, mi limiterei a fare una riflessione aggiuntiva
sulla duplice veste che viene ad assumere il Senato, così come viene
indicato nella proposta approvata dall'altro ramo del Parlamento. Si
tratta di una Camera che assume connotati di forte valenza politica e
che è irresponsabile della produzione dell'instabilità del sistema. Lo
invito a riflettere anche sul fatto che il Senato è una camera, secondo
una tesi che da tempo ha affascinato molti giuristi, che vuole essere di
garanzia, tanto che ad esso sono attribuite le funzioni di nomina degli
istituti di garanzia, a cominciare dai giudici della Corte
costituzionale.
Le camere di garanzia sono quelle con le
quali si vogliono sottrarre le funzioni di garanzia del sistema, tra cui
la garanzia costituzionale, alla dialettica politica. Orbene, come è
conciliabile avere una Camera con forti poteri politici, ove il Governo
contratta l'attuazione del suo programma, che, nello stesso tempo, è
incaricata del ruolo di costituzione di tutti gli organi di garanzia del
sistema politico costituzionale?
Non sembra, professor Ceccanti, che questa
sia un'ulteriore anomalia, che porta a dire che la figura del Senato,
così come delineato nel testo approvato, sia un vero e proprio mostro
costituzionale-politico?
LUIGI OLIVIERI. Ringraziando il professor
Ceccanti per la relazione che, peraltro, condivido, vorrei chiedere il
suo parere in merito all'articolo 33 del disegno di legge costituzionale
approvato dal Senato, che modifica l'articolo 116, primo comma, della
Costituzione, aggiungendo la previsione dell'intesa con la regione
interessata per l'approvazione degli statuti delle regioni speciali con
legge costituzionale. Ritengo che l'aggiunta proposta non sia
assolutamente sufficiente perché non prevede una compartecipazione ed
una concertazione effettiva tra queste specialità, che, per alcuni
aspetti, sono sostenute da statuti approvati o nell'imminenza
dell'approvazione della Costituzione o ancora prima della stessa. Non
crede che la previsione di un accordo, che deve intervenire entro sei
mesi dall'avvio del procedimento, non abbia alcuna rilevanza effettiva?
PRESIDENTE. Do la parola al professor
Ceccanti per la replica.
STEFANO CECCANTI, Professore
straordinario di diritto pubblico comparato della facoltà di Scienze
Politiche presso l'Università «La Sapienza» di Roma. Con riferimento
alla domanda posta dall'onorevole Boato sull'articolo 138, vorrei
precisare che vi è una ulteriore soluzione sulla questione contenuta nel
rapporto dell'ISLE. In esso si prevede che ci possa essere un ricorso
preventivo da parte di minoranze parlamentari alla Corte costituzionale
per giudicare, prima che una legge di revisione venga messa in
votazione, se la stessa intacchi i principi fondamentali
dell'ordinamento. Vi sarebbe in tal modo un giudizio di costituzionalità
della Corte che interverrebbe prima del voto popolare.
Attualmente, come tutti sappiamo, la Corte ha elaborato la teoria dei
principi supremi, cui neanche la revisione costituzionale può derogare.
Sarebbe quindi un problema serio se l'organo di garanzia costituzionale
intervenisse dopo l'approvazione del Parlamento e dopo il voto popolare
per giudicare se una riforma costituzionale abbia violato quei principi
supremi.
Non vedo però il rischio paventato dall'onorevole Boato, in quanto, se
in Parlamento c'è una maggioranza della consistenza dei due terzi che
vota una riforma, è poi possibile che quella stessa maggioranza non sia
in grado di convincere la maggioranza di cittadini a votare partecipando
al referendum? Posso immaginare che vi siano minoranze fortemente
eccitate e mobilitate contro un accordo bipartisan, ma penso che, se
tale accordo poggia su soluzioni sensate ed è sentito dalla popolazione,
non dovrebbero esserci problemi a farlo passare anche attraverso la via
referendaria.
Circa le domande poste dall'onorevole
Bressa, ho redatto un'ipotesi di correzione all'articolo 28, la quale
fonde in un unico istituto la questione di fiducia ed il voto bloccato
che sono, anche negli ordinamenti che li prevedono, rigorosamente
separati. Non vedo la necessità di introdurre il voto bloccato nel
nostro ordinamento, però il Governo può anche decidere di farvi ricorso;
mi sembra però un eccesso di zelo che a ciò debba conseguire sempre la
questione di fiducia e lo scioglimento. Mi limiterei, quindi, a
prevedere che la questione di fiducia si consideri approvata se non ha
contro la maggioranza assoluta, così come avviene per la sfiducia.
Riterrei poi opportuno eliminare la norma
«antiribaltone», in quanto reputo sia improbabile il verificarsi della
contorta ipotesi di scuola, sottesa alla norma, di un premier
kamikaze, il quale vuole andare alle urne per punire la propria
maggioranza, da cui non sarebbe ricandidato. I premier sono tali
perché hanno una maggioranza parlamentare, rappresentante
dell'elettorato, che li sostiene e che li ha designati. Ora, un
premier, che non abbia possibilità di essere rieletto alle elezioni
successive, non provoca certo lo scioglimento anticipato. Se vi fosse un
premier kamikaze, l'unico effetto «negativo» sarebbe il voto dei
cittadini, un rischio quindi assolutamente affrontabile.
Non ritenendo opportuna la norma
«antiribaltone», la questione più delicata attiene all'individuazione di
chi gestisce la limitata flessibilità nel caso di dimissione del
premier che non è più sostenuto della sua maggioranza.
A mio avviso, la soluzione migliore al
problema dello scioglimento è, in partenza, quella di tipo svedese,
ovvero che ci sia un primato del premier che, con la sua
maggioranza, ha vinto le elezioni. Lo sfiduciato ha una settimana di
tempo per valutare se la nuova maggioranza che si è presentata in
Parlamento potrebbe vincere le elezioni contro di lui, nel qual caso
lascerà il passo ad essa, presumendo che abbia anche consenso popolare;
viceversa sperimenterà il ricorso alle urne se ritiene di trovarsi di
fronte ad una oligarchia parlamentare che ha stabilito una nuova
combinazione che non reggerebbe la prova delle elezioni.
Tra l'altro, lo scioglimento comporta che
il premier responsabile dello stesso possa benissimo ritrovarsi a
capo dell'opposizione, a differenza, ad esempio, del caso francese, nel
quale il Presidente della Repubblica francese, quando scioglie
anticipatamente le assemblee, resta all'Eliseo, sia pure con poteri
diminuiti. È proprio per tali ragioni che, in queste settimane, in
Francia, si assiste ad una forte ondata di opinione a favore di un
sistema «primoministeriale». È stata presentata una mozione, al
congresso socialista, dal deputato De Montebourg, con cui si è richiesto
il passaggio ad un sistema in cui il premier e il Presidente
della Repubblica detengano il potere di scioglimento. Esiste addirittura
un movimento, la «Convenzione per la VI Repubblica», nell'ambito del
centrosinistra francese, che esprime questa tesi.
Venendo al problema di cui si discute, ciò
che sembra comunque prioritario definire è a chi spetti gestire la
nomina del nuovo premier nel caso in cui il premier che
abbia vinto le elezioni si dimetta. A mio parere, in tale ipotesi,
sarebbe del tutto opportuna la mediazione del Presidente della
Repubblica che - attraverso una formula generale di legittimazione,
introdotta nel testo del provvedimento - potrebbe procedere nella scelta
del primo ministro, sulla base dei risultati elettorali. Tale formula,
coprirebbe non solo la nomina di inizio legislatura - che, ovviamente,
dovrebbe essere pacifica - ma anche il vuoto determinato da ipotetici e
successivi casi di dimissione anticipata del premier stesso in
corso di legislatura, conferendo la possibilità, appunto, al Presidente
della Repubblica, sulla base dei risultati elettorali ottenuti, di
scegliere colui che goda di una maggioranza sostanzialmente invariata.
La formula «sulla base dei risultati
elettorali» è sufficientemente precisa da evitare ipotesi di
trasformismo, ma non così rigida come la norma antiribaltone attuale, di
cui sembrerebbe invece più sensata.
Quanto al Senato federale, questo, nella
sua attuale veste, indubbiamente si merita tutti i rimproveri mossigli
dall'onorevole Soda; del resto, gli organi di garanzia sono strutture
idonee a «garantire» dal suffragio universale, del quale, pertanto, non
possono costituire emanazione.
Organo di garanzia è la Camera dei Lord, ad esempio. Nel
costituzionalismo moderno, cioè, si intende certamente valorizzare il
suffragio universale, ma anche difendersi dagli effetti che questo può
provocare. Per cui, configurare come garanti autorità che derivano
dall'esercizio del suffragio universale mi sembra in sé una
contraddizione in termini. Per questo ritengo che il potere di nomina
vada normalmente dislocato su autorità che non derivino dal suffragio
menzionato, come ad esempio i poteri di nomina in parte già riconosciuti
al Presidente della Repubblica.
Quanto al Senato, tale organo dovrebbe
svolgere la funzione di raccordo con il sistema delle autonomie. Il
raccordo dovrebbe, inoltre, essere congegnato in modo tale che, sulla
gran parte delle leggi, alla fine la Camera, che intrattiene il rapporto
fiduciario con il Governo, possa, in ultima analisi, decidere.
Diversamente, il sistema sarà minato dall'interno.
Per quanto riguarda, poi, la domanda finale postami dall'onorevole
Olivieri, in effetti, la procedura di approvazione degli statuti
regionali ordinari sembra stridere rispetto a quella, pur modificata,
degli statuti speciali.
Quella attuale è una situazione in cui i
poteri legislativi regionali sono sostanzialmente uguali. Le regioni
ordinarie approvano il loro statuto, pur rischiando l'impugnazione da
parte del Governo in via preventiva (rischio inesistente, però, allorché
i legislatori regionali siano abbastanza sensati), hanno la possibilità
di indire il referendum eventuale, ma in sostanza tutto lascia
presagire che lo statuto passi tranquillamente per sola volontà del
legislatore regionale. Quanto allo statuto speciale - anche ai sensi del
testo costituzionale modificato - sia pure «asciugato» grazie
all'invenzione della fonte intermedia rappresentata dalla legge
statutaria - sembra addirittura che possa essere approvato contro la
popolazione di quella regione, con legge costituzionale del Parlamento.
Penso, che allora sarebbe opportuno
introdurre in via normativa la possibilità di un referendum di
tipo oppositivo regionale; che il Parlamento possa approvare un testo
addirittura in difformità dall'intesa con la regione interessata pare
non accettabile, sebbene reputi eccessivo chiedere l'introduzione, nel
testo in esame, di una disposizione capace di «blindare» l'esame
parlamentare in caso di contrasto, come accade per le intese con le
confessioni religiose. Il fatto che, però, in chiusura, la modifica
dello statuto, la quale risente delle proposte della regione e della
volontà del legislatore nazionale, debba essere soggetta ad un voto di
rigetto del corpo elettorale regionale, mi sembrerebbe la soluzione più
equilibrata e capace di recuperare l'eccesso di distanza con gli statuti
ordinari.
Vorrei, poi, intervenire aggiungendo un'ultima osservazione. Ho letto il
testo del professor Cerulli Irelli, molto interessante, su cui concordo
quasi interamente, eccetto che per un aspetto, e per ragioni di
esperienza fatta. Il professor Cerulli Irelli, infatti, vorrebbe
sottrarre il potere di scioglimento anticipato ai presidenti delle
regioni. Finché si tratta di eliminare quegli eccessi di rigidità nel
caso di morte o impedimento permanente, questo è più che sensato.
Fra l'altro, io stesso sono fra i
collaboratori della regione Friuli-Venezia Giulia per lo statuto, e
posso pertanto confermare che in quel territorio ci si è orientati
proprio nella direzione appena prospettata. Occorre, però, prestare
attenzione a ciò che facciamo perché, come rileva anche il paper
del centro studi Astrid sugli statuti delle regioni, la scelta
dell'elezione diretta e del simul simul è la più congrua rispetto
alla concessione dei poteri legislativi di cui al Titolo V. Non è un
problema di modelli, ma di vita vissuta. La consiliatura regionale,
avviata nel 1995, è scaturita dalla applicazione della medesima
legislazione elettorale del 2000. La differenza sta, però, nella
mancanza del potere di scioglimento, nel primo caso. Quindi, al termine
della clausola anti ribaltone biennale, le regioni maggiormente
bisognose di stabilità politica hanno vissuto una crisi di giunta.
Viceversa, in questa legislatura, con le medesime norme elettorali ma,
in più, con il deterrente dello scioglimento - usato, in realtà, da
nessuno dei 15 presidenti di regione ordinaria - si è verificata una
notevole stabilità, che consentirà all'elettorato, a fine consiliatura,
di giudicare l'operato dei presidenti regionali.
Non escludo ipoteticamente, in un futuro
non necessariamente lontano, che, in un sistema di partiti più
stabilizzato e armonizzato, meno bisognoso di supporti così stringenti,
sia possibile anche avere norme più lasche; sin tanto, però, che il
sistema partitico rimanga invariato, appare del tutto opportuna la
presenza di regole costituzionali capaci di inquadrare fortemente la
forma di Governo. Per di più, le regioni dove esiste un certo margine di
autonomia statutaria ed il cui sistema politico garantisce una maggiore
stabilità potrebbero comunque introdurre questo strumento,
distanziandosi in misura crescente da quelle più deboli e politicamente
instabili, ove - anche in ragione del mantenimento di norme più morbide
- eguale solidità non verrebbe raggiunta. Se ciò fosse, pertanto,
proprio ciò che critichiamo della devolution verrebbe esattamente
riproposto in termini di diverso rendimento delle forme di Governo.
GIOVANNI PITRUZZELLA, Professore
ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Palermo. Signor presidente, sarà mia cura
trasmettere una copia del lavoro svolto agli uffici di questa
Commissione.
PRESIDENTE. La ringraziamo in anticipo. Se
fosse possibile - ciò formerà comunque oggetto di valutazione
dell'ufficio di presidenza - sarebbe nostra intenzione riunire in un
unico volume tutti gli interventi dei giuristi che abbiamo consultato.
Do la parola al professor Pitruzzella, che svolgerà una relazione sulla
forma di Governo e sul Senato federale.
GIOVANNI PITRUZZELLA, Professore
ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Palermo. Signor presidente, ringrazio voi tutti
per avermi invitato ad esprimere qualche opinione in una sede così
autorevole. Forma di Governo e Senato federale sono strettamente
connessi, considerato che composizione e funzioni del secondo sono
capaci di incidere profondamente sul funzionamento complessivo del
sistema di Governo in corso di definizione. Procedendo con enorme
rapidità, indicherei, innanzitutto, quali siano gli obiettivi che si
intende perseguire e le tecniche cui ricorrere per farlo, verificando se
il modo in cui certi strumenti sono stati utilizzati sia o meno
congruente al raggiungimento dei fini individuati.
Con riguardo agli obiettivi della riforma - su cui mi pare vi fosse
certa condivisione da parte di forze politiche diverse - , in primo
luogo, si intenderebbe consolidare il passaggio alla democrazia ed al
parlamentarismo maggioritari, ovvero un sistema in cui il Governo è
legittimato dagli elettori, esiste una distinzione fra maggioranza e
opposizione, ed una alternanza ciclica tra queste nelle funzioni di
governo. In secondo luogo, si vorrebbe rendere la struttura dello Stato
coerente con un regionalismo forte o addirittura con il federalismo e
quindi rafforzare il collegamento tra articolazione territoriale e
Parlamento. Non solo, nello spirito della riforma, tale rafforzamento
sarebbe anche necessario per ridurre la conflittualità tra Stato e
regioni. Sappiamo tutti, infatti, che la riforma del Titolo V ha
innescato una grande conflittualità (la quale, non dimentichiamolo, è
fattore di grave incertezza del diritto, a sua volta nociva per lo
sviluppo economico ed i calcoli delle imprese). Il terzo obiettivo è
quello di rendere più funzionale il sistema, secondo i concetti di
governabilità, efficienza e rapidità decisionale.
Rispetto a questi fini, le tecniche da
utilizzare sarebbero numerose. Certamente, non si può eludere che, a
livello costituzionale, contino i fatti normativi, le convenzioni. In
altre parole, si sarebbe potuto ottenere l'evoluzione verso la
democrazia ed il parlamentarismo maggioritari anche con regole
convenzionali; abbiamo anche rilevato trasformazioni che, nel linguaggio
giornalistico e politico, sono state definite « passaggio alla seconda
Repubblica » (espressione sulla cui correttezza, dal punto di vista
giuridico-costituzionale, non mi pronuncio) e ciò è avvenuto senza
modifiche formali. Probabilmente, nel testo, si sarebbe potuto
rafforzare questo passaggio senza bisogno di intervenire sulle norme
costituzionali.
Il fatto che in Italia si avverta, però, tale esigenza, risponde alla
circostanza per cui le vecchie convenzioni si sono rotte, basti pensare
a quanto è avvenuto dopo la crisi del primo Governo Berlusconi, a
proposito del potere di scioglimento del Parlamento, oppure a ciò che si
è recentemente verificato con riferimento alla titolarità del potere di
grazia. Da tutti questi casi, in cui non si sono create nuove norme, è
derivata la necessità di consolidare le trasformazioni occorse in un
testo scritto, appunto, riformatore. È in ogni caso opportuno osservare
che la riforma della quale si discute avviene in un contesto in cui a
muoversi sono degli attori politici consolidati.
Non siamo, cioè, in una situazione
storico-politica in cui sia possibile esercitare un potere costituente
ed i soggetti politici risultino caratterizzati dalla non conoscenza
delle conseguenze delle loro attività; al contrario, ognuno di essi può
calcolare quali vantaggi e svantaggi - a livello partitico o personale -
otterrà dalle riforme. È chiaro che da ciò derivino, dunque, taluni
limiti allo stesso processo riformatore.
Detto ciò, andrò ad esaminare come le
proposte presentate e approvate in prima lettura al Senato siano
congruenti rispetto agli obiettivi, evidenziando ciò che è migliorabile
e ciò che, probabilmente, non lo è - pur essendo accademicamente
discutibile - in ragione di quei vincoli politici di cui parlavamo.
A questo punto, ritengo che il punto
centrale da considerare sia, in primo luogo, la questione del Governo
del premier. Ricordo che riguardo a questo tema, in passato, si
proponeva addirittura l'elezione separata del presidente del Consiglio
rispetto alla sua maggioranza.
Quanto alle posizioni attuali, sulla evoluzione e adozione di una forma
di Governo di questo tipo, detta anche neoparlamentare, mi sembra di
ricordare che, fino poco tempo fa, esistesse un largo consenso da parte
di forze politiche diverse. Con particolare riferimento, poi, al disegno
di legge approvato dal Senato, tra le varie ipotesi di Governo
neoparlamentare si è preferito adottare un modello che è stato definito
«debole». In questo testo, esiste un collegamento del candidato
premier ai candidati nei collegi, ciò che significa depotenziare
ipotetici rischi plebiscitari della riforma. Tuttavia, parlare di rischi
di autoritarismo, di plebiscitarismo, alla luce del testo approvato dal
Senato, a mio parere, è francamente eccessivo. Se da una parte, già
esiste un sistema in cui l'elettore vota scegliendo, nella sostanza, il
primo ministro, dall'altra, dobbiamo tener conto di come questa elezione
si inserisca in un meccanismo in cui vengano mantenuti i tradizionali
istituti di garanzia (Capo dello Stato, Corte costituzionale) e dove la
divisione orizzontale del potere è affiancata, in modo forte, ad una
divisione verticale, determinata dal federalismo. Le regioni, i comuni,
le province, le città metropolitane rappresentano, infatti, i nuovi
centri di potere in cui viene ad essere ripartita la sovranità, fungendo
da limite nei confronti di un presidente del Consiglio eletto. Alla luce
di ciò, parlare del rischio di derive autoritarie o plebiscitarie,
sembra strumentale.
Altrettanto mi sembra insostenibile - per
contrastare la riforma -, sostenere, come invece fa Giovanni Sartori,
che, là dove è stata introdotta una forma di Governo neoparlamentare,
cioè Israele, le cose non abbiano funzionato. A me pare che i critici
della forma di Governo del premier cadano in contraddizione,
perché, da una parte l'accusano di autoritarismo, dall'altra, facendo
riferimento ad Israele, ne mettono in evidenza l'ingovernabilità e la
difficoltà di assumere delle decisioni.
La verità è, invece, che al Governo di
tipo israeliano, che nel 2001 è stato riformato, nessuno mai ha fatto
riferimento; né questa riforma richiama in alcun modo quel modello,
perché, appunto, il premierato, introdotto nel nostro sistema, verrebbe
comunque collegato alla presenza di una sicura maggioranza in
Parlamento.
Il problema più controverso riguarda,
piuttosto, come voi ben sapete, il potere di scioglimento, a cui le
critiche sono particolarmente indirizzate. È chiaro che, in quasi tutti
i parlamentarismi maggioritari, questo potere spetti al Governo, come
avviene per l'esperienza britannica. Qualcuno sostiene che in
Inghilterra nei primi anni del secolo ventesimo il potere è stato del
premier, ma che tale strumento non sia stato usato contro la propria
maggioranza riottosa ma per stabilire la data più propizia per svolgere
le elezioni. In ogni caso, si è osservato come vi sia stata sempre la
possibilità di cambiare primo ministro, nel corso di legislatura. Il
caso citato oltre modo, ovviamente, è sempre quello di Margaret Thatcher
nel 1990.
In realtà, la soluzione prospettata dalla
riforma non contraddice tutti questi elementi; infatti, nel testo del
disegno di legge è contenuta una previsione secondo cui, anche allorché
il presidente del Consiglio richieda lo scioglimento, il Parlamento - o
meglio la Camera «politica» - possa presentare una mozione, proveniente
dagli stessi deputati della maggioranza usciti dalle elezioni, con cui
sostituire il premier con un altro. Si tratta, dunque, di una
soluzione coerente con quella britannica; d'altra parte, bisogna
osservare come anche i teorici delle scioglimento inglese dichiarino che
questo possa essere utilizzato per risolvere problemi di conflittualità
interna ai partiti.
Ricordo come un libro di Mauro Volpi, del
1984, quando ancora in Italia non si ipotizzava nemmeno questo tipo di
riforma, sosteneva che esistono nell'esperienza dei regimi parlamentari
casi di scioglimento governativo, molti dei quali - derivando da
conflitti interni alla maggioranza - sono utilizzati come strumento, da
parte del premier, contro alcune componenti particolarmente
turbolente della propria coalizione.
Riguardo al Senato federale - mentre
esprimo un giudizio tendenzialmente positivo sulla soluzione per il
Governo del premier - la valutazione si fa più articolata.
Il Senato federale è necessario in un assetto ispirato all'idea di
garantire effettivo spazio di intervento alle regioni, perché le materie
non vengano divise e separate «a colpi di accetta».
L'illusione dei formatori del Titolo V, presente nel nostro paese, è
quella secondo cui, per rendere il sistema più federale, basti sottrarre
una competenza al centro e trasferirla verso le regioni, idea a cui è,
ovviamente, sottesa la convinzione che le materie possano essere
separate con nettezza.
In realtà, come dimostra l'esplosione del
contenzioso costituzionale, le materie sono indefinibili nei loro
confini e sempre più sovrapposte tra di loro. Ciò anche perché noi
dobbiamo risolvere per intero i problemi collettivi.
L'impossibilità di tracciare nette linee
di confine significa che ciò che spetta allo Stato e ciò che spetta alla
regione va definito di volta in volta sulla base dell'accordo. Ecco,
quindi, la necessità del Senato federale, il luogo dove lo Stato e la
regione si mettono d'accordo su quello che può fare l'uno e quello che
può fare altro. Tutto ciò è coerente con la funzione del principio di
sussidiarietà, che non è equivalente al decentramento, ma funziona come
un ascensore: talora porta le cose verso l'alto, talora verso il basso,
a seconda di come un problema può essere trattato avendo a riferimento
determinate condizioni storico-politiche.
Ciò, significa che il Senato deve essere
un luogo di composizione, di mediazione tra interessi statali e
regionali. In ogni caso, questo Senato è in grado di fare tutto questo?
Io ho dei dubbi, perché non vi è la presenza dei presidenti delle
regioni, coloro che hanno la titolarità del potere di proporre
l'impugnativa attraverso le leggi dello Stato.
Tra l'altro, questo Senato, in realtà, ha una composizione politica
diversa da quella della Camera dei deputati, perché viene eletto in
tempi diversi - contestualmente all'elezione dei consigli regionali - e
perché potrebbe anche essere eletto sulla base di un sistema elettorale
anch'esso differente da quello attraverso cui si elegge la Camera.
In presenza di maggioranze politiche
diverse nei due rami del Parlamento, vi è un grave rischio di stallo
decisionale; ciò anche perché le competenze attribuite al Senato da
questa proposta sono larghissime: non soltanto è molto ampio l'elenco
delle leggi bicamerali, ma tutte le leggi che riguardano la competenza
concorrente sono approvate in via esclusiva dal Senato. Da ciò consegue
il rischio che un Senato con maggioranze diverse da quelle presenti alla
Camera dei deputati introduca grandi elementi di stallo, di
ostruzionismo e di incapacità decisionale; quindi, potremmo non
raggiungere l'obiettivo della funzionalità decisionale e
dell'efficienza.
Detto questo, certamente mi pare
utopistica, fuori dalla realtà, l'idea di passare ad un Senato di tipo
tedesco, nell'ambito del quale vi sono i rappresentanti dei governi
locali. Ciò, infatti non tiene conto della nostra realtà, che prevede un
Senato funzionante con un pezzo di classe politica ben presente e che ha
anche un suo importante patrimonio di esperienza, di preparazione, di
storia.
Quindi, da una parte bisogna tener
presente la possibilità di un'integrazione con i presidenti delle
regioni e dall'altra incidere sul versante delle competenze,
probabilmente riducendo il numero delle leggi bicamerali - veramente
enorme - e prevedendo altri due elementi ai quali attribuisco un'enorme
importanza.
In primo luogo, se si vuole mantenere
questo assetto - in cui il rapporto di fiducia è solo con la Camera dei
deputati - bisognerebbe prevedere per le leggi necessarie per
l'attuazione del programma di Governo una preminenza della decisione
della Camera dei deputati. Ciò vuol dire che, se vi è un blocco o un
orientamento contrario a quelle leggi, decide - magari a maggioranza
qualificata - la Camera dei deputati.
Per quanto riguarda la seconda questione -
anch'essa di particolare importanza -, poc'anzi avevamo detto che il
problema più serio dei complicati assetti federali è che le materie non
si possono dividere «con l'accetta»; non basta scriverle in Costituzione
spostandole da un lato o dall'altro per far sì che il sistema funzioni.
Se questo è vero, è pur vero che i sistemi
federali contengono delle clausole di flessibilità, come la legge
fondamentale tedesca. Tali clausole di flessibilità consentono al
Parlamento di intervenire anche in materia di competenze regionali,
allorché sono in gioco i valori che riguardano l'unità giuridica ed
economica dello Stato.
Infine, vedo con preoccupazione il
coinvolgimento del Presidente della Repubblica nella risoluzione delle
questioni di interesse nazionale. Ciò perché la decisione su quello che
deve considerarsi interesse nazionale è massimamente politica; infatti,
non si può stabilire a priori cosa è l'interesse nazionale.
Il testo di riforma, a mio parere
opportunamente, sceglie un presidente organo di garanzia, non un
presidente governante. Se vogliamo essere coerenti con questa posizione
del Capo dello Stato, dobbiamo escluderlo dalle decisioni massimamente
politiche come, ad esempio, quella che stabilisce cosa è l'interesse
nazionale.
PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi.
MARCO BOATO. Signor presidente, sia noi
che lei siamo po' affaticati, quindi rivolgerò al professor Pitruzzella
domande abbastanza rapide.
Molte delle considerazioni relative alla
seconda parte della sua relazione - da me condivise - sono coerenti e
razionali rispetto alle ipotesi generali che lei ha prospettato
all'inizio riguardo gli obiettivi. Da questo punto di vista le chiedo
qual è il suo giudizio (critico o di riserva) rispetto al secondo e al
terzo obiettivo che lei aveva indicato nella prima parte della sua
relazione. Il primo obiettivo era quello del consolidamento relativo al
passaggio alla democrazia maggioritaria, alla legittimazione del governo
da parte degli elettori, alla separazione netta tra maggioranza e
opposizione e al principio dell'alternanza; fra l'altro, obiettivi che
personalmente condivido.
Invece, il secondo e il terzo obiettivo
erano il rafforzamento del collegamento con i territori - anche per
ridurre il conflitto tra Stato e regioni - e la funzionalità del
sistema: governabilità, efficienza e rapidità istituzionale.
Da quello che emerge, a me pare - anche
avendo a riferimento la sua relazione - che, paradossalmente, ci
possiamo trovare di fronte non a un governo plebiscitario, ma ad un
governo depotenziato da una correlazione con un Senato che non può
essere sciolto, che non ha un rapporto di fiducia con il Governo, che
viene eletto attraverso un diverso sistema elettorale - che può
originare una maggioranza diversa da quella della Camera dei deputati -
e che ha dei poteri enormi.
In base a tutto ciò, a me pare che il
primo obiettivo forse può essere raggiunto, ma il secondo e il terzo
risultano pesantemente compromessi dal testo così com'è stato pensato.
Inoltre, professore, nella prima parte del suo intervento (dopo aver
delineato gli obiettivi) - anche se in modo garbatissimo e diplomatico -
ha polemizzato con quelle forze politiche che, avendo sostenuto in
passato il modello Westminster, adesso invece ne sono preoccupate.
Io sono fra coloro che hanno sostenuto questa ipotesi e non sono
pentiti, quindi tutto ciò che possiamo fare in sede di riforma
costituzionale per rendere coerente e conseguente quel modello,
personalmente, io lo condivido.
In ogni caso, mi chiedo se, avendo a
riferimento il quadro complessivo del disegno di legge approvato al
Senato, venga fuori un modello di questo genere. Infatti, da una parte
abbiamo questo strapotere del Senato, dall'altra l'articolo 28 del
disegno di legge costituzionale - riguardante l'articolo 94 della
Costituzione - afferma che il Primo ministro può chiedere che la Camera
dei deputati si esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto
conforme alle proposte del Governo. In caso di voto contrario, il Primo
ministro rassegna le dimissioni e può chiedere lo scioglimento della
Camera dei deputati.
A me pare che questo sia uno di quegli
elementi che - pur avendo a riferimento il modello Westminster, un
rafforzamento del Primo ministro, il superamento del Presidente del
Consiglio visto come primus inter pares -, in realtà porta invece
ad un governo sottoposto ad un Senato potenzialmente ingovernabile.
Quindi, al riguardo le chiedo se lei ritiene opportuno reinserire
un'ipotesi - sia pure di scuola - di scioglimento del Senato. Infatti,
da una parte abbiamo la Camera totalmente subalterna e dall'altro un
Senato totalmente ingovernabile, due elementi che squilibrano totalmente
il sistema.
KARL ZELLER. Signor presidente, il
professor Pitruzzella ha giustamente evidenziato che le competenze tra
Stato e regioni non possono essere separate nettamente. In passato vi
era l'interesse nazionale - in seguito cancellato dall'ultima riforma
costituzionale (in Germania vi è l'unità economica o giuridica per
dirimere questo conflitto) - mentre oggi in Costituzione è presente il
concetto della sussidiarietà. La Corte costituzionale nelle recenti
pronunce ha fortemente criticato l'interesse nazionale che vigeva in
precedenza, quindi per dirimere questo tipo di conflitti basta il
concetto di sussidiarietà.
Lei ritiene che sia necessario introdurre
altri principi, tipo l'interesse nazionale o il concetto di unità
economica e giuridica, se oggi la Corte costituzionale non ne ha sentito
la mancanza? La seconda domanda riguarda la procedura di revisione degli
statuti speciali che, a mio avviso, nel nuovo testo approvato dal
Senato, appare abbastanza debole. Cosa proporrebbe per rafforzare il
carattere pattizio del rapporto tra lo Stato e le regioni a statuto
speciale?
PRESIDENTE. Do la parola al professor
Pitruzzella per la replica.
GIOVANNI PITRUZZELLA, Professore
ordinario di diritto costituzionale della facoltà di giurisprudenza
presso l'Università di Palermo. Premettendo che sono in sintonia con
quanto rilevato dall'onorevole Boato, ritengo che, tra gli obiettivi
della riforma, sia abbastanza centrato quello volto a consolidare il
passaggio verso un parlamentarismo maggioritario.
Tuttavia, se il Governo ha di fronte un Parlamento di cui una delle due
Camere è svincolata dal rapporto di fiducia, ha una maggioranza politica
diversa e non è sottoposta neppure a strumenti di pressione come la
questione di fiducia, corriamo il rischio di avere un assetto
dualistico, nel quale, in realtà, il Governo ha difficoltà nella
realizzazione legislativa del suo programma. Il rischio, quindi, come
sta già avvenendo a livello regionale, sarà che, per governare, si
ricorrerà a circuiti decisionali che, il più delle volte, il cui esito
finale non sarà certamente una legge ma regolamenti o, addirittura, atti
non normativi.
Sempre con riferimento agli obiettivi, mi
permetto di osservare che bisogna evitare il pericolo di ritenere che la
riforma possa essere scritta solamente dalla Camera dei deputati o dal
Senato della Repubblica o che, comunque, essa non tenga conto della
concretezza degli attori in campo.
Per tali ragioni, riterrei che vadano
apportate significative modifiche al testo approvato, almeno per quanto
riguarda la parte relativa ai poteri del Senato federale, cercando nel
contempo di valorizzarne il ruolo.
Le alternative sono due: o si ritorna ad
una Camera politica - eletta insieme alla Camera dei deputati, legata da
un rapporto di fiducia, scioglibile e sottoposta alla possibilità di una
questione di fiducia - e si crea una differenziazione funzionale tra i
due rami del Parlamento, che serve a rendere più spediti i lavori (cosa
che, secondo me, sarebbe stata auspicabile, anche se credo che ormai il
processo politico abbia preso un'altra direzione e non si tornerà più
indietro dalla contestualità delle elezioni o dall'idea del Senato come
rappresentante dei territori); oppure, bisognerà cercare di rafforzare
il legame con i territori - alludo alla presenza nel Senato dei
presidenti delle regioni -, fare in modo che, in certi casi, come diceva
l'onorevole Boato, si possa procedere allo scioglimento anticipato
dell'organo ed introdurre meccanismi per i quali, in alcune ipotesi,
prevale comunque la decisione della Camera politica.
Tutto ciò va portato a termine con
realismo, giocando in modo da condurre in porto la riforma con l'accordo
del Senato, altrimenti il risultato sarebbe quello di paralizzare il
processo decisionale.
Riguardo alla polemica con le proposte
sollecitate da alcune forze del centrosinistra sul governo del
premier, ci tengo a sottolineare che, in Italia, il consenso su tale
ipotesi di governo era vasto. Inoltre, non si tratta di una sorta di
trapianto di meccanismi organizzativi derivanti da altre esperienze, ma
dell'evoluzione naturale di un processo storico politico avviato dal
tempo, per giunta con l'assenso di quasi tutti.
Credo, allora, che dovremmo lavorare per
recuperare queste ragioni iniziali di unità, tenendo conto che molte
delle critiche appaiono strumentali rispetto ad un modello che non
reputo sia particolarmente rischioso, chiunque sia l'inquilino di
Palazzo Chigi.
Semmai, avendo a cuore il problema del
controllo sul potere, si dovrebbe lavorare di più sullo statuto
dell'opposizione. Mi permetto di richiamare la vostra attenzione sul
fatto che il testo approvato parla ambiguamente di opposizioni.
Attraversando la Manica, ci accorgiamo che lì l'opposizione è una sola,
come unica è la maggioranza. Bisogna quindi assicurare al capo
dell'opposizione, che è giustamente contemplato nel testo, uno spazio
uguale a quello del premier in Parlamento e soprattutto
un'adeguata possibilità di incidenza sulla programmazione dei lavori
parlamentari.
Inoltre, questo discorso vale anche per le
Commissioni di inchiesta, le quali, già alla fine degli anni '60,
venivano definite, da un autorevole costituzionalista, il professor
Alessandro Pace, strumento della maggioranza. È indispensabile, in tale
ottica, che esse siano uno strumento di controllo forte che possa essere
richiesto dall'opposizione.
Per quanto attiene all'articolo 28,
riterrei opportuno che fosse attenuato e reso più flessibile il
meccanismo previsto che ritengo sia un'arma nucleare del premier
nei confronti della Camera, mantenendo l'ipotesi di voto bloccato, che
però non sia necessariamente collegato necessariamente alle dimissioni e
allo scioglimento.
Le domande poste dall'onorevole Zeller
sono molto stimolanti. Egli ha acutamente fatto riferimento al principio
di sussidiarietà e al fatto che la Corte, proprio in relazione alla
celebre sentenza sulla cosiddetta legge-obiettivo, ha utilizzato tale
principio, tratto dall'articolo 118 della Costituzione, per arrivare
all'idea, già sostenuta da tempo, secondo la quale le competenze non si
separano con l'accetta. La sussidiarietà, infatti, comporta che una
competenza ora sale verso l'alto, ora scende verso il basso. Ci si
potrebbe chiedere se sia indispensabile una sua consacrazione nel testo
costituzionale, essendosi già pronunciata la Corte. Probabilmente, ciò
sarebbe opportuno al fine di stabilire quale sia la Camera che decide se
far salire o meno la competenza. A mio parere, dovrebbe essere la Camera
dei deputati, in quanto Camera politica, a dire se avocare verso l'altro
una determinata competenza.
Riguardo agli statuti speciali, condivido la suggestione sollevata
dall'onorevole Zeller in relazione al rafforzamento del carattere
pattizio dei rapporti tra lo Stato e le regioni, che ritengo sia uno dei
tratti fisionomici della specialità.
PIETRO CIARLO, Professore ordinario di
diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell’Università di Cagliari. Signor presidente, cercherò di limitare
la mia esposizione all’essenziale, enunciando soltanto i punti
fondamentali delle mie argomentazioni.
Ritengo che questo disegno di legge costituzionale nasca da tre esigenze
istituzionali abbastanza condivise: la razionalizzazione della forma di
Governo, il coordinamento ex ante della produzione legislativa,
regionale e statale, non affidato soltanto ex post al giudice
costituzionale, e la razionalizzazione delle ripartizioni delle
competenze legislative, così come delineate dall’articolo 117.
Si tratta di tre esigenze istituzionali.
La prima esigenza, che definisco politica, è stata quella di
incrementare il potere legislativo regionale. Ciò ha suscitato nel
nostro ambiente forti perplessità: questa esigenza non veniva avvertita
come una priorità. Vi sono poi delle esigenze considerate consequenziali
a questi interventi. In primo luogo, ridefinire il ruolo del Presidente
della Repubblica e della Corte costituzionale. Vi è poi un intervento «ultroneo»
di questo disegno di legge, da nessuno ipotizzato, riguardante la
modifica dell’articolo 138 della Costituzione e, quindi, la procedura di
revisione costituzionale.
Considero molto preoccupante il nuovo disegno dell’articolo 138 della
Costituzione, e forse questo è il punto più delicato di tutto il disegno
di legge perché, in pratica, si rende immodificabile la Costituzione
modificata. Su questo punto interverrà anche il collega Giorgis, di cui
condivido in larga parte le opinioni. Ometto, quindi, di trattarne oltre
anche se annetto ad esso grande importanza.
A parte le reazioni emotive immediate
suscitate da questo disegno di legge – preconcette da parte di alcuni -,
man mano che si approfondisce la lettura del testo del Senato aumentano
le preoccupazioni, anche se le esigenze istituzionali (le tre che ho
prima ricordato) sono largamente condivise.
Sale, nel nostro ambiente, un dissenso
sempre più forte, che avverto anche dal modesto osservatorio del
comitato di presidenza (del quale in questo periodo faccio parte)
dell’associazione italiana dei costituzionalisti. Un valore emblematico
in questo senso assume, a mio avviso, la pubblicazione che è stata
largamente diffusa a livello nazionale (perché è stata venduta nelle
edicole insieme al giornale Il Foglio) e curata dalla fondazione
Magna Carta, il cui presidente onorario è il Presidente del Senato.
L’opera si intitola «La Costituzione
promessa», a cura di Calderisi, Cintioli e Pitruzzella. Questa
pubblicazione, per espressa scelta degli autori, si pone in una
prospettiva construens, cioè in una prospettiva che cerca di
migliorare il testo del Senato. Tuttavia, ad una lettura del contenuto,
del merito di questa pubblicazione, emerge che, ciascuno per la sua
parte, tutti gli autori hanno criticato con estrema durezza il testo del
Senato cosicché, da fonte non sospetta come è questa pubblicazione
(peraltro curata da colleghi autorevoli con i quali ho una consuetudine
di lavoro da lungo tempo), promana una critica molto serrata del disegno
di legge del Senato.
Ognuno degli autori che è intervenuto sui
diversi aspetti di tale disegno di legge lo ha criticato duramente e,
alla fine, sommando tutte le critiche dei diversi autori, portate sui
diversi aspetti del disegno di legge, il risultato è che di esso non
resta quasi più nulla in piedi (condivido in pieno il contenuto
dell’opera).
In estrema sintesi, ci sono alcuni aspetti
che lasciano veramente perplessi. Innanzitutto, il fatto che, in caso di
mozione di sfiducia, da ciò discenda automaticamente lo scioglimento
(sono notizie che avrete già sentito anche dal professor Pitruzzella nel
corso della precedente audizione), poi l’accoppiamento questione di
fiducia-voto bloccato, che emargina completamente la Camera e il Senato
dal dibattito legislativo. Tuttavia, ciò che lascia veramente sorpresi è
la previsione (il professor Pitruzzella accenna soltanto a questo
aspetto ma io insisto molto su questo punto) degli articoli 88 e 92
dove, per l’incarico al nuovo Primo ministro, la mozione stessa sembra
non debba essere discussa e votata in Parlamento, bensì semplicemente
sottoscritta.
Tra l’altro, anche negli studi curati
dall’ufficio studi della Camera, la parola «mozione votata», non viene
mai utilizzata. Ci sono anche altri elementi testuali – che ometto per
ragioni di sintesi – che lasciano presupporre una volontà che la mozione
sia soltanto sottoscritta. Ciò porta ad un effetto dissuasivo enorme
perché, in realtà, si può, per così dire, «girare casa per casa» a far
sottoscrivere ai singoli deputati la mozione: tanto basta, quindi,
facendo venire meno completamente qualunque tipo di dialettica pubblica
e assembleare, con una gravissima penalizzazione delle Assemblee
medesime, della funzione rappresentativa, ed esponendo ciascun deputato,
singolarmente inteso, a resistere alla pressione di chi è interessato
alla sottoscrizione della mozione, la quale, peraltro, deve essere
sottoscritta da appartenenti alla maggioranza che siano in numero non
inferiore alla maggioranza assoluta dell’Assemblea. Si tratta di
appartenenti a quella maggioranza che si individua nel momento
dell’apparentamento tra candidato Presidente e candidati al seggio
parlamentare.
Dunque, la maggioranza che poi dovrà sottoscrivere questa mozione che
non verrà mai votata si forma in un momento pre-parlamentare. Allora,
tutta la delicatissima procedura che riguarda lo scioglimento anticipato
delle Camere, la sostituzione del Primo ministro, viene affidata a
procedimenti extraparlamentari, che riguardano l’apparentamento
preelettorale del candidato Presidente e dei candidati deputati e, poi,
la sottoscrizione della mozione fuori dalle aule parlamentari.
Vi cito soltanto quanto afferma in questo
libro di Magna Carta il professor De Vergottini a proposto dello statuto
dell’opposizione, quando sostiene che lo statuto delle opposizioni si
nutre di contraddizioni evidenti – sono parole testuali – e di
arretratezza rispetto ad altre proposte già presentate, generando una
pericolosa confusione. Non insisto su questo punto e vi riporto soltanto
il giudizio.
Vi è poi una sostanziale marginalizzazione
del Parlamento dove, in realtà, il Presidente del Consiglio, data questa
extraparlamentarizzazione di molte attività, non sia neanche obbligato a
venire a riferire o comunicare alcunché se, per esempio, una mozione
viene sottoscritta fuori dalle aule parlamentari, non viene discussa,
votata, mancando anche il momento (che oggi state vivendo) di riferire
alle Camere.
La disposizione dell’articolo 58 è stata –
giustamente – definita ridicola perché, per l’elezione al Senato, si fa
un elenco di condizioni ma poi la disposizione si chiude dicendo che
chiunque sia residente nella regione può essere eletto.
L’articolo 60, sempre per quanto riguarda
il rapporto tra Senato e regioni, prevede che, in caso di scioglimento
di un consiglio regionale, la legge stabilisca un termine abbreviato per
il consiglio regionale successivo, per mantenere la _on testualità delle
elezioni, con il risultato che, nelle regioni, si realizzerebbero due
microlegislature: quella che è finita per lo scioglimento del consiglio
e quella successiva, abbreviata per legge per mantenere la _on
testualità.
Non voglio continuare ad insistere, ma l’elenco è lungo. Le critiche
mosse al Senato federale sono note, a partire da quella del presidente
della regione Lombardia, il quale ha sostenuto che di federale vi è
soltanto il nome. Pertanto, il Senato, in base a questo disegno di
legge, non si rappresenta come idonea sede di concertazione preventiva
della legislazione tra Stato e regione: e questo, è per la verità, un
giudizio veramente unanime.
Infine, la costruzione della funzione legislativa su una base materiale
competenziale tra Camera e Senato è da tutti considerata foriera di
infiniti conflitti e di un blocco istituzionale.
I costituzionalisti sono molto preoccupati – a parte l’importantissimo
articolo 138 – da questo disegno di legge perché creerà un grande danno
alle istituzioni della Repubblica e, soprattutto, delegittimerà le tre
esigenze istituzionali vere che pure vuole affrontare.
ANDREA GIORGIS, Professore
straordinario di garanzie dei diritti fondamentali presso la facoltà di
giurisprudenza dell'università di Torino. Ringrazio lei, presidente,
e 1'intera Commissione per 1'invito e per l'opportunità che mi viene in
tal modo offerta di svolgere, in una sede così autorevole e prestigiosa,
alcune considerazioni in ordine al sempre controverso tema dei
meccanismi di tutela della rigidità della Costituzione.
Il mio intervento sarà esclusivamente concentrato sull'analisi
dell'articolo 41 del disegno di legge ora all'esame di questa Camera.
Tra gli studiosi è opinione largamente
diffusa che l'introduzione, nel nostro ordinamento, di un sistema
elettorale maggioritario debba essere accompagnata da una
riconsiderazione del complesso sistema delle garanzie costituzionali:
ciò, essenzialmente, al fine di garantire il perdurare della supremazia
della Costituzione nella (e sulla) dinamica politica.
Gli istituti di garanzia che sono fondati,
in primo luogo, sulla previsione di maggioranze qualificate (non
particolarmente elevate) rischiano infatti di perdere gran parte della
propria efficacia sostanziale in presenza di sistemi elettorali che,
attraverso una distorsione dei meccanismi della rappresentanza, tendono
a costituire artificialmente in seno al Parlamento delle maggioranze di
governo sempre più consistenti (che possono, in ipotesi, aver ottenuto
il consenso anche solo di una minoranza del corpo elettorale) e,
soprattutto, delle maggioranze di governo tendenzialmente sempre più
indisponibili a praticare quell'insieme di convenzioni costituzionali
che si affermarono sotto la vigenza del precedente sistema elettorale
proporzionale e che, in ultima analisi, miravano a limitare e a
circoscrivere l'ambito di operatività del principio di maggioranza.
Si pensi, ad esempio, alla facilità con la
quale lo schieramento politico che prevale nella consultazione
elettorale può procedere, nel formale rispetto delle disposizioni
costituzionali, all'elezione di organi quali il Presidente della Camera,
il Presidente del Senato e, soprattutto, il Presidente della Repubblica.
Oppure si pensi alla facilità con la quale può essere attratto nella
logica maggioritaria l'esercizio del potere di verificare i titoli di
ammissione di deputati e senatori.
Analoga considerazione vale per le
garanzie di tipo legislativo, e, in particolare, per quanto concerne le
maggioranze che sono attualmente richieste per 1'approvazione dei
regolamenti delle Camere e per 1'approvazione delle leggi costituzionali
e di revisione costituzionale: anche in questo caso - come è noto - la
maggioranza politica che vince la competizione elettorale si viene
(automaticamente) a trovare nella condizione di poter contare su di un
numero di parlamentari sufficiente per approvare, sempre nel formale
rispetto delle disposizioni costituzionali, sia una modifica dei
regolamenti parlamentari, sia, ed è sicuramente ciò che solleva le
maggiori preoccupazioni, una modifica della Costituzione.
Ora - in questo mio breve intervento - vorrei soffermare 1'attenzione
proprio su quest'ultimo aspetto, che a me pare essere uno dei problemi
più urgenti e nel contempo più difficili da affrontare e da risolvere:
quello, appunto, della necessità di introdurre nuove forme di garanzia
al principio di rigidità della Costituzione.
Il disegno di legge costituzionale (d'iniziativa del Governo) approvato
dal Senato, in sede di prima deliberazione, il 25 marzo 2004,
all'articolo 41, prevede l'introduzione di due significative modifiche
alla vigente disciplina. In primo luogo, introduce, all'interno della
(eventuale) fase referendaria, per il caso in cui nella seconda
deliberazione la legge costituzionale sia stata approvata con una
maggioranza inferiore ai due terzi, un quorum di partecipazione,
analogo, ma con effetti opposti, a quello previsto, dall'articolo 75
della Costituzione, per il referendum abrogativo. La legge di revisione
costituzionale, che sia stata approvata nella seconda votazione da
ciascuna Camera con una maggioranza inferiore ai due terzi dei
componenti e sia stata sottoposta a referendum, non potrà più, quindi,
essere promulgata se alla consultazione non avrà partecipato almeno la
maggioranza degli aventi diritto al voto. Per rendere possibile
l'entrata in vigore di una legge di revisione costituzionale non sarà,
cioè, più sufficiente 1'approvazione da parte della maggioranza dei voti
validi, ma occorrerà altresì che la maggioranza dei cittadini si rechi
alle urne.
In questo modo, com'è evidente, si tende a rafforzare la capacità
interdittiva del pronunciamento popolare (e, in particolare, della
richiesta di referendum) nei confronti di quelle leggi costituzionali
che non siano state condivise da una maggioranza consistente dei membri
delle Camere, pari almeno ai due terzi.
Nella misura in cui il quorum di
partecipazione risulti difficile da raggiungere - anche e soprattutto
perché magari si consolida un atteggiamento di non partecipazione al
voto da parte di coloro che condividono il contenuto delle scelte
parlamentari e dunque gli effetti che si determinerebbero a seguito del
mancato raggiungimento del quorum stesso - tale modifica
parrebbe, infatti, da un lato accrescere 1'interesse della maggioranza a
ricercare accordi con le minoranze e dall'altro, e di conseguenza,
rafforzare quel carattere «oppositivo» dell'appello ai cittadini alla
volontà parlamentare, che la maggior parte della dottrina tendeva a
considerare come, non solo normale, ma costitutivo del referendum
medesimo.
L'introduzione di un quorum di validità del referendum - allorché
vi sia un consistente numero di elettori che non è comunque interessato
o disposto a recarsi alle urne - è, insomma, ragionevole ipotizzare che
si dimostri una soluzione abbastanza efficace, se non per eliminare,
quantomeno per contenere la tentazione (propria di ogni maggioranza) - e
oggi sempre più forte dopo 1'introduzione di un sistema elettorale
(prevalentemente) maggioritario - di cambiare, in maniera unilaterale,
la Carta costituzionale. È, cioè, ragionevole ipotizzare che una simile
modificazione costituisca un limite, anche se non insuperabile, al
potere delle maggioranze di governo di approvare leggi di revisione
costituzionale senza aver raggiunto un accordo con le opposizioni, e,
poi, eventualmente, chiedere, esse stesse, proprio per sopperire alla
mancanza di accordo, una conferma della bontà delle scelte effettuate
(com'è avvenuto in occasione dell'approvazione della legge
costituzionale n. 3 del 2001).
Lo stesso risultato - occorre però
sottolineare - lo si sarebbe potuto conseguire ugualmente, e meglio,
attraverso un'altra soluzione: innalzando il quorum deliberativo
in seconda lettura, alla stregua di quanto prevedono molte Costituzioni
democratiche europee. La Costituzione belga, ad esempio, all'articolo
195, prevede che la revisione sia approvata a maggioranza dei due terzi
dei votanti e che siano presenti i due terzi dei componenti; in maniera
analoga, la Costituzione austriaca, all'articolo 44, prescrive che le
leggi costituzionali siano approvate da almeno i due terzi dei votanti;
la Costituzione tedesca, all'articolo 79, prevede che la Legge
fondamentale possa essere modificata solo da una legge costituzionale
che abbia ottenuto l'assenso dei due terzi dei membri del Bundestag
e dei due terzi dei votanti del Bundesrat; la Costituzione
spagnola, agli articoli 167 e 168, prescrive il raggiungimento di
maggioranze di due terzi dei componenti per le revisioni totali e per le
revisioni della prima parte, e di tre quinti di ciascuna delle Camere -
o eventualmente dei due terzi del Congresso - per le revisioni parziali
della seconda parte.
Altre Costituzioni poi prevedono anche uno scioglimento intermedio delle
Camere, o tra la fase dell'iniziativa e quella della deliberazione o tra
la prima e la seconda lettura, separando così - forse non senza una
qualche saggezza - la decisione sulla necessità di procedere alla
revisione dalla decisione sul contenuto delle nuove norme: è questo il
caso, ad esempio, della Costituzione greca.
Lasciando da parte il modello greco, che
peraltro è adottato con formulazioni diverse anche in Belgio e nei Paesi
Bassi, i pregi di questa diversa soluzione, ovvero di un mero
innalzamento del quorum deliberativo, sono essenzialmente due: da
un lato, quello di non contribuire ad alimentare ulteriormente un
atteggiamento di astensione da parte del corpo elettorale - come invece
rischia di fare la semplice introduzione di un quorum di validità
- e dall'altro quello di scongiurare il rischio che alla logica (propria
della democrazia rappresentativa) della mediazione e della sintesi, del
et-et, si sostituisca la logica (propria della democrazia
referendaria) del vincitore e dello sconfitto, del aut-aut. Una
logica, quest'ultima che non è capace di soddisfare le esigenze del
pluralismo e di rendere possibile 1'assunzione di scelte «a somma
positiva» nelle quali tutti possono guadagnare qualcosa; una logica o,
meglio, un sistema di decisione che appare di conseguenza il meno adatto
per procedere alla definizione di regole che siano percepite come il
risultato di un ampio confronto e del reciproco riconoscimento delle
ragioni altrui, quali dovrebbero essere, com'è noto, le regole
costituzionali.
Da questo punto di vista, la seconda
modificazione che l'articolo 41 del disegno di legge approvato dal
Senato prevede di apportare al vigente procedimento di formazione delle
leggi costituzionali - vale a dire 1'abrogazione dell'ultimo comma
dell'articolo 138 della Costituzione - appare criticabile.
Se tale modificazione diverrà efficace,
qualora una legge costituzionale sia stata approvata dai due terzi dei
componenti, sarà possibile attivare una consultazione popolare non
gravata da alcun onere di partecipazione. Il raggiungimento di un ampio
accordo tra i rappresentanti non sarà, cioè, più in grado di precludere
lo svolgimento di una consultazione dei cittadini e, quindi, di
assicurare 1'immediata entrata in vigore della relativa legge di
revisione costituzionale, ma sarà in grado soltanto di escludere che
l'eventuale astensione popolare assuma un qualche automatico significato
giuridico.
A prima lettura, 1'introduzione della
possibilità di referendum potrebbe forse apparire come un tentativo per
ulteriormente aggravare il procedimento di revisione, e così
ulteriormente garantire la rigidità della Costituzione. In realtà,
l'effetto che una tale modificazione dell'articolo 138 Costituzione
potrebbe determinare è l'esatto contrario.
Essendo sempre possibile chiamare i cittadini al voto, diventa sempre
possibile - come si è appena ricordato - che alla logica della
mediazione e della sintesi, si sostituisca, appunto, la logica del
vincitore e dello sconfitto.
Se si volesse attribuire ai cittadini la
possibilità di opporsi anche alle scelte del Parlamento assunte ad
amplissima maggioranza, senza però nel contempo correre il rischio di
vanificare 1'importanza e il valore del risultato di un simile processo
di integrazione politica, sarebbe allora forse opportuno prevedere, in
tale ipotesi, più che un quorum di carattere procedurale, un
quorum di carattere, per così dire, sostanziale e di segno opposto a
quello ipotizzato dall'articolo 41 del disegno di legge in esame, tale
per cui la deliberazione parlamentare che sia stata votata da più dei
due terzi dei componenti le Camere possa essere «abrogata» dal corpo
elettorale solo se si pronuncia contro di essa, in maniera esplicita,
una maggioranza qualificata dei cittadini aventi diritti al voto.
In ogni caso, al di là di questi ultimi rilievi, e della possibilità di
immaginare soluzioni più convincenti, se fossi chiamato a esprimere un
giudizio sull'articolo 41 del disegno di legge ora all'esame di codesta
Camera, considerato in sé e per sé, tenderei ad esprimere un giudizio
tutto sommato positivo.
Ma - e qui sta l'aspetto più problematico
- è davvero possibile esprimere un simile giudizio senza considerare le
altre disposizioni che sono contenute nel medesimo progetto di riforma?
È insomma possibile esprimere un giudizio su di una modifica che, in
ultima analisi, aggrava il procedimento di revisione, prescindendo da un
giudizio sul contenuto delle norme costituzionali che tale modifica
finirebbe in concreto per garantire?
In presenza di un sistema elettorale che tende a costituire
artificialmente in seno al Parlamento delle maggioranze di governo
sempre più consistenti, l'esigenza di aggravare il procedimento di
revisione, e, in particolare, l'esigenza di fare in modo che le regole
costituzionali vengano definite attraverso la logica della mediazione e
della sintesi è, a mio parere, un'esigenza reale. Ma è, senza dubbio,
un'esigenza altrettanto reale far sì che un irrigidimento procedurale
delle regole costituzionali avvenga in relazione a regole
costituzionali, che siano non solo capaci, dal punto di vista del loro
contenuto, di garantire nel contempo decisione e rappresentanza, e
quindi effettivo esercizio dei diritti di libertà, di uguaglianza e di
partecipazione, ma soprattutto siano ampiamente condivise.
Ed ecco allora che ci si trova ancora una volta di fronte a un
paradosso, per certi aspetti simile a quello evidenziato dal grande
teorico del pluralismo Ernst Fraenkel, ai tempi della Repubblica di
Weimar: quasi tutte le forze politiche concordano sulla astratta
necessità di rendere le norme costituzionali più difficili da modificare
da parte delle maggioranze di governo, ma ciascuna maggioranza di
governo è disponibile a introdurre tale aggravamento della procedura di
revisione solo dopo aver proceduto a modificare unilateralmente la
Costituzione medesima. Insomma, vi è accordo sulla necessità di
riaffermare il carattere rigido della Costituzione, ma vi è disaccordo
sui contenuti sostanziali che il carattere della rigidità dovrebbe
appunto garantire.
Individuare una soluzione
tecnico-giuridica che riesca a risolvere il dilemma e a creare le
condizioni di un doppio accordo - sulla «forma» e sulla «sostanza» - è
assai difficile.
Del resto, il diritto costituzionale - inteso come limite al potere, in
tutte le sue diverse manifestazioni, politiche, economiche e culturali,
e dunque come garanzia del fondamentale diritto di condurre un'esistenza
libera e dignitosa - vive e si consolida solo se le diverse forze
politiche e sociali si riconoscono nei suoi principi di fondo e
praticano un atteggiamento di costante ricerca di unità.
Tuttavia, se la maggioranza che al Senato
ha votato a favore del disegno di legge costituzionale qui in esame
deciderà anche alla Camera e nelle successive deliberazioni di non
prestare ascolto né alle proposte delle opposizioni, in maniera tale da
soddisfare quella fondamentale esigenza di confronto e di ricerca di
unità sulla quale ho più volte insistito, né alle critiche che molti
studiosi indipendenti hanno avanzato, sarebbe allora forse auspicabile
che l'articolo 41 venisse stralciato o, quantomeno, che i cittadini
venissero posti nella condizione di esprimere il proprio giudizio sulla
proposta di riforma in maniera libera e dunque articolata, senza essere
cioè costretti a pronunciarsi con un solo voto su di una pluralità di
disposizioni tra loro palesemente eterogenee, come, d'altra parte,
numerosi autori ritengono che l'articolo 138 della Costituzione comunque
sempre imponga.
UMBERTO ALLEGRETTI, Professore
ordinario di diritto pubblico presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Firenze.
Sul disegno di legge C. 4862, già
approvato dal Senato, le mie considerazioni sono ispirate soprattutto da
un criterio di coerenza applicato all'esame del testo; l'intenzione è di
accertare se il modello adottato - a prescindere, poi, dalle valutazioni
del Parlamento circa la scelta tra i modelli di fondo - si presti a
rilievi circa la coerenza interna e la coerenza - ma in tal caso,
naturalmente, si entra un po' anche negli aspetti legati al confronto
dei modelli - con il sistema complessivo.
Nelle note che mi è stato gentilmente
chiesto di lasciarvi, mi soffermo alquanto sul tema della forma di
Governo e più brevemente su alcuni altri punti. Per economia dei tempi,
però, nell'esposizione orale, vorrei soprattutto svolgere osservazioni
riguardanti essenzialmente il modello di Senato adottato ed il suo
funzionamento.
Nel testo del provvedimento, il Senato
viene denominato federale; a tale proposito, mi sembra sorgano alcuni
aspetti critici circa la pertinenza della qualifica ed il modo nel quale
i congegni rendano o meno federale tale organo.
I modelli di Senato federale noti,
essenzialmente, esemplificando - infatti a livello di diritto comparato
si registrano molte varianti - sono due. Quello più antico, che mette
capo al sistema americano e a quello svizzero, vede la presenza in
Senato di rappresentanze che, pur elettive - dopo le riforme che tutti e
due questi assetti hanno sperimentato -, sono rese partecipi del
carattere federale attraverso la parità dei membri espressi (per quanto
riguarda gli Stati uniti, ogni Stato esprime due membri). L'altro
modello, più recente e più diffuso, si rinviene in Germania ed in
Austria, paesi che ne offrono due varianti ma con una similarità di
fondo legata al fatto che, in tal caso, sono rappresentati direttamente
i territori attraverso le istituzioni di livello regionale (i Länder,
ad esempio).
Il modello adottato dal testo senatoriale
non corrisponde a nessuno di questi due testé descritti. Certo, di per
sé, ciò non è rimarchevole in quanto non si tratta di dover seguire
pedissequamente altri sistemi; tuttavia, il problema risiede nel
verificare se vi siano altri congegni che consentano di raggiungere lo
scopo identificato, quello di dare una rappresentanza ai territori.
Ebbene, nel disegno di legge, tali istituti sono soprattutto offerti da
strumenti collaterali, atteso il dato di un Senato elettivo. Tra gli
altri, i requisiti di eleggibilità dei senatori; ma questi non mi
sembra, francamente, che possano dar luogo ad una rappresentanza reale
dei territori.
Certamente - come è stato notato da tanti
- non è sufficiente in tal senso la pura residenza nella circoscrizione
regionale dell'eletto, ma neanche, evidentemente, l'essere stati o
l'essere senatori o deputati; ciò, se mai, dà luogo ad una
rappresentanza nazionale, rappresentanza fino a quel momento
interpretata da questi eleggibili. Quanto al requisito costituito
dall'essere stati consiglieri regionali e locali, in tal caso il legame
è puramente di formazione personale; insufficiente anch'esso a garantire
una rappresentanza reale del territorio. Neanche se si trattasse di
consiglieri in carica, il requisito potrebbe essere bastevole; essendo
un elemento di tipo casuale, manca una investitura reale di
rappresentanza tra l'ente e colui che, pure, ha fatto o fa parte ancora
dell'ente. Meno ancora, evidentemente, possono funzionare ad uno scopo
effettivo, almeno a mio avviso, i rapporti di informazione e
collaborazione tra senatori ed organi regionali, anche perché le
audizioni sono facoltative. Esse possono essere richieste dall'organo
che, in tal senso, non ha però un potere autoritativo relativamente alle
convocazioni.
Infine, la contestualità delle due
elezioni è il punto più sottolineato, quello dal quale dovrebbe venire
la garanzia di rappresentanza; però, a mio avviso, da tale circostanza,
considerata con riferimento al sistema italiano, alla nostra esperienza
continuativa - che proseguirà, gravando anche per il futuro - ed alla
struttura propria della maggior parte dei partiti italiani, si deve
inferire che l'effetto di trascinamento sarà piuttosto svolto
dall'elezione senatoriale rispetto a quella dei consiglieri regionali
(la subordinazione della scelta locale rispetto all'esigenza della
contestuale elezione nazionale) e non viceversa. Tanto più che una
verifica molto chiara di ciò si ravvisa in uno «schiacciamento»,
addirittura un po' paradossale, che avviene in caso di anticipato
scioglimento. Se il Senato è regionale o federale, come si può pensare
che una legislatura regionale - nel caso di scioglimento del Consiglio e
di rielezione - venga a termine prima per garantire la contestualità con
l'elezione senatoriale? Ciò rappresenta proprio la subordinazione delle
elezioni locali all'elezione del Senato; se mai, si potrebbe pensare al
sistema contrario, far decadere i senatori eletti nella singola regione
nel momento in cui vi sia uno scioglimento del Consiglio regionale e una
conseguente rielezione. Mi parrebbe più razionale, se il modello deve
garantire - come anche lei ha detto, signor presidente, nella relazione
che ho appreso dai resoconti - una valorizzazione, evidentemente, della
dimensione regionale, raccordata con quella centrale. Dunque, in
conclusione, al di fuori di una possibile rappresentanza diretta dei
territori, non vi sono o, almeno, non sono stati trovati finora dei
sistemi effettivi di rappresentanza regionale.
Quali sono - e al riguardo si entra nel
confronto tra i modelli - i fini di un modello di Senato federale o
regionale? I fini dovrebbero essere garantire la promozione e la
valorizzazione delle autonomie - senza dubbio; ciò è chiaro per tutti -
ma garantire nel contempo l'unità nazionale. Portando le regioni nella
composizione di un organo centrale, dovrebbe essere meglio assicurata la
possibilità per le regioni di farsi carico - reciprocamente e con lo
Stato - dei problemi nazionali e, quindi, evitare le fughe verso
posizioni di tipo separatista (quali che siano) e antisolidarista.
Quindi, il fine di unità non è meno importante di quello di promozione
delle autonomie, in un Senato autenticamente federale; come pure, la
solidarietà tra le regioni (terzo aspetto) è un fine che impone che il
Senato stimoli la reciproca cooperazione tra le regioni: il Senato deve
costituire, appunto, un organo centrale nel quale ciò avvenga, senza che
tutta questa serie di confronti si disperdano in commissioni varie e in
rapporti esperiti unicamente con il Governo, come avviene a tutt'oggi.
Allora, mi pare che tali fini - e inevitabilmente, al riguardo, si
raggiungono i limiti del modello - possano essere perseguiti
sensatamente soltanto attraverso rappresentanze territoriali dirette,
ovvero elette direttamente dalle regioni, costituite di persone che
siano in carica presso le regioni (e quindi garantiscano la piena
compresenza delle due componenti, locale e nazionale, nel nuovo Senato).
Gli strumenti si trovano, come dimostra il funzionamento soprattutto del
Bundesrat tedesco; meno positiva è l'esperienza del Bundesrat
austriaco. Non è il caso in questo momento di esaminarne le ragioni, ma
una riflessione sui due modelli e, soprattutto, sull'esperienza
italiana, mi pare possa aiutare a trovare una formula adeguata.
Però, sorge l'ulteriore quesito: il
modello di Senato di cui al testo del disegno di legge, se non raggiunge
o non può raggiungere i fini di cui abbiamo parlato, a quali altri fini
viene creato? A me pare che l'intento sia quello di costruire un organo
di contrappeso: certamente, di contrappeso rispetto al centralismo nei
confronti delle autonomie, come emergerà subito, non appena verrò a
trattare l'argomento delle funzioni; più in generale, però, di
contrappeso al continuum Camera dei deputati-Governo.
A mio avviso, si deve parlare di
contrappeso, e non di garanzia; infatti, signor presidente, a volte si
parla del Senato come organo di garanzia ma gli organi politici, proprio
perché politici, difficilmente sono di garanzia in senso proprio.
Tuttavia, la garanzia può essere il prodotto di contrappesi e di un
bilanciamento tra diversi organi.
Allora, il disegno di legge mostra di
considerare questa funzione di contrappeso sia appunto nei confronti del
tema centro-periferia, sia nei confronti della disciplina dei diritti
fondamentali civili e politici, sia, anche, conferendo al Senato alcuni
poteri relativamente all'elezione dei membri parlamentari della Corte
costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura.
Al riguardo vi sono alcune osservazioni da
svolgere sulle formule adottate, che in alcuni casi mi sembrano prestino
il fianco a critiche sulla loro incongruenza. Ad esempio, quando si
tratta la materia delle competenze della legge bicamerale, a mio avviso
il contrappeso più naturale sarebbe la partecipazione del Senato al
processo di legislazione su un livello di parità con la Camera, (infatti
sono previste leggi bicamerali). Fra tali leggi bicamerali, però, alcune
sono indubitabilmente giustificate nella formula e non sollevano
problemi o critiche particolari. Ne mancano però alcune importanti,
penso ad esempio alla determinazione dei livelli essenziali dei diritti,
a norma dell'articolo 117, secondo comma, della Costituzione, lasciata
alla legge unicamerale della Camera dei deputati perché rientrante fra
le competenze esclusive dello Stato.
Questa determinazione dei livelli
essenziali, trasversale rispetto alle competenze regionali, chiama in
causa indubbiamente la necessità di un contrappeso rispetto ad indirizzi
troppo centralistici. E quindi mi parrebbe abbia vocazione ad essere
oggetto di legge bicamerale.
L'esame della legge finanziaria e della legge di bilancio, poi,
rappresenta una delle sedi classiche in cui, nell'esperienza italiana,
avviene spesso uno svuotamento delle leggi regionali con la prevalenza
di elementi centralistici. Di ciò si è dato carico il disegno di legge
in oggetto, ma solo nelle norme transitorie, che non credo siano
sufficienti. Infatti, il criterio per stabilire il momento in cui la
legge di bilancio e la legge finanziaria saranno unicamente delle leggi
unicamerali della Camera dei deputati è ancorato a presupposti molto
discrezionali e incerti (non nel quando ma nel merito). Quand'è che si
potrà dire che vi sarà una piena attuazione dell'articolo 119 della
Costituzione in riferimento al rispetto del cosiddetto federalismo
fiscale? Non mi sembra sufficiente allora, demandare ciò ad una norma
transitoria. Sebbene nell'esperienza tedesca ciò non avvenga, mi sembra
che, a regime, nel caso italiano, ci si dovrà porre il problema se legge
di bilancio e legge finanziaria debbano essere leggi bicamerali.
Vi è poi un altro aspetto da evidenziare,
inerente alle leggi che riguardano la disciplina dei diritti
fondamentali, civili (anche politici visto che si parla di elezioni) e
la libertà di concorrenza che secondo il disegno di legge sono destinati
a leggi bicamerali. Rileva però una certa sovrapposizione. Ed inoltre
perché non vengono citati i diritti sociali? Che siano considerati dei
diritti minori? Questo problema presenta comunque diverse sfaccettature
politiche in cui non mi addentro. La libertà di concorrenza è invece
promossa a libertà fondamentale: solo questa e non anche i diritti
sociali? In uno Stato con disposizioni sociali come quelle della parte
prima della nostra Costituzione (che rimangono intatte) questo mi sembra
un aspetto problematico. È chiaro che al riguardo - lo ripeto - rilevano
molte valutazioni politiche.
Tecnicamente in materia di diritti civili
fondamentali esiste una certa sovrapposizione con la formula
dell'articolo 117, per cui quando si tratta dei livelli essenziali di
tali diritti, nei confronti della legislazione regionale emerge una
competenza unicamerale della Camera dei deputati. Queste due formule
vanno messe d'accordo, altrimenti non funzioneranno e daranno luogo ad
innumerevoli difficoltà.
La legge unicamerale del solo Senato, come
saprete, è di notevole ampiezza, visto che riguarda tutte le leggi
recanti la fissazione dei principi fondamentali per la legislazione
regionale. Mi pare eccessiva la potestà concessa al Senato da questo
modello. Anzitutto perché si tratta di problemi che implicano una piena
valutazione politica nel rapporto tra centro e autonomie in merito a
quali debbano essere i principi. Che non venga interessata in maniera
decisiva anche la Camera, cui è destinato solo un diritto di richiamo,
mi sembra davvero poco.
Vi è poi il problema, rilevato da più
parti, della non piena coerenza con il modello del rafforzamento del
Governo e del primo ministro. In tal caso il Governo, non essendoci un
rapporto di fiducia e non essendoci la potestà di scioglimento del
Senato, si troverebbe in una situazione di inferiorità su un terreno
molto importante.
Certo, il disegno di legge, nella
elaborazione ultima del Senato, ha previsto il potere del Governo di
porre una sorta di fiducia alla Camera che, come conseguenza, rende in
qualche modo bicamerali anche queste norme. Ma si tratta di un modello
ancora limitato a casi specifici. E forse è troppo impegnativo perché
pone in questione, in ultima analisi, la possibile fiducia della Camera
al Governo. Mi sembra eccessivo, casuale e difficile da sperimentare.
Credo piuttosto che questo sia un altro terreno in cui intervenire con
leggi bicamerali. Del resto, non constano in diritto comparato (anche se
ciò non è decisivo) casi in cui si manifesti una superiorità del Senato
rispetto all'altra Camera.
In tema di Corte costituzionale ritengo complesso aumentare, fino al
livello previsto nel testo in oggetto, la rappresentanza politica nella
Corte. Con sette membri su quindici eletti dal Senato e con la
diminuzione dei membri provenienti dalla magistratura o eletti dal Capo
dello stato, mi sembra si dia luogo ad una eccessiva politicizzazione
della Corte. Questo a fronte delle tendenze esistenti di affermare che
la Corte debba mantenersi nei suoi limiti.
Estromettere la Camera dall'elezione dei membri della Corte
costituzionale mi sembra poi sia veramente troppo. La Camera nazionale
deve necessariamente recitare una parte nella nomina dei membri della
Corte costituzionale di estrazione parlamentare.
Manca in questo progetto una norma su un tema che rientra fra quelli
problematici del nostro sistema: la tutela giurisdizionale avverso le
decisioni delle due Camere sui titoli di ammissione dei loro membri,
sulle ineleggibilità e sulle incompatibilità. In questi casi è
ipotizzabile invece un ricorso alla Corte costituzionale come previsto
da molti sistemi.
Per quanto riguarda l'articolo 117, primo comma, della Costituzione, in
merito alla soppressione degli obblighi internazionali, come vincolo
della legge sia statale sia regionale, so quali siano i problemi
presenti nella formula attuale, che non può essere difesa in
toto. Ad esempio vi sono accordi puramente detti esecutivi, accordi
semplificati stipulati dal Governo oppure accordi in violazione
dell'articolo 80 della Costituzione, che oggi vincolano la legge
statale, a meno che non si adotti una interpretazione sensata ma un po'
difficile dell'attuale norma.
Una delimitazione delle ipotesi previste
all'articolo 117 della Costituzione potrebbe essere quella di fare
riferimento ai trattati ratificati dalle Camere o comunque regolarmente
approvati secondo la procedura prevista ed evitare così che il Governo
possa, magari con procedure non legali, porre le Camere di fronte ad un
vincolo. Più di così non mi sembra sia possibile. Ritengo invece che
escludere gli obblighi internazionali dai vincoli della legge significhi
compiere un passo indietro rispetto a quella cooperazione internazionale
che nell'ambito del processo di globalizzazione tutti sostengono essere
un punto centrale dell'evoluzione dei nostri sistemi.
PRESIDENTE. La ringrazio. Do ora la parola
ai colleghi che intendano intervenire per chiedere chiarimenti.
CARLO LEONI. Nel ringraziare il professor
Allegretti per il suo intervento chiedo quale sia la sua opinione sul
rafforzamento, o ulteriore rafforzamento dei poteri del premier.
Lei ritiene che vi sia una oggettiva necessità di qualche forma di
rafforzamento di tali poteri? E come giudica in questa materia il testo
che ci giunge dal Senato?
GIANCLAUDIO BRESSA. Anch'io mi unisco ai
ringraziamenti al nostro ospite. È del tutto evidente che quel test di
coerenza richiamato dal professore nel suo intervento non viene superato
dal testo approvato al Senato. A mio avviso il modello più adeguato e
funzionale per una Camera federale è quello del Bundesrat, che
però, a causa di problemi politici, più difficilmente può essere accolto
dai nostri colleghi senatori.
Forse, varrebbe la pena di ragionare sul modello di tipo elettivo
svizzero o statunitense. Mentre mi è chiaro che anche per un possibile
modello italiano la parità delle rappresentanze territoriali potrebbe
essere una garanzia, vorrei conoscere la sua opinione relativamente alle
funzioni che questo Senato federale paritario potrebbe avere in Italia,
posto che è difficile immaginare una assimilazione coerente con i poteri
del senato statunitense.
CARLO TAORMINA. Credo che al professor
Allegretti, così come ai professori che interverranno successivamente,
dobbiamo chiedere chiarificazioni di carattere tecnico e non scelte
politiche che non appartengono alla loro funzione. Concordo pienamente
con il professore Allegretti sui poteri eccessivi spettanti al Senato
delle regioni con riferimento al problema dei contrasti tra legge
regionale e legge dello Stato o a quello della nuova composizione della
Corte Costituzionale. Ciò determina le conseguenze indicate dal
professore relativamente, in particolare, alla politicizzazione che
determinerebbe sia la decisione sul rapporto tra legge regionale e legge
dello Stato sia la decisione riguardo la Corte Costituzionale.
Mi pare che la relazione del professor
Allegretti sia stata più distruttiva che costruttiva; vorrei pertanto
concentrarmi maggiormente sul secondo aspetto. I criteri utilizzati dal
testo normativo, analizzati per proporre le sue rilevazioni, a proposito
della rappresentatività territoriale del Senato delle regioni, sono
stati ritenuti insufficienti dal professore Allegretti. Egli ci ha
parlato di casualità dei criteri attraverso i quali si accede al Senato
delle regioni; se così fosse, effettivamente la rappresentatività
territoriale sarebbe fortemente in crisi. Quale dovrebbe essere, allora,
l'elemento decisivo per assicurare il raccordo tra territorio e Senato
delle regioni?
A proposito dell'osservazione fatta
sull'articolo 57, comma 7, della nuova Costituzione così come verrebbe
modificata dal disegno di legge in questione, riguardante le possibilità
di interpello sia da parte del Senato delle regioni, sia da parte delle
regioni e sia da parte dei rispettivi appartenenti, è vero che in questo
caso vi soltanto è un riferimento all'obbligo di essere sentiti, ogni
volta che lo richiedono l'uno o l'altro. Tuttavia, mi pare di capire che
il disegno di legge si preoccupa di stabilire i casi obbligatorietà,
senza escludere che, a prescindere poi dalle modalità di attuazione, per
altre ragioni l'interpello possa intervenire in termini ulteriori alle
situazioni elencate, sulle quali non è possibile derogare dall'audizione
e dal controllo.
Il professore Allegretti ravvisa una
difficoltà di individuare in questo Senato, così come disciplinato dal
disegno di legge costituzionale, una compatibilità con i fini che il
disegno stesso individua. A me è parso di capire che le osservazioni
fatte dal professore, tutte penetranti e degne della massima
considerazione, riguardino la struttura piuttosto che le finalità
istituzionali dell'organo che dovrebbe essere istituito. Se fosse vera
la mia valutazione, probabilmente frutto di una non puntuale
consapevolezza, allora perché il professore rimarrebbe perplesso
rispetto alla possibilità del raggiungimento del fine istituzionale? Una
volta eliminate anche le incoerenze interne alle quali faceva
riferimento il professore, quali sono gli strumenti tecnici interni al
modello affinché si possa raggiungere la finalità che il disegno di
legge costituzionale persegue?
Quando il professor Allegretti parlava della legge di bilancio e della
legge finanziaria avrà certamente tenuto conto del fatto che nel comma 3
dell'articolo 70 vi è un riferimento specifico ad alcuni aspetti che
implicano la bicameralità. Tale comma, infatti, testualmente dispone:
«La funzione legislativa dello Stato è esercitata collettivamente dalle
due Camere per l'esame dei disegni di legge, anche annuali, concernenti
la perequazione delle risorse finanziarie e le materie di cui
all'articolo 119». Certo, non vi è alcun riferimento alla legge di
bilancio, ma le implicazioni relative al federalismo fiscale non
potrebbero in qualche modo attenuare la critica che il professor
Allegretti ha formulato al riguardo?
Infine, a proposito dei cosiddetti diritti sociali di cui nel disegno di
legge non vi sarebbe una sufficiente considerazione, faccio presente che
esso richiama all'interno di determinati valori i diritti fondamentali,
non i diritti civili, disciplinati dagli articoli 13 e 21 della
Costituzione. Quando il professore Allegretti parla dei diritti sociali,
su quali ritiene che dovremmo appuntare la nostra attenzione
modificativa rispetto al testo pervenutoci dal Senato? A che cosa si
riferisce?
PRESIDENTE. Prima di lasciare la parola al
collega Boato vorrei ricordare a tutti i commissari una decisione presa
in sede di ufficio di presidenza: il limite massimo di tempo fissato per
ciascuno di noi per porre domande o chiedere chiarimenti è di tre
minuti.
MARCO BOATO. Mi permetto di dissentire dal
collega Taormina sul fatto che vi possa essere una distinzione così
rigida tra l'aspetto tecnico e l'aspetto politico quando si parla di
forma di governo o forma di Stato. Ovviamente alla fine è il Parlamento
a decidere, ma le audizioni vengono fatte proprio per ascoltare dei
pareri autorevoli che il Parlamento deciderà come utilizzare.
Vorrei chiedere al professor Allegretti di
approfondire l'aspetto riguardante la composizione del Senato. Condivido
l'obiezione del professore sul fatto che il tipo di contestualità
affievolita subordina il sistema delle autonomie regionali al Senato e
non viceversa.
Ha fatto poi un accenno alla possibilità di introdurre l'ipotesi che lo
scioglimento delle regioni comporti anche la revoca del mandato dei
senatori eletti contestualmente. Tuttavia, ha fatto anche un altro
accenno all'ipotesi alternativa secondo cui i senatori dovrebbero essere
eletti dalle regioni e fra coloro che sono in carica al loro interno.
Lei sa che in questo caso esistono due ipotesi diverse: una riguarda
l'aspetto della rappresentatività, cioè i consiglieri regionali, l'altra
gli esecutivi regionali. Volevo chiederle se abbia un'idea più precisa
al riguardo.
Ho qualche perplessità su una questione e
per questo le chiedo anch'io, come il collega Taormina, sia pure sotto
un profilo diverso, di approfondirla: l'ipotesi di inserire a pieno
titolo tra le leggi bicamerali anche quelle che riguardano la manovra di
bilancio inerisce, in competenza paritaria tra Camera e Senato, alla
principale materia dell'indirizzo politico di Governo. Tuttavia, per
quanto riguarda la Camera il rapporto fiduciario, sia pure in modo
anomalo, esiste; per quanto riguarda il Senato tale rapporto non c'è,
così come non è prevista alcuna possibilità di scioglimento del Senato,
che, invece, nel disegno originario del Governo era presente.
PRESIDENTE. Do ora la parola al professor
Allegretti per la sua replica.
UMBERTO ALLEGRETTI, Professore
ordinario di diritto pubblico presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Firenze. Per quanto riguarda il rafforzamento del
premier, la linea è comprensibile ma sembra eccessivo per due
aspetti. In primo luogo, è addirittura superfluo perché il sistema sta
raggiungendo - sia pur gradualmente nelle ultime due legislature, in
particolare nell'ultima - una situazione che, di fatto, è quella che,
più o meno, si vorrebbe garantire con norme formali manifestando ancora
una volta il fatto che la forma di Governo parlamentare è elastica e si
presta, secondo l'assetto dei partiti e il rapporto tra gli stessi, ad
un diverso modo di funzionare. Indubbiamente, il nostro sistema aveva
dato luogo ad un funzionamento insoddisfacente per l'eccessiva
instabilità e la poca capacità decisionale dei governi, ma oggi,
attraverso le modifiche della legge elettorale e una serie di prese di
coscienza all'interno delle coalizioni e fra le coalizioni, si sta
raggiungendo una situazione che, di fatto, non ha bisogno di norme
formali, tali norme aggiungerebbero un irrigidimento eccessivo al
sistema. La forma di Governo parlamentare ha il suo pregio maggiore nel
fatto di accompagnare l'evoluzione delle situazioni sociali e politiche.
Se si irrigidisse con un eccesso di norme formali che non sono presenti
in quasi nessuno dei sistemi, si rischierebbe, di fronte all'evolversi
delle situazioni, di avere da una parte o dall'altra una forma di
Governo, costretta dalle norme costituzionali, non rispondente alla
realtà.
Inoltre, questa serie di rafforzamenti del premier è eccessiva,
in particolare, rispetto all'automatismo della fiducia. Ho visto che
nella relazione del vostro relatore su questo punto c'è una lettura
diversa, perché si potrebbe anche interpretare che nell'articolo 94 ci
sia un richiamo implicito all'articolo 88 e, quindi, la possibilità di
sostituire il premier, entro un certo termine, ad opera della
stessa maggioranza anche nel caso di votazione di sfiducia. Tuttavia, la
lettura più corrente è che in quel caso c'è l'automatismo, norma che
sembra eccessiva; infatti, in Inghilterra e in Germania, che sono le
forme di Governo parlamentare più assestate, non c'è questa rigidità.
La questione della nomina dei ministri
esiste in alcuni sistemi e in Italia qualche volta è stato utile che ci
fossero, sia pur eccezionalmente, osservazioni del Presidente della
Repubblica rispetto alla nomina di un ministro: indubbiamente su questo
si può discutere.
Un'ulteriore questione riguarda il fatto di delimitare in maniera troppo
formale l'idea - sicuramente da tenere presente nella fisiologia del
sistema parlamentare - che sia lecito non cambiare maggioranza ma
tornare alle elezioni. Anche in questo caso, in una nozione di
maggioranza che non è chiarissima, mi pare sussista un eccesso di
irrigidimento della normativa.
L'onorevole Bressa chiedeva, una volta rilevato concordemente che il
modello Bundesrat non trova praticabilità, se si possano adottare
alcuni aspetti del modello elettivo, prendendo anche esempio dal modello
USA. Recentemente tale modello non è stato studiato molto bene
(depositerò due studi fatti negli anni scorsi sulla questione del
Senato); l'indagine più penetrante sul Senato USA mi pare sia quella
dello studioso Dehousse. Oggi il Senato degli Stati Uniti è pienamente
nazionalizzato, più ancora - si dice - della Camera dei rappresentanti,
nella quale non c'è la rappresentanza diretta degli Stati ma, almeno,
degli interessi locali non filtrati dalle istituzioni dello Stato. Tutto
ciò è più presente nella Camera che nel Senato, il quale partecipa alla
grande politica nazionale, in particolare a quella estera.
Questo rivela che, quando i sistemi passano dalla forma di
rappresentanza degli enti territoriali alla rappresentanza elettiva,
come quelli degli Usa e della Svizzera, è molto difficile ancorare il
Senato ad un ruolo di valorizzazione e di interpretazione delle esigenze
locali. Quindi, è molto difficile lavorare all'interno dell'ipotesi
elettiva. Quale raccordo si può pensare? Semmai, gli eleggibili dovrebbe
essere consiglieri o elementi di giunta regionali perché, allora,
sarebbe garantita la compartecipazione alle due cariche. Quindi, credo
che solo la compresenza nella stessa persona di due mandati contestuali
- uno regionale e l'altro nazionale - possa assicurare che ci sia
davvero la rappresentazione degli orientamenti locali. Abbiamo già tanti
esempi di elementi che hanno fatto carriera politica negli enti locali
al massimo livello e poi, pur portando una certa esperienza di
regionalismo all'interno del Parlamento, sono stati travolti dal gioco
nazionale, che in Italia e nella nostra tradizione è molto stratificato
(tradizione che non disprezzo affatto perché è quella di uno Stato
unitario che, a mio parere, è bene che rimanga tale).
Mi pare che il bilanciamento fra le due
esigenze potrebbe essere raggiunto solo se esistesse la contestualità
delle cariche; questa è l'ipotesi che scaturisce anche dagli studiosi
del sistema americano.
CARLO TAORMINA. Il consigliere regionale
anche senatore?
UMBERTO ALLEGRETTI, Professore
ordinario di diritto pubblico presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Firenze. Naturalmente esistono alcune difficoltà
di compatibilità effettiva del lavoro che in Germania sono state
risolte; non so se si avrà la capacità di lavoro dei tedeschi e la loro
capacità di programmazione rigida delle sedute.
CARLO TAORMINA. Se dovesse rimanere la
previsione attuale per cui nel conflitto tra legge regionale e legge
dello Stato è il Senato federale a decidere, avremmo un rapporto di
identità tra il controllore ed il controllato dal punto di vista della
rappresentatività.
UMBERTO ALLEGRETTI, Professore
ordinario di diritto pubblico presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Firenze. Il tema della struttura è collegato a
quello delle funzioni, che non sono giustificate in quanto non possono
essere di una Camera che si ispiri ad un raccordo con le regioni. Deve
essere la Camera nazionale ad intervenire sull'interesse nazionale e sui
principi, che sono anche la solidificazione dell'interesse nazionale. Il
rapporto tra struttura e funzione è da studiare in maniera puntuale; i
due elementi debbono essere risolti insieme, struttura e funzione sono
strettamente legate tra loro ed agli obiettivi.
Negli studi che ho realizzato, che lascio
alla Commissione, ho esaminato approfonditamente le funzioni, da me
riassunte in tre (ma forse sono più di tre), della Camera regionale. Gli
obiettivi manifestano la necessità di strutture di un certo tipo, non
potendo essere raggiunti attraverso strutture che non siano coerenti con
gli obiettivi, che - come ho detto - riguardano l'unità nazionale non
meno che la promozione ed il rispetto delle autonomie.
Per quanto riguarda la disciplina con
legge bicamerale dei diritti fondamentali, gli articoli sono quelli dal
13 al 21, relativi ai diritti civili (per questo motivo ho sintetizzato
parlando di diritti civili). I diritti sociali, di cui reputo difficile
attestare in questo modo indiretto in Costituzione il minor valore
rispetto a quelli civili, sono soprattutto il diritto al lavoro, alla
previdenza, alla salute e all'istruzione. In merito al diritto
all'istruzione vi è un richiamo all'articolo 33, ma soltanto al sesto
comma. Si tratta di un aspetto che non ho affrontato, ma nella parte
sulla modifica dei poteri delle regioni vi sarebbero norme relative
all'istruzione che non capisco come potrebbero intrecciarsi tra loro.
Ciò è stato notato da più parti e sarà necessario considerarle
nuovamente per rendere interpretabile la materia.
MARCO BOATO. L'istruzione è considerata
nel secondo, nel terzo e nel quarto comma dell'articolo 117 della
Costituzione.
UMBERTO ALLEGRETTI, Professore
ordinario di diritto pubblico presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Firenze. Esiste, quindi, una sovrapposizione di
diversi modelli non più governabile.
Quanto detto, vale anche per gli altri
diritti fondamentali nella misura in cui anche essi ricadono
nell'articolo 117 attraverso la legge unicamerale per i principi
fondamentali. Mi chiedo, ad esempio, come si combinino l'articolo 70,
terzo comma, e l'articolo 117. Non è chiaro.
Passando alle domande dell'onorevole Boato, una proposta che può essere
considerata come una variante dei modelli generici ispirati al
Bundesrat (nella sua versione tedesca ed austriaca) è stata
presentata in Spagna ed andrà osservata attentamente. Sono in rapporto
con un costituzionalista di Barcellona che ha studiato approfonditamente
il tema. Penso sia possibile trovare una misura, non tanto intermedia,
quanto complementare di rappresentanza dei consigli (che assicura la
rappresentanza delle minoranze e, quindi, in un'ottica democratica è da
salvaguardare) e delle giunte (fondamentale tanto da non aver bisogno di
essere motivata), prevedendo anche esplicitamente nelle norme l'elezione
di tre rappresentanti (in qualche caso un numero maggiore in relazione
ad una rappresentanza ponderata delle regioni, come nel sistema
tedesco), due della maggioranza ed uno della minoranza. Inoltre, il voto
unitario della rappresentanza regionale, il pregio maggiore del sistema
tedesco, potrebbe essere salvaguardato anche in questa ipotesi; il voto
sarebbe deciso all'interno della delegazione regionale dopo una
discussione tra maggioranza e minoranza.
Il modello è stato proposto in Spagna e mi sembra più consono al nostro
sistema del «puro» modello tedesco, mentre il modello austriaco non va
bene perché si tratterebbe di eletti dalle regioni che non devono essere
consiglieri in carica. Il modello austriaco non funziona, è debole nella
rappresentanza del territorio in quanto, non trattandosi di consiglieri
in carica, non vi è l'elemento del duplice mandato.
Ho parlato in maniera dubitativa della
manovra di bilancio; si tratta di studiare ulteriormente se il bilancio
debba essere inserito tra le leggi bicamerali. Mi rendo conto che si
tratta di un elemento fondamentale di indirizzo politico di Governo e
questo aspetto andrebbe composto con l'altro che si trae dall'esperienza
italiana, cioè che, purtroppo, è la legge di bilancio, la legge
finanziaria quella in cui sono realizzati gli attacchi più virulenti
alla reale forza degli enti locali, non solo delle regioni. Non credo
sarebbe sufficiente una legge di coordinamento finanziario, ai sensi
dell'articolo 119, che avrebbe sempre carattere molto generale.
GIOVANNI GUZZETTA, Professore
straordinario di diritto pubblico presso la facoltà di sociologia
dell'Università di Trento. Ringrazio il presidente e i membri della
Commissione per l'invito. Ho predisposto un testo che ho consegnato alla
Commissione e che, mi sono reso conto, contiene molti refusi. Chiedo
scusa per questo; sarà mia cura trasmettere un testo corretto.
Per ragioni di tempo mi soffermerò
principalmente su due profili del progetto di riforma, che intendono
perseguire due finalità molto importanti: stabilizzare la forma di
Governo coerentemente con l'evoluzione in senso maggioritario del
sistema politico e - seconda finalità del disegno di legge - completare
la riforma regionale dello Stato nel senso del regionalismo cooperativo,
colmando così una lacuna presente nella riforma del 2001 ed introducendo
un raccordo organizzativo tra i diversi livelli di governo, realizzato
mediante la creazione di un cosiddetto Senato federale della Repubblica.
Vorrei sostenere alcune tesi, con riferimento a tali obiettivi.
Il primo obiettivo, quello della
stabilizzazione della forma di Governo, è raggiunto, a mio avviso, anche
se solo in parte; il secondo obiettivo, quello della federalizzazione
della seconda Camera, viceversa, non mi pare possa considerarsi
raggiunto.
Un'altra tesi che vorrei sostenere è che
tra queste due circostanze, tra questi due limiti - per dire così -
rischia di determinarsi una combinazione perversa, tale da precludere
alcuni effetti positivi della riforma.
Per quanto riguarda il primo obiettivo,
cioè la stabilizzazione del sistema politico in senso maggioritaro, la
principale lacuna della riforma mi pare consista nella circostanza che
la perseguita stabilizzazione istituzionale del bipolarismo si presenta
come una stabilizzazione incompleta o, se volete, «zoppa». La logica
bipolare - come è noto - imporrebbe che la rappresentanza politica e
l'attività parlamentare siano articolate intorno alla contrapposizione
tra due principali schieramenti: il primo, costituito dal blocco
maggioranza-Governo-premier; il secondo rappresentato dallo
schieramento sconfitto alle elezioni, il quale si propone come
alternativa potenziale di Governo, attraverso la permanente esibizione
di un indirizzo politico sostitutivo e concorrente con quello della
maggioranza. Coerentemente con queste premesse, il disegno di legge
assume che la stabilizzazione debba avvenire non solo in via politica,
attraverso la spontanea convergenza e autodisciplina dei soggetti e dei
partiti di ciascuna coalizione, ma che vi sia necessità di strumenti
giuridico-istituzionali che rafforzino la coesione, la coerenza e la
stabilità degli schieramenti.
La premessa, dunque, è che siano necessari incentivi e garanzie
giuridiche per propiziare la stabilizzazione bipolare della
rappresentanza. Tale obiettivo è perseguito coerentemente, a mio parere,
con riferimento al blocco maggioranza-Governo-premier. Gli
strumenti utilizzati sono vari e a voi noti: cito, esemplificativamente,
la costituzionalizzazione del collegamento tra candidati e premier,
non limitata solo al momento elettorale ma, appunto, proiettata anche
nel corso della legislatura. In particolare, deve essere menzionata la
cosiddetta norma «antiribaltone» di cui all'articolo 88, comma 2. A ciò
si aggiunge la predisposizione di specifici poteri del Governo in
Parlamento, finalizzati a consentire a quest'ultimo di disciplinare la
propria maggioranza nell'attuazione dell'indirizzo politico ed un potere
di scioglimento temperato, che garantisce contro tendenze centrifughe
della maggioranza.
Ciò che rende la stabilizzazione «zoppa» o incompiuta, però, è la
circostanza che analoghe misure di incentivo alla coesione e di
rafforzamento di posizione non sono previste per l'interlocutore
istituzionale della maggioranza nel sistema bipolare, cioè per
l'opposizione. La coesione di quest'ultima, infatti, è rimessa
sostanzialmente alla spontanea capacità di convergenza politica tra le
sue componenti, mentre mancano quegli strumenti di incentivo giuridico
che, invece, sono previsti per il blocco maggioranza-Governo-premier.
Si tratta, in questo caso, di una soluzione che non convince, se si
considera che l'opposizione non è solo lo schieramento residuale degli
sconfitti ma anche il raggruppamento candidato alla successione di
Governo, il quale svolge, oggettivamente, anche una funzione
costituzionale, contribuendo al controllo politico sull'operato della
maggioranza, spingendo il Governo ad un'assunzione pubblica e costante
della propria responsabilità nell'attuazione dell'indirizzo politico e,
soprattutto, contribuendo a riqualificare la funzione istituzionale del
Parlamento come foro di discussione e confronto tra alternative
concezioni di governo della cosa pubblica. Con riferimento a tale
obiettivo, a mio avviso il disegno di legge in esame offre soluzioni, a
dir poco, reticenti. Lo statuto dell'opposizione è sostanzialmente
rimesso alla disciplina regolamentare, peraltro virtualmente disponibile
da parte della maggioranza.
Le uniche previsioni sostanziali accolte in Costituzione non valgono a
qualificare adeguatamente l'attività oppositiva in regime maggioritario.
A parte la disciplina dell'elezione di un capo dell'opposizione e
l'attribuzione della presidenza di talune Commissioni, l'unica
disposizione di un certo rilievo consiste nel riproporre l'istituto di
una riserva di spazi alle opposizioni, separati rispetto alla ordinaria
attività parlamentare di attuazione dell'indirizzo politico. A tal
proposito, oltre che ricordare la scarsa efficacia dimostrata da tali
misure nell'esperienza trascorsa, preme sottolineare che si tratta di
soluzioni non adeguate a qualificare la funzione costituzionale
dell'opposizione e, cioè, la funzione di fronteggiare dialetticamente le
iniziative del Governo e di mostrare all'opinione pubblica un indirizzo
politico alternavo. Per svolgere tale funzione, l'opposizione ha bisogno
di un ruolo da esercitare in contraddittorio, non di riserve un po'
solipsistiche e spesso rituali, se mi consentite l'espressione. In un
regime maggioritario, in cui all'opposizione è precluso in via generale
un potere di codecisione sull'indirizzo politico, l'esigenza
fondamentale da salvaguardare, infatti, è quella di ridurre la tendenza
del Governo - tendenza innata in tutti i Governi - a sfuggire al
rendiconto pubblico e costante delle proprie responsabilità.
Misure in grado di assicurare tale
permanente contrapposizione politico-programmatica dovrebbero essere di
altro tipo. A titolo meramente esemplificativo, mi limito a segnalarne
alcune: la salvaguardia di un tempo congruo di reazione, per
l'opposizione, alle iniziative politiche del Governo, onde predisporre
la propria controffensiva mediante un'adeguata critica politica; la
salvaguardia di efficaci poteri di sindacato che consentano di
costringere il Governo, ed il suo premier, a giustificare,
periodicamente, il proprio indirizzo pubblicamente di fronte al
Parlamento (la recente vicenda del question time mi pare
esemplare, in tal senso); una limitazione della possibilità della
maggioranza di stravolgere, fino all'ultimo minuto, le proprie proposte,
spiazzando così l'opposizione (mi riferisco, in particolare, alla
prassi, attuata non soltanto nella presente legislatura, di proporre
repentini maxiemendamenti con contestuale posizione della questione di
fiducia, che rende per l'opposizione praticamente impossibile
predisporre qualunque reazione); un ruolo privilegiato per l'opposizione
nel sindacato ispettivo e nel potere di emendamento rispetto ai poteri
della maggioranza parlamentare; il potere di provocare una maggiore
pubblicità del dibattito parlamentare attraverso il diritto di
richiedere, almeno in talune circostanze, la diretta televisiva; il
potere di provocare l'istituzione di commissioni di inchiesta su
iniziativa della minoranza; la dotazione di misure finanziarie; in
ultimo, il riconoscimento all'opposizione di uno statuto non solo
parlamentare ma anche costituzionale.
Come ricordato, l'opposizione non è solo una frazione parlamentare ma
un'istituzione che concorre al buon funzionamento della forma di
Governo. Mi riferisco a poteri e diritti nei rapporti con altri organi,
a cominciare dal Capo dello Stato, nei rapporti con altre autorità
nazionali e internazionali, nella partecipazione ad organi di garanzia o
alla loro designazione e, infine, nella revisione costituzionale. A tali
poteri di carattere politico, si dovrebbero inoltre aggiungere
prerogative finalizzate alla garanzia della legalità nei processi
parlamentari ed alla tutela giurisdizionale dei diritti.
Il tema della certezza della legalità
parlamentare è di fondamentale importanza. L'idea del diritto
parlamentare come diritto speciale, di fatto, spesso a disposizione
della maggioranza, pone forti dubbi in un contesto in cui la dialettica
non è più tra il Parlamento, che deve essere preservato, ed altre
istituzioni, ma passa all'interno dell'istituzione parlamentare stessa.
Si pensi ai poteri interpretativi del regolamento o alla legalità delle
procedure decisionali. In questa prospettiva, dovrebbe essere
perseguita, a mio parere, una ponderata apertura alla giustiziabilità,
di fronte alla Corte costituzionale, dei rapporti interni alle Camere,
secondo l'esempio praticato in altri ordinamenti costituzionali, a
cominciare da quelli di Germania e Francia.
Un ulteriore aspetto è relativo al Senato.
L'obiettivo - come ho affermato - è quello della istituzione di un
Senato federale della Repubblica. Confrontando le soluzioni prescelte
con l'esperienza comparata, si deve constatare che il raggiungimento di
tale obiettivo appare sostanzialmente fallito. La conclusione sembra
argomentabile considerando sia la composizione sia le competenze
dell'organo. Quanto alla composizione, è noto che il problema della
«federalizzazione» della seconda Camera si gioca intorno al modo in cui
si costruisce la rappresentanza. Infatti, mentre nella Camera politica
si persegue l'obiettivo di rappresentare le popolazioni, quella federale
persegue la finalità di rappresentare le istituzioni federate. Nella
Camera politica, dunque, sono espressi gli orientamenti
politico-ideologici dei cittadini organizzati in partiti; nella seconda
si persegue un diverso scopo e, cioè, dare voce agli interessi
territoriali, i quali non coincidono necessariamente con le divisioni
partitiche nazionanali. Insomma, i rappresentanti che siedono nella
seconda Camera dovrebbero esprimere la volontà della propria
collettività locale complessivamente considerata, non del partito o
dello schieramento nazionale cui appartengono. È evidente, dunque, 1a
differenza qualitativa tra questi due modi di concepire la
rappresantanza.
La difficoltà di raggiungere tale obiettivo dipende dal fatto che,
trattandosi di un organo dello Stato centrale - e il discorso vale
particolarmente in un paese privo di tradizione federale come il nostro
- la tendenza ineluttabile è quella verso una nazionalizzazione del
conflitto dentro la seconda Camera. La tendenza è, cioè, alla
riproduzione delle divisioni politico- partitiche generali. Il rischio è
riscontrato persino in ordinamenti di lunga tradizione federale come gli
Stati Uniti, l'Austria o la stessa Repubblica federale di Germania. Per
contenere tal rischio di snaturamento della rappresentanza istituzionale
degli enti, gli ordinamenti federali hanno escogitato differenti
congegni, la cui applicazione è variamente modulata.
Nessuno di tali congegni è stato prescelto
per il riformando Senato italiano. Non quello di assegnare un numero
tendenzialmente paritario di rappresentanti a ciascun ente,
indipendentemente dalla consistenza demografica degli stessi. Il
progetto, infatti, non attua né il modello americano o svizzero della
rappresentanza paritaria degli Stati, né quello austriaco o tedesco
della bassa (3-12) o bassissima (3-6) escursione tra seggi degli enti
territoriali più popolosi e di quelli meno popolosi. Da una proiezione
sommaria da me compiuta, risulta che nel nuovo Senato italiano vi
sarebbero regioni con un seggio (Valle D'Aosta), regioni con 7 seggi
(Umbria o Friuli) e regioni con 22 seggi (Lombardia).
Lo stesso discorso vale per gli altri
dispositivi di federalizzazione: l'investitura di secondo grado da parte
degli organi degli enti territoriali, l'imposizione di un vincolo di
mandato ancorato alle istruzioni ricevute dagli enti di provenienza, la
previsione di un voto unitario per delegazione, e via dicendo.
Il disegno di legge prevede, viceversa,
un'elezione diretta e la garanzia della libertà di mandato da
esercitarsi in rappresentanza della nazione e della Repubblica.
L'unica misura strutturale prevista nel progetto è costituita, com'è
noto, dall'elezione dall'elezione dei senatori contestualmente ai
consigli regionali. Nulla assicura che tale misura favorisca il
risultato desiderato. La previsione di elezione contestuale «scommette»
sull'effetto di trascinamento della competizione regionale rispetto a
quella nazionale. Il rischio però è che tale obiettivo si trasformi
esattamente nel suo contrario. È cioè prevedibile che siano invece
proprio le elezioni locali a venir risucchiate nella competizione
nazionale e ad essere, così, fortemente condizionate dall'imporsi dei
temi ed interessi legati all'agenda politica generale.
Se mi si consente il paradosso, sarebbe
come se per europeizzare la rappresentanza parlamentare si abbinassero
le elezioni politiche italiane a quelle europee. Ho dei dubbi che ciò
consentirebbe di realizzare l'effetto desiderato.
Infine la scarsa regionalizzazione della
seconda Camera mi pare persino «confessata» tra le righe dallo stesso
disegno di legge, il quale, infatti, nei casi in cui vuol coinvolgere
effettivamente la dimensione territoriale, prevede l'integrazione del
Senato con rappresentatiti delle regioni. Mi riferisco al caso
dell'elezione del Presidente della Repubblica (articolo 83), al
Consiglio superiore della Magistratura (articolo 104) e alla Corte
costituzionale (articolo 135). È evidente che tale integrazione non
dovrebbe essere necessaria se il Senato fosse già, di per sé, una Camera
regionale.
In conclusione è fortemente dubbio che, così come congegnato, il Senato
possa realizzare quel collegamento stabile con i circuiti regionali,
così da consentire la partecipazione di questi alle decisioni politiche
nazionali.
Quanto alle competenze la soluzione lascia
piuttosto perplessi.
Mi soffermerò su di un punto. L'ampiezza
delle competenze sulle quali il Senato può esercitare un vero e proprio
potere di veto nei confronti della Camera. Un potere di veto che, a
differenza di quanto avviene ad esempio nell'ordinamento spagnolo, non è
in alcun modo superabile.
È ben vero che, nell'esperienza comparata,
sono previste competenze esercitate collettivamente dalle due Camere, ma
si tratta di ipotesi tassativamente enumerate e, in genere, legate alle
prerogative istituzionali degli enti o all'esercizio di una leale
collaborazione nell'implementazione amministrativa della legislazione.
Nelle ipotesi previste dal secondo e terzo comma dell'articolo 70,
invece, le competenze condivise sono molte e soprattutto appaiono
suscettibili di interpretazione estensiva. Basti pensare all'intera
legislazione di principio in materia di competenza regionale concorrente
o alle tante materie previste dal terzo comma dell'articolo 70.
A proposito di queste ultime, mi limito a
segnalare il caso della materia denominata «tutela della concorrenza».
Secondo una recente giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 14 del
2004, seguita da altre pronunce conformi) tale materia non abbraccerebbe
solo la regolazione della competizione nel mercato, ma costituirebbe
«una delle leve della politica economica statale», comprensiva di «tutti
gli strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo
dell'intero paese». Si comprende bene che, cosi intesa, l'attribuzione
di tale competenza assegna al Senato un potere di vincolare l'intera
politica economica statale.
In conclusione su questo punto penso che la scarsa caratterizzazione
federale dell'organo insieme all'ampio spettro di attribuzioni rischia
di rivelarsi non solo inefficace rispetto all'obiettivo del
decentramento, ma di riflettersi negativamente sulla forma di Governo.
La sottrazione del Senato al rapporto
fiduciario con il Governo, che costituirebbe certamente una soluzione
condivisibile qualora si fosse in presenza di una seconda Camera
effettivamente regionale, priva il Governo di qualsiasi strumento di
pressione su tale organo quando sia in gioco il proprio indirizzo
politico.
Il rischio è dunque che anche i
dispositivi previsti per la stabilizzazione del bipolarismo ed il
rafforzamento della governabilità nel primo ramo del Parlamento, siano,
nei fatti, completamente vanificati da un potere di interdizione e veto
della seconda Camera, per giunta non disciplinabile con gli ordinari
strumenti previsti per il rapporto di fiducia o del potere di
scioglimento.
Quanto detto getta un'ombra pesante - mi
pare - sul modo in cui funzionerebbe l'intero sistema. La scarsa
garanzia dell'opposizione nella Camera bassa e la caratterizzazione
sostanzialmente politica della seconda Camera, rischiano - tanto più se
questa fosse eletta con un sistema proporzionale - di attribuire al
Senato una impropria vocazione oppositiva e di farne il luogo di uno
strisciante ostruzionismo al1'azione del Governo. Giustificato peraltro,
proprio, dallo squilibrio tra maggioranza e opposizione alla Camera dei
Deputati.
La propensione interdittiva e negoziale cui sembra vocato il progettato
Senato, privo però della giustificazione «federale», rischia pertanto di
sostituire alle pratiche della democrazia consensuale pre-maggioritaria
una spinta verso una sorta di «consociazione tra istituzioni». In cui,
cioè, il Governo deve costantemente contrattare 1'attuazione del proprio
indirizzo politico con l'istituzione Senato. A questo punto vorrei
offrirvi qualche spunto propositivo per la seconda Camera.
Se si esclude una radicale rivisitazione
della struttura e delle competenze del Senato, politicamente
impraticabile, mi pare che le possibili vie d'uscita rispetto a questo
scenario siano sostanzialmente tre: ridurre il potere di veto assoluto
della seconda Camera, limitandolo ad ipotesi fortemente circoscritte, e
sostituendolo con forme di veto superabile, magari da una maggioranza
qualificata della Camera bassa; reintrodurre, almeno su certe materie,
un meccanismo fiduciario o comunque strumenti di deterrenza in capo al
Governo nei confronti del Senato; modificare la condizione del Senato,
abbandonando la via della seconda Camera integralmente regionale e
perseguendo un modello di composizione mista - con una sorta di senatori
elettivi e una parte di veri e propri rappresentanti regionali - che ne
faccia una camera di conciliazione tra Stato e regioni sul modello delle
conferenze o della cosiddetta «bicameralina». In aggiunta si potrebbe
ipotizzare che i senatori di estrazione politica, oltre ad esercitare
una competenza nella seconda Camera, siano istituzionalmente associati
ai deputati nello svolgimento di alcune funzioni legate all'indirizzo
politico, sul modello della Assemblea nazionale, prevista dal progetto
della Commissione dei 75 e poi abbandonata in Assemblea costituente.
Degli aspetti tecnici di questa proposta
mi sono occupato più dettagliatamente in uno scritto che, se mi è
consentito, potrei lasciare agli atti della Commissione.
PRESIDENTE. Nel ringraziarla professor
Guzzetta vorrei porle una brevissima domanda. Quando dice di perseguire
una ponderata apertura alla giustizialità davanti alla Corte
costituzionale nei rapporti interni alla Camere, intende solo in caso di
lesione del rapporto di equilibrio tra maggioranza e opposizione o anche
sul merito, come avviene, anche se con condizioni diverse, in Francia?
CARLO TAORMINA. A proposito della
organizzazione dell'opposizione, che è un tema a cui siamo
particolarmente sensibili, anche perché nella prossima legislatura
potremmo essere all'opposizione, quindi che ci prepariamo il terreno...
SERGIO MATTARELLA. È quello che speriamo!
CARLO TAORMINA. E quindi ci penso prima;
infatti, è meglio essere scaramantici, poi vedremo alla fine!
Sul tema potrebbe essere molto utile la
comparazione. Lei ha detto che c'è la possibilità di intervenire su vari
aspetti. Tenuto conto del tessuto da lei condiviso per quanto riguarda
il rapporto tra maggioranza, premierato e via dicendo, le chiedo quale
sarebbe lo strumento tecnico che, tenendo conto anche delle esperienze
di diritto comparato, nell'ambito del nostro disegno di legge potrebbero
essere oggetto di inserimento, senza modificare l'impostazione.
In secondo luogo, lei ha dato indicazioni importanti per quanto riguarda
il Senato; ha suggerito di ridurre il potere di veto, un rapporto
fiduciario con il Governo per evitare slittamenti di ogni genere e una
composizione mista. Tuttavia, la riduzione del potere di veto, così come
l'istituzione di un raccordo tra il Governo e il Senato delle regioni,
va nella direzione di una cifra nazionale più che regionale del Senato.
Dal punto di vista della rappresentatività
regionale in senso stretto, vorrei capire che tipo di modello è quello
al quale lei si ispira e sul quale ha calibrato le sue osservazioni. Dal
disegno di legge sembrerebbe di capire che si sia tentato di compiere
uno sforzo al fine di conciliare le esigenze di rappresentatività
nazionale, per evitare che il federalismo sia una fonte di dissociazione
interna all'organizzazione dello Stato, e quelle di una
rappresentatività regionale in senso stretto. I tre suggerimenti che lei
ci ha dato, secondo la sua valutazione, non presentano una
contraddizione interna?
CARLO LEONI. Ho un altro punto di vista
per quanto riguarda la presunta necessità di un'ulteriore
stabilizzazione della figura del Primo ministro, ma non intendo
soffermarmi su questa sede. Per comodità di ragionamento, cercherò di
pormi nella stessa ottica che lei condivide.
CARLO LEONI. Vorrei chiederle se non le
sembra che quanto sto per leggere, che è una parte della nuova
formulazione dell'articolo 94 della Costituzione, costituisca qualcosa
che non rientra nel capitolo della stabilizzazione di Governo e
maggioranza, ma rappresenta una forzatura del Governo nei confronti del
Parlamento: il Presidente del Consiglio «può chiedere che la Camera dei
deputati si esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto
conforme alle proposte del Governo. In caso di voto contrario, il Primo
ministro rassegna le dimissioni (...)».
Chi sta vivendo l'esperienza parlamentare,
non solo in questa legislatura, ma anche chi osserva e studia la
corrente vita parlamentare, non può non vedere che il problema
dell'Italia di oggi non è esattamente quello di un Parlamento che limita
l'azione del Governo (vedi le leggi delega, i decreti-legge, eccetera).
Vorrei chiedere un suo parere non di
carattere politico - questo è ovvio - sul secondo comma del nuovo
articolo 94 della Costituzione; in altri termini, vorrei sapere se a suo
giudizio quella previsione risponde ad una esigenza di stabilità del
Governo oppure va oltre.
MARCO BOATO. Vorrei ringraziare il
professor Guzzetta in quanto molte delle cose che lei ha detto non solo
sono di grande interesse, ma non trovano obiezioni da parte mia.
Vorrei da lei un approfondimento, in parte sugli stessi temi affrontati
dal collega Leoni precedentemente e, quindi, non tanto sulla questione
del Senato o sullo statuto delle opposizioni, quanto sulla forma di
Governo, che costituisce la parte che può apparire meno discutibile
rispetto alle altre, come lei stesso ha accennato nella sua
introduzione.
Oltre alle osservazioni del collega Leoni, che faccio mie, pongo
l'attenzione su quanto da lei affermato relativamente alla cosiddetta
norma antiribaltone, prevista dall'articolo 88, secondo comma, della
Costituzione. Come viene da lei interpretata e, dal suo punto di vista,
la ritiene adeguata? Infatti, qui ci troveremmo di fronte all'entrata in
carica di un nuovo Primo ministro attraverso una mozione sottoscritta -
non si sa dove né come - da una maggioranza dei componenti della Camera
che appartengono alla maggioranza eletta nelle elezioni, senza un
dibattito parlamentare, senza un voto di fiducia e senza un'approvazione
di questa mozione.
Mi pare che il secondo comma dell'articolo
88, dal punto di vista costituzionale, ferme le finalità condivisibili,
cosiddette antiribaltone, che condivido, costituisca un obbrobrio
giuridico e difficilmente immaginabile nella sua concreta attuazione.
Come interpreta il rapporto tra il secondo comma dell'articolo 88 è
quanto prevedono gli articoli 92 e 94 in materia di scioglimento?
SERGIO MATTARELLA. Tra i tanti argomenti
che lei ha trattato con estrema lucidità, ve n'è uno di fondo sul quale
vorrei porle una domanda per capire se ho bene inteso la sua
valutazione. La questione riguarda la posizione del Senato: in ogni
sistema di democrazia rappresentativa, da sempre ci si basa sul sistema
dei pesi e dei bilanciamenti. Mi pare che lei indichi nel sistema che ci
perviene dal Senato un sistema di Governo fondato non sul criterio dei
pesi e bilanciamenti, ma su due istituzioni (Governo e Senato)
incomunicabili se non attraverso una contrattazione che può superare i
contrasti che si possono realizzare. A differenza dal sistema dei pesi e
dei bilanciamenti non vi è una distribuzione di funzioni, così come si è
sempre fatto, ma una condizione in cui soltanto la contrattazione - come
ho già affermato - può risolvere i contrasti.
Vi è un altro aspetto, al quale lei ha
accennato, rispetto al quale vorrei una precisazione: il rapporto tra le
due Camere. In realtà, da quanto lei ha affermato - ma per la verità,
sembra così anche a me - emerge un disegno con una Camera ai limiti
dell'onnipotenza (ossia il Senato) e la Camera dei deputati
sostanzialmente recessiva e, nel disegno complessivo, marginale nel
concerto delle istituzioni.
Mi sembra che questo dato emerga dalla sua
esposizione e ne vorrei conferma.
MICHELE SAPONARA. Professore, vedo che
lei, nel dimostrare sensibilità nei confronti dell'opposizione, prevede
una parte dell'opposizione con diritti diversi; infatti, ha parlato di
una differenziazione qualitativa tra i poteri dell'opposizione e quelli
delle altre minoranze, pur sempre da salvaguardare, ma in misura
diversa. Vorrei un chiarimento su questo aspetto.
Mi riferisco a quanto affermava in precedenza l'onorevole Mattarella: in
sostanza, come si concilia l'accusa mossa a questo disegno di legge, che
vede un premier forte, con il diritto di veto che è stato
riconosciuto al Senato?
PRESIDENTE. Do la parola per la replica al
professor Guzzetta.
GIOVANNI GUZZETTA, Professore
straordinario di diritto pubblico presso la facoltà di sociologia
dell'Università di Trento. Per quanto riguarda il tema della
giustiziabilità, e quindi del sindacato della Corte costituzionale, io
certamente immagino la possibilità di un sindacato sulle violazioni di
tipo procedurale.
Sul problema del ricorso delle minoranze
contro le leggi, personalmente ho qualche perplessità in più; tuttavia
anche qui distinguerei tra il ricorso che riguarda i vizi formali delle
leggi, cioè i vizi determinati dal procedimento parlamentare (per il
quale secondo me l'opposizione ha pienamente titolo) e i vizi invece di
tipo sostanziale, sui quali, nel caso si volesse introdurre questo
sistema, bisognerebbe fare forse un lavoro di censimento. Ci sono
infatti vizi sostanziali che, in qualche modo, incidono sul ruolo
dell'opposizione e sul rispetto delle garanzie politiche (per esempio,
penso a tutte quelle leggi che rischiano di non trovare un giudice,
perché non c'è nessuno interessato alla loro impugnazione).
Viceversa, non sarei dell'idea di sottoscrivere la proposta che era
stata avanzata nella Commissione bicamerale scorsa, di attribuire
all'opposizione un ruolo di garanzia dei diritti fondamentali. Ho la
sensazione che quella dei diritti fondamentali sia una questione che non
necessariamente coincide con gli interessi dell'opposizione.
L'opposizione è pur sempre una parte, è pur sempre interessata alla
realizzazione, per così dire, di obiettivi politici di successo.
L'attribuzione di un ruolo di garante dei diritti fondamentali
all'opposizione, secondo me non è opportuno. Preferirei forse pensare a
modelli di ricorso diretto alla Corte costituzionale (con tutti problemi
che ciò comporta); ma, insomma, la tutela dei diritti fondamentali, la
sottrarrei alla competizione maggioranza-opposizione.
Un'altra domanda riguardava le garanzie e
l'organizzazione dell'opposizione. Vedo qui due profili, di cui il primo
riguarda una certa serie di norme di disciplina dell'opposizione che
dovrebbero essere indirizzate esattamente allo stesso scopo cui sono
finalizzate le norme che rafforzano il Governo e la maggioranza; si
tratta cioè di incentivare la coesione dell'opposizione, e quindi di
creare dei meccanismi di incentivo che garantiscano all'opposizione la
sua coesione.
Altre forme attribuzione di potere
dovrebbero invece muoversi in quella logica che cercavo di esprimere
prima, e cioè essere finalizzate a far sì che l'opposizione sia messa in
condizione di parlamentarizzare il conflitto politico, e quindi di avere
gli strumenti per reagire e predisporre delle controffensive rispetto al
Governo. Io ho cercato di enunciarne alcuni.
La mia convinzione (con questo rispondo forse anche un poco alla domanda
dell'onorevole Leoni) è la seguente: sono perfettamente d'accordo sul
fatto che la «deriva istituzionale» (peraltro non solo italiana) vada
nel senso di un rafforzamento del Governo al di fuori del circuito
parlamentare. Vi sono quindi regolamenti di delegificazione, decreti
delegati, decreti-legge e via dicendo. Questa è una tendenza generale,
che certamente assume forme parossistiche nel nostro ordinamento.
Il problema è che per contrastare questa
tendenza, e quindi per «riparlamentarizzare» in qualche misura il
conflitto politico, è necessario che il Parlamento diventi un organo
decisionale o maggiormente decisionale. È quindi necessario, ovviamente
nei limiti delle garanzie costituzionali, che al Governo e alla
maggioranza, qualunque essa sia, sia dato il potere di assumere
decisioni che passano attraverso il Parlamento.
Credo che ci sia un legame ineluttabile
tra queste due cose. Sono convinto che un rafforzamento decisionale del
Parlamento (che è la sede in cui per l'opposizione c'è l'enorme
vantaggio di essere rappresentata, a differenza di quanto non sia nel
Governo) potrebbe consentire anche una limitazione dei poteri del
Governo di tipo normativo esercitati al di fuori del circuito
parlamentare.
Le due cose però secondo me stanno insieme
e quindi la strada che mi sembra da perseguire mi sembra quella di un
rafforzamento parallelo di Governo e opposizione, con una distinzione di
ruoli assolutamente ineluttabile. Le fughe dal Parlamento hanno
rappresentato anche, rispetto alla storia italiana, una conseguenza
della difficoltà decisionale nel Parlamento.
C'è un secondo profilo che vorrei
sottolineare: la disciplina giuridica dei poteri del Parlamento ci
consente di evitare quei fenomeni, ancora una volta, di elusione
gravissima della Costituzione. Facevo cenno prima al fenomeno dei
maxiemendamenti sui quali si pone la questione di fiducia. Si tratta
sostanzialmente della introduzione nel sistema italiano del voto
bloccato presente nella Costituzione francese: il Governo impone un
testo interamente sostitutivo, pone la questione di fiducia e lo fa
approvare. Tutto ciò rende completamente rituale ed inutile tutta la
procedura parlamentare precedente, il sistema delle tre letture e via
dicendo. Basta che il Governo arrivi all'ultimo minuto, imponendo il suo
testo.
Allora, rispetto a questa riforma strisciante e giustificata dalla
ineluttabilità della esigenza decisionale, causata dalla cosiddetta
farraginosità (presunta o vera) delle procedure parlamentari, a mio
parere, è sempre meglio che questi fenomeni vengano fatti emergere a
livello costituzionale, perché questo costituisce già di per sé una
maggiore garanzia.
Questa è la mia opinione, ovviamente si
può poi discutere nel merito. In questo senso l'articolo 94 mi pare
riproduca sostanzialmente il modello della fiducia, ma su questo poi
tornerò.
CARLO TAORMINA. Siccome la domanda l'avevo
fatta io e non l'onorevole Leoni, volevo una risposta. Le avevo chiesto
indicazioni precise.
GIOVANNI GUZZETTA, Professore
straordinario di diritto pubblico presso la facoltà di sociologia
dell'Università di Trento. Certo, avevo solo fatto un collegamento
fra argomenti analoghi. Le indicazioni precise sono in parte insite in
ciò che ho detto: il problema è che il Governo deve essere messo in
condizione di poter far approvare le proprie proposte, ma queste
proposte devono essere in qualche modo chiare e definite con il massimo
anticipo possibile. In questo senso, per esempio, quella norma che
prevede che il Presidente del Consiglio si presenti in Parlamento ogni
anno per comunicare lo stato di attuazione del programma va in questa
direzione.
Forse bisognerebbe accentuarla negli
aspetti profuturo, nel senso che il Presidente del Consiglio dovrebbe
presentarsi non solo per dire quale sia lo stato di avanzamento del
programma, ma soprattutto che cosa vuole effettivamente fare, e dovrebbe
forse dirlo attraverso la presentazione di indicazioni programmatiche
molto dettagliate, consentendo così all'opposizione di poter
intervenire.
Per quanto riguarda la questione del
Senato, le tre proposte che ho fatto sono in parte alternative. Se il
Senato diviene una Camera effettivamente regionale, allora sì può
pensare ad una strutturazione delle sue competenze che vada in questa
direzione e che in una certa misura possa anche limitare l'indirizzo
politico nazionale del Governo. Ciò sarebbe fisiologico, se vogliamo che
in qualche misura le istanze locali vengano rappresentate: esse possono
collidere in parte con l'indirizzo politico nazionale, per cui un minimo
di frizione è previsto, anche negli ordinamenti federali. Se questa
fosse la logica, allora il ragionamento sarebbe diverso.
Siccome io parto dal presupposto che
questo Senato, così come di viene delineato, non sia un Senato federale,
allora a questo punto, che cos'è? È una camera politica, composta
diversamente, nella quale, anche per il meccanismo di non perfetta
coincidenza tra le legislature che si può determinare, sì può benissimo
creare una maggioranza politica diversa da quella del Governo. Basta che
la Camera sia sciolta anticipatamente e il Senato permanga nella sua
durata ordinaria, perché si creino degli sfalsamenti.
Se però entriamo nella logica di accettare che il Senato non sia una
Camera delle regioni, ma una Camera politica, allora qui delle due
l'una: o essa si inserisce nel circuito politico o se ne riducono le
competenze. Altrimenti, il potere di veto del Senato rischia di
diventare (in questo sono d'accordo, seppure senza estremizzare, con
quanto qui precedentemente sostenuto) una specie di cuneo nel buon
funzionamento del Governo.
Per quanto riguarda l'articolo 94, e il problema dello scioglimento,
risponderò raggruppando un poco le domande.
Per quanto riguarda lo scioglimento,
l'articolo 88, secondo comma, presenta un buon temperamento rispetto al
modello dello scioglimento puro, attribuito al Primo ministro.
La logica alla base di tale disegno è che le elezioni sono il momento in
cui si sanziona un collegamento tra una maggioranza e un premier.
Di fronte all'eventuale rottura di tale collegamento in Parlamento, gli
scenari sono due: o si ritorna immediatamente alle urne o si consente
che la maggioranza sostituisca il premier. È necessario, però,
perché rimanga il collegamento tra il momento elettorale e quello
rappresentativo, secondo lo schema maggioritario, che quella maggioranza
rimanga identica e che vi sia un punto di coerenza con il risultato
elettorale.
Sono d'accordo con l'onorevole Boato sul
fatto che la disciplina prevista al riguardo è formulata in modo
piuttosto sfuggente - e si potrà certamente intervenire per una
correzione - ma, a mio avviso, la scelta di fondo è senza dubbio
condivisibile.
MARCO BOATO. Professor Guzzetta, ho
precisato che ero d'accordo con lei sull'esigenza di cui questa norma si
faceva carico, ma dobbiamo riflettere sul fatto che si avrebbe la
sostituzione di un Primo ministro, e, quindi, anche dei membri del
Governo, attraverso un pezzo di carta su cui qualcuno ha apposto una
firma.
CARLO LEONI. Cosa avviene dopo che è stata
presentata la mozione?
MARCO BOATO. Il problema è proprio questo:
non c'è un dibattito e neanche un voto parlamentare, ma solo un pezzo di
carta, sul quale qualcuno ha messo una firma, che comporta il cambio del
Primo ministro e della composizione del Governo.
GIANCLAUDIO BRESSA. Il tutto poi avviene
con una procedura extraparlamentare, non essendovi alcuna definizione
parlamentare di maggioranza.
GIOVANNI GUZZETTA, Professore
straordinario di diritto pubblico della facoltà di sociologia presso
l'Università di Trento.
Sulla questione, a mio avviso, le
possibilità di miglioramento sono numerose ed è certamente evidente che
risulta necessaria una formalizzazione.
L'unico motivo per il quale può essere stato scelto questo sistema è che
si sia voluto realizzare un parallelismo rispetto all'inizio della
legislatura, nella quale non è previsto un voto di fiducia.
Per quanto attiene al Senato, ho già detto
che credo che la soluzione prevista possa determinare una soluzione di
conflittualità istituzionale molto forte, anche perché correremmo il
rischio di conflitti di attribuzione costanti di fronte alla Corte
costituzionale, competente a decidere sugli stessi in ultima istanza.
Inoltre, il livello di conflittualità è potenzialmente molto elevato
soprattutto nella misura in cui il Senato diviene il luogo in cui si può
realizzare quell'opposizione che, alla Camera dei deputati, non è
adeguatamente tutelata.
SERGIO MATTARELLA. La Corte diverrebbe
così la regolatrice della vita parlamentare.
GIOVANNI GUZZETTA, Professore
straordinario di diritto pubblico della facoltà di sociologia presso
l'Università di Trento. Il rischio è proprio questo. Circa il
discorso sollevato relativo ai pesi e ai contrappesi, nella mia
ricostruzione, ci sono due tipi di contrappesi: un contrappeso politico,
ed è il ruolo dell'opposizione, ed uno territoriale, che riguarda la
forma di governo; il primo dovrebbe essere realizzato nella Camera, il
secondo nel Senato, ma con una composizione radicalmente diversa.
Circa la domanda posta dall'onorevole
Saponara che atteneva alle altre minoranze, insisto sull'idea che
l'opposizione abbia uno statuto diverso dalle altre minoranze, proprio
perché essa è caratterizzata dall'essere, quantitativamente e
qualitativamente, il candidato più verosimile, realistico e attendibile
alla sostituzione del Governo in carica.
CARLO TAORMINA. Bertinotti non è d'accordo
su questo!
GIOVANNI GUZZETTA, Professore
straordinario di diritto pubblico della facoltà di sociologia presso
l'Università di Trento. È possibile che non lo sia, ma la cosa
ovviamente non mi riguarda. Le altre minoranze dovrebbero essere
garantite con poteri che riguardano intanto la propria posizione
parlamentare, ma nella logica che si avvicina - al riguardo, forse,
incontrerò qualche riserva da parte vostra - più al diritto di tribuna
che al diritto di esercitare poteri paralleli e dialettici rispetto a
quelli del Governo, il che significa anche incentivi differenziati
all'aggregazione. Sarebbe un capovolgimento della logica, ancora
attualmente presente, che la rappresentanza parlamentare sia governata
attraverso un criterio di proporzionalizzazione. A mio avviso,
l'opposizione non deve essere solo parlamentare, ma si tratterebbe di
un'istituzione costituzionale: ad un «Palazzo Chigi» del Governo,
dovrebbe affiancarsi un piccolo «Palazzo Chigi» dell'opposizione.
LEOPOLDO ELIA, Presidente emerito della
Corte costituzionale. Vorrei anzitutto ringraziare la Commissione
per questo invito, che mi onora e mi fa ritornare in aule che ho
frequentato nella XII legislatura.
Devo dire che la delicatezza dei problemi
che si affrontano in relazione a questo progetto di legge costituzionale
è enorme, perché già si comincia a parlare di Costituzione
«incostituzionale». Ciò denota una distinzione che, spesso, viene
trascurata: in sede di revisione costituzionale non si esercita un
potere costituente, ma si esercita, pur sempre, un potere costituito.
Il potere costituente, come fissazione dei
principi supremi dell'ordinamento, si è esaurito nel dicembre del 1947
e, quindi, il potere di revisione deve svolgersi nell'ambito di quei
principi allora fissati. Tra di essi, risultano quello che deriva dal
costituzionalismo moderno e contemporaneo che, più che alla separazione
dei poteri, tende alla non concentrazione di poteri in uno stesso organo
o nello stesso titolare, e il principio democratico che, come avveniva
in passato, impediva delegazioni di tipo totalitario integrale di poteri
agli oligarchi dei partiti, e che, oggi, se venisse approvata questa
legge, verrebbe violato, comportando una delega totalitaria,
probabilmente integrale, ad una sola persona.
Si dovrebbe evitare, in base a quei
principi supremi, che il popolo possa essere spossessato per cinque anni
dall'esercizio della sovranità popolare e che il principio
dell'esercizio (non della mera appartenenza), esplicato nell'articolo 49
della Costituzione che fa riferimento al concorso dei cittadini
attraverso i partiti alla determinazione della politica nazionale, sia
come sospeso per cinque anni.
Bisogna evitare che per cinque anni tutto
diventi esecuzione di ciò che è stato deciso nell'election day e
che il tempo scorra solo a vantaggio dei vincitori.
Invece, con questo testo tutto ciò non si evita perché esso è stato
costruito attraverso una combinazione tra istituti propri della
tradizione del Governo parlamentare (questione di fiducia, scioglimento
delle Camere) e le regole antiribaltone.
Le regole antiribaltone del simul
stabunt e del simul cadent realizzano automatismi
incompatibili con la forma di governo parlamentare, anche
razionalizzata.
Sembrava si fosse trovato un accordo anche con il relatore al Senato -
si veda un numero di Amministrazione civile, relativamente ad un
dibattito al quale ha partecipato anche il senatore D'Onofrio - sulla
non trasferibilità di queste regole antiribaltone dai livelli locali
(comunali, provinciali, regionali) al livello nazionale.
Ho sempre respinto come fuorviante il
motto Segni che vede nel premier il sindaco d'Italia e mi appare
fallace la similitudine che ha indotto in errore anche il titolare di
un'alta carica istituzionale, allorché ha proclamato che il sindaco di
Cernobbio aveva più poteri del Presidente del Consiglio dei ministri
italiano.
Perché questo equivoco? Perché si
sottovaluta un fatto fondamentale e cioè che nel Parlamento si mettono
in gioco questioni che non vengono minimamente sfiorate in sede di
consiglio comunale o regionale.
A livello nazionale si discute di cambiare
leggi che disciplinano diritti e libertà dei cittadini, indipendenza
della magistratura, pluralismo dell'informazione, meccanismi elettorali
e rapporti tra politica ed economia. Come è possibile che il Parlamento,
su questioni di questo genere, possa essere iugulato dalla strettoia
rappresentata, per esempio, dall'insieme voto bloccato e questione di
fiducia previsto dal questa normativa? Come è possibile che su temi di
questo genere il deputato sia costretto a scegliere tra una difesa di
quei diritti - e, quindi, la reiezione di alcune proposte - e lo
scioglimento della Camera? Questo non è possibile e denota un salto di
qualità tra quegli organismi consiliari di cui ho parlato prima e il
Parlamento nazionale. Nel Parlamento nazionale ciò che può valere, può
essere ancora tollerato in sede locale, non deve essere accettato.
In secondo luogo, vi è un problema di
affidabilità dei partiti. Malgrado si facciano richiami a Westminster,
si dimentica che i partiti parlamentari a Westminster sostengono
il premier, ma riescono anche a controllarlo.
Nel quotidiano Il Foglio si
sostiene che Eden, McMillan e la Thatcher caddero in base ad una
congiura di palazzo. Non si è trattato affatto di una congiura di
palazzo, ma di un emerso dissenso politico che ha avuto conseguenze
anche in altri sistemi.
Dopo la sconfitta di Suez è caduto non solo Eden in Inghilterra, ma
anche Mollet in Francia. Dove sono in Italia, in questo momento, quei
partiti parlamentari in grado di controllare seriamente gli esponenti
del potere esecutivo?
Quando l'amico Augusto Barbera mi obietta
che il premier non può sciogliere contro la propria maggioranza
perché, successivamente, non potrebbe essere ricandidato egli dimentica
che il polo italiano non è il partito del bipartitismo inglese. Infatti,
solo in quel caso un premier che riuscisse a sciogliere contro la
sua maggioranza non sarebbe ripresentato successivamente come leader.
In Italia, però, con due poli formati da più partiti, nulla toglie che
il premier, leader di un partito, possa sciogliere ed
essere ricandidato poiché, per esempio, nelle future elezioni potrebbe
sperare di guadagnare consensi anche a danno di alcuni alleati; quindi,
la situazione italiana è diversa e non dà gli affidamenti caratteristici
di altri paesi.
Infatti, bisogna riconoscere che in questi
altri paesi vi è una capacità dialettica che da noi, allo stato, manca
in entrambi gli schieramenti.
La Thatcher aveva vinto per tre volte le
elezioni eppure è stata sostituita. Il liberale Jean Cretien, Primo
ministro canadese, aveva vinto tre elezioni di seguito, eppure è stato
sostituito in corso di legislatura.
Quindi, questo accentramento come si
esprime? Si esprime innanzitutto con il fatto che il premier - in
base a questo testo - non è tanto il capo del governo, ma il governo
stesso. Infatti, salvo quell'accenno al programma di governo che
qualificherebbe certe norme relative ai principi fondamentali delle
leggi quadro che, se di attuazione del programma di Governo,
metterebbero la legislazione dal livello Senato (parola definitiva) a
quello bicamerale, per tutto il resto è solo il premier che
decide.
Egli decide tutto: lo scioglimento e la
posizione della questione di fiducia attraverso quel congegno infernale
che Sartori ha chiamato «bomba atomica» e consistente nel voto bloccato
unito alla questione di fiducia. Ciò, fa sì che il Consiglio dei
ministri - pur nominato - venga cancellato perché tutto è concentrato
come scelta politica, come decisione di rilievo politico-istituzionale
nel Presidente del Consiglio dei ministri.
Inoltre, il premier diventa direttamente legislatore attraverso
questo voto conforme alla sua proposta; non si tratta solo di una
priorità, ma anche di un voto bloccato.
Se non si accetta il testo del Primo ministro, si va alle elezioni.
Siamo vicinissimi, per quanto riguarda l'ordine dei lavori della Camera,
alla legge fascista del 1925.
Quindi, si ha una torsione della questione di fiducia del tutto
particolare. Prima la questione di fiducia aveva come risultato, ove non
fosse stata approvata dalla Camera, di far dimettere il Presidente del
consiglio mentre qui il risultato principale della reiezione è lo
scioglimento.
Le dimissioni del Presidente del Consiglio sono una conseguenza
secondaria. La conseguenza fondamentale della torsione che deriva dalla
questione di fiducia, di cui all'articolo 94, è qualche cosa di
completamente trascendente. Non sono le dimissioni dell'esecutivo che
vengono in luce, bensì lo scioglimento. Quindi, è completamente
sconvolta la situazione della vecchia questione di fiducia, la quale
comportava che se il Governo era battuto, come nel caso della Governo
Prodi, questo si dimetteva.
Qui, invece, la sconfitta del Governo Prodi avrebbe comportato,
immediatamente, lo scioglimento delle Camere. Ora, quando si dice, anche
nel documento approvato dai giuristi di Magna Carta, che alcune rigidità
potrebbero essere eliminate (anche nel libro che è stato distribuito si
accenna a rigidità) per lo scioglimento automatico anziché
semiautomatico (che deriva, per esempio, dall'approvazione di una
mozione di sfiducia che comporta lo scioglimento), si suggerisce di
togliere queste rigidità (anche il Presidente del Senato ha accennato a
questo fatto).
Tuttavia, il principio del simul...simul
sta proprio nelle rigidità! L'essenza del simul...simul è
l'automatismo, è l'impossibilità di valutare situazioni sopravvenute,
che possono avere il loro rilievo non solo in senso deteriore, come è
stato detto (il trasformismo di Bossi, di Mastella e così via).
Pensiamo, per esempio, a Churchill, il
quale abbandona il partito conservatore per passare al partito liberale
e poi, da questo ultimo, ripassare al partito conservatore. In altre
parole, ci possono essere dei passaggi, delle osservazioni, che
rispondono a valutazioni politiche profonde.
Con queste norme, noi non saremmo potuti passare, in periodo di guerra,
così come ha fatto, per esempio, la Gran Bretagna, da Chamberlain a
Churchill! Non avremmo potuto fare i Governi di unità nazionale!
Quello che abbiamo di fronte è un
vincolismo, un automatismo che, coniugato con il principio della
personalizzazione del potere, dà luogo ad una situazione in cui, poi sul
piano pratico, il premier, può esercitare una forte dose di
deterrenza nei confronti della maggioranza e del suo gruppo. Tuttavia,
non si deve dimenticare anche la reversibilità della deterrenza! La
deterrenza, infatti, con la minaccia dello scioglimento, può essere
esercitata non solo dal Presidente del Consiglio nei confronti della sua
maggioranza ma anche da un piccolissimo gruppo di questa che ricatti il
Primo ministro, per esempio, avvertendolo che, in caso nel caso
rifiutasse di procedere a fare quello che gli si chiede, adottando,
magari, una riforma piuttosto di un'altra, prendendo una decisione al
posto di un'altra, potrebbe, da una parte, impedire che si abbia un
nuovo Presidente del Consiglio dalla stessa maggioranza e dall'altra,
passare all'opposizione, determinando lo scioglimento della Camera
medesima.
Quindi, questa piccola minoranza potrebbe
avere lo stesso potere di deterrenza che ha il Primo ministro. Ci
sarebbe, allora, un rovesciamento che non va sottovalutato.
Si evocano ora, contro queste critiche, il progetto Salvi, il testo A
alla bicamerale. Si tratta di un richiamo fuori posto perché se il testo
Salvi prevedeva, da un lato, un potere del Presidente del Consiglio di
scioglimento, come in Spagna, dall'altro, si prevedeva anche la
possibilità, una volta che questo scioglimento fosse stato deciso, entro
un certo numero di giorni, di impedire tale scioglimento, il quale
recedeva di fronte ad una proposta di maggioranza di sfiducia
costruttiva che fosse stata accolta dalla maggioranza della Camera (alla
tedesca).
Quindi, il testo A di Salvi non c'entra e
non c'entra neppure l'ordine del giorno da me fatto approvare in Senato
il 16 gennaio del 2001, in cui chiedevo che il Presidente del Consiglio
«emergesse» dalla stessa consultazione elettorale da cui promanava la
maggioranza, perché questa era soltanto e semplicemente una ripulsa del
sistema israeliano (o francese per quanto riguarda il Presidente della
Repubblica), cioè, del sistema di fare emergere, in due elezioni
separate, il vertice dell'esecutivo e la sua maggioranza. Quindi, non
c'entra nulla con le critiche che muoviamo a questo testo!
Nello stesso programma Prodi, dove c'era
chiaramente la volontà di non avallare mutamenti di maggioranza nel
corso della legislatura, ci si rimetteva non ad una norma giuridica,
bensì ad una convenzione. Si auspicava una convenzione, che è un accordo
politico, per evitare questi ribaltoni! Quindi, né in Germania, né in
Spagna, né in Svezia, né in Israele o in Francia, c'è un sistema a
tenuta stagna, senza interstizi di sorta, come questo che si verrebbe a
creare in Italia! Non c'è in Israele, dove, appunto, come ho già
ricordato, in caso di dimissioni singole, c'era la special election,
che poi è stata eliminata con tutto il resto di un sistema che non
poteva funzionare (o che si è ritenuto non potesse funzionare bene)
circa due anni fa.
Tuttavia, in Israele c'era la special
election e se il Presidente del Consiglio si dimetteva
volontariamente, non era sciolta anche la Knesset, che rimaneva, e si
teneva un'elezione speciale per un nuovo Presidente del Consiglio. Così,
pure in Francia dove, a parte la possibilità di coabitazione, vi è,
perlomeno, la via d'uscita inventata da Giscard D'estaing nel 1974, per
cui una minoranza può invocare, contro leggi ritenute incostituzionali,
l'intervento immediato del Conseil Constitutionel (soluzione che
manca totalmente da noi).
Tutto questo, ha dei riflessi molto forti sugli altri organi
costituzionali. Un potenziamento del Primo ministro così violento,
incide, naturalmente, anche sui poteri del Presidente della Repubblica
e, molto indirettamente, anche su quelli della stessa Corte
costituzionale, laddove si proceda, attraverso modifiche della sua
composizione, ad un aumento del tasso di politicizzazione in un organo
di giustizia costituzionale.
Ora, per quel che riguarda il presidente
della Repubblica, il punto da confutare è anche di tipo storico. C'è una
vulgata, legata alla presidenza Scalfaro, che non ha un
fondamento storicamente attendibile, perché il cosiddetto ribaltone, di
cui sarebbe stato complice Scalfaro, in realtà era stato preceduto da
una situazione in cui il primo Governo Berlusconi non aveva la
maggioranza in Senato già in partenza. È stato per un fenomeno di
flessibilità che alcuni senatori del partito popolare hanno votato a
favore del Governo Berlusconi. La situazione di «ribaltonismo» semmai
era cominciata in Senato, ma dopo lo scioglimento del 1994, è
determinato da leggi elettorali nuove.
In tutti i manuali di diritto
costituzionale, a cominciare da quello di Mortati, troveremo questa
giustificazione circa lo scioglimento delle camere. Né c'è stato un
diniego di scioglimento, a proposito di Prodi, nel 1998, perché Prodi ha
partecipato alla riunione dei capigruppo e ha acconsentito alla
designazione di D'Alema. Nessuno ha chiesto a Scalfaro lo scioglimento,
dopo il voto di ottobre del 1998.
Secondo me il problema è malposto, quando
si invocano precedenti che non hanno reale consistenza. L'unica cosa per
cui si può discutere veramente è se lo scioglimento Einaudi del 1953
avesse determinato una deformazione, in senso presidenzialista, del
potere di scioglimento. Ma, per evitare la deformazione presidenzialista,
basterebbe dire che lo scioglimento può essere proposto dal primo
ministro e può essere accettato dal Presidente della Repubblica, in base
a valutazioni che sono di estrema delicatezza circa la normale
conservazione della maggioranza voluta dalle ultime elezioni, ma circa
anche la possibilità che nel frattempo siano avvenuti fatti talmente
gravi da poter giustificare una mozione di sfiducia costruttiva, che non
sia vincolata alla partecipazione degli stessi membri di una maggioranza
che non si sa bene come figurerebbe in Parlamento, poiché mancherebbe il
voto iniziale di fiducia, con la conseguente violazione dell'articolo 67
della Costituzione circa la rappresentanza e la libertà da ogni mandato.
Il problema è quale contrappeso ci può
essere per questo potere sterminato del premier. Il Senato è un
punto interrogativo: questo Senato federale può costituire un freno ma
può anche non esserlo, perché, a prescindere dal sistema elettorale, che
non è più chiamato «proporzionale» nella legge costituzionale approvata
dal Senato, anche nel caso in cui si applicasse un sistema
proporzionale, come quello di tipo spagnolo, per l'elezione di duecento
senatori (ricordiamo che il numero dei senatori elettivi dovrebbe
scendere a duecento), si darebbe luogo a risultati maggioritari, per cui
avremmo una Camera dei senatori specchio della Camera dei Deputati e non
si avrebbe in questo caso alcuna garanzia.
I poteri del Presidente della Repubblica sono compensi o pericolosi doni
avvelenati, come quello di stabilire l'interesse nazionale sulle leggi
regionali, o poteri pericolosi, come quello sulla grazia, che
impedirebbe al Parlamento di discutere della concessione di grazie anche
se di natura politica (Moranino, terroristi alto-atesini). Il potere di
nomina di alte autorità da parte del Presidente della Repubblica, se
questa dovesse risolversi nella nomina di un presidente di garanzia,
come nel caso della ex presidente della RAI, rischia di tradursi in un
potere molto modesto.
Anch'io mi preoccupo della stabilità, pur
sapendo che essa, se deve accoppiarsi alla efficienza di governo, esige
insostituibili capacità di leadership politiche. La sfiducia
costruttiva, anche nel rispetto dell'articolo 67 della Costituzione, è
un'arma non trascurabile. Il primo governo Berlusconi non sarebbe caduto
se D'Alema, Buttiglione e Bossi avessero loro dovuto designare il nuovo
premier, né sarebbe caduto il governo Prodi, se coloro che hanno
votato contro avessero dovuto designare un nuovo presidente del
Consiglio.
Non va quindi affatto sottovalutata la capacità della sfiducia
costruttiva, che in Germania ha funzionato benissimo come deterrente,
tant'è vero che abbiamo un solo caso, quello del governo Kohl del 1982,
in cui la fiducia costruttiva ha funzionato.
Anche lo scioglimento, come atto
duumvirale, come lo aveva individuato Mortati, è un provvedimento che,
esigendo il concorso sia della volontà del premier che del
Presidente della Repubblica, offre elementi di garanzia per arrivare a
quello che manca oggi, ossia un equilibrio complessivo nel sistema.
Si può cambiare forma di governo, ma se si
accetta la separazione di poteri di tipo americano, o il sistema
elvetico, con garanzia di durata dell'esecutivo: sono sistemi diversi
che hanno un loro equilibrio.
Questo è un sistema che non ha equilibrio,
che trascura il fatto che il famoso ordine del giorno Perassi, che
tendeva a contenere le degenerazioni del parlamentarismo e a
stabilizzare l'esecutivo è ormai un voto in gran parte adempiuto, con la
legge elettorale, con i regolamenti parlamentari che impediscono
l'ostruzionismo e scandiscono i lavori parlamentari attraverso il
contingentamento.
Quindi, non si vede perché si voglia
contraddire quello che è stato detto da personaggi così diversi: Bobbio,
Dossetti, Ciampi, tutti hanno detto che la Costituzione su questo punto
avrebbe bisogno di qualche ritocco e non di un capovolgimento così
radicale come quello che ci viene presentato. A disposizione del
premier viene messo a disposizione un arsenale pericoloso,
soprattutto nel complesso dei congegni che gli vengono offerti e la cosa
peggiore è la modifica dell'articolo 138 della Costituzione, che
realizza un paradosso incomparabile. Se c'è stato dissenso
nell'approvazione di una revisione costituzionale, tanto che non si sono
raggiunti i due terzi della maggioranza qualificata, allora si vuole un
quorum particolarmente elevato per il referendum oppositivo,
mentre se si raggiungono i due terzi in sede parlamentare, allora basta
qualsiasi quorum per approvare il progetto di revisione.
Ciò dovrebbe rendere ancora più attenti.
Si chiede una legittimazione reciproca
delle forze politiche; ma la legittimazione reciproca non si proclama.
Si consegue, e non con le esortazioni, sibbene con i fatti: la qualità
liberaldemocratica di questa riforma diventerà il test principale
delle possibilità di reciproca legittimazione tra le forze politiche.
PRESIDENTE. La ringrazio, professore Elia,
per la sua relazione. Chiedo ai colleghi se desiderino intervenire.
MICHELE SAPONARA. Signor presidente,
desidero ringraziare il professore Elia per la sua esposizione;
personalmente, non sono un costituzionalista e non ho l'autorità morale
del professore. Possiedo, però, un po' di memoria e ritengo che
l'impianto alla nostra attenzione non meriti il pessimismo di cui è
pervasa la relazione del professore, nella quale si contiene quasi un
rifiuto del nuovo. Ricordo, in proposito, la cosiddetta «legge truffa»,
il maggioritario, i lavori dell'ultima Bicamerale ed il progetto Salvi,
la riforma del titolo V della Costituzione. Quindi, si tratta di una
riforma che è conseguente a tutto ciò e alla quale noi dobbiamo
procedere; chiaramente, essa dovrà essere la più decorosa possibile.
Quindi, comprendo i timori espressi.
Lei, professore, sostiene che il
premier avrebbe troppi poteri. Ebbene, poc'anzi, in una precedente
audizione, si è asserito che il Senato della Repubblica, il Senato
federale, così come congegnato dalla riforma, dovrebbe costituire un
freno - sino, addirittura, a bloccarle con potere di un veto - alle
velleità del Presidente del Consiglio e della maggioranza. Al riguardo,
pongo una domanda semplice e concreta. L'articolo 88 della Costituzione,
secondo comma, verrebbe così riscritto dalla riforma: «Il Presidente
della Repubblica non emana il decreto di scioglimento richiesto dal
Primo ministro nel caso in cui, entro dieci giorni da tale richiesta,
venga presentata alla Camera dei deputati una mozione, sottoscritta dai
deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero
non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera nella quale
si dichiari di voler continuare nell'attuazione del programma e si
indichi il nome di un nuovo Primo ministro». Le chiedo, professore Elia,
se tale norma non sia importante e, quindi, non valga a bloccare la
«tirannia» del premier.
CARLO TAORMINA. Signor presidente, anch'io
ringrazio il professore Elia, del quale tutti, in maniera diretta o
indiretta, siamo stati allievi; pertanto, non possiamo prescindere dal
suo importante intervento. Al di là delle preferenze che ciascuno di noi
può avere per un assetto piuttosto che per un altro, evidentemente anche
quello apprestato dal testo in esame -i cui contenuti possono essere più
o meno condivisi - va considerato un modello. Naturalmente, tutto è
perfettibile e le indicazioni fornite devono essere tenute in altissima
considerazione.
Dunque, pur prendendo atto dell'esigenza di contenere i tempi dei nostri
interventi, vorrei fare una osservazione considerando il tema in esame
sotto un diverso profilo. Certamente, il nostro è un sistema politico
caratterizzato non dal bipartitismo ma dal bipolarismo; peraltro, non va
dimenticato che anche il bipartitismo al quale talvolta si fa
riferimento parlando del caso inglese conosce non pochi temperamenti. Un
elemento che unifica bipartitismo e bipolarismo è dato dal fatto che le
campagne elettorali tra i due schieramenti si fanno sulla base dei
programmi; programmi elettorali ai quali l'elettorato manifesta il suo
dissenso o il suo consenso e rispetto ai quali si pone, poi, l'esigenza
di darvi attuazione. Un'attuazione che deve essere puntuale e che, salvo
l'intervento, in corso d'opera, di forti ragioni di modificazione, non
può consentire alcuna deroga. Ragionevolmente, perché si verifichino
contrapposizioni o difficoltà tali da determinare lo scioglimento delle
Camere - anzi, della Camera -, esse dovrebbero riguardare elementi
qualificanti del programma ed impedire, dunque, che esso possa trovare
attuazione.
Detto ciò, vengo al tema del cosiddetto
ribaltone; non si tratta soltanto di episodi interni al Parlamento
rispetto a precise contingenze (affrontate, vorrei dire, senza il dovuto
senso di responsabilità). Piuttosto, evitare il verificarsi di episodi
del genere è la proiezione dell'impegno che si è contratto con
l'elettorato rispetto al programma elettorale. A mio sommesso avviso,
ciò non è di secondaria importanza.
Ebbene, tenuto conto di quanto già
riferito - da lei anzitutto, a proposito, ad esempio, del pericolo
insito nella doppia circostanza di un Presidente del Consiglio che può
sciogliere la Camera e di una maggioranza che può opporsi al suo leader
-; tenuto, altresì, conto del potere di veto del Senato federale (cui,
pure, lei ha fatto riferimento); tenuto, infine, conto di quest'ultimo e
di altri accorgimenti che potrebbero essere apportati - e se fosse
possibile fornirci qualche suggerimento in proposito, la Commissione le
sarebbe senz'altro molto grata -, non le sembra, professore, che la
logica sottesa a questo disegno di legge sia l'indefettibilità della
realizzazione del programma elettorale rispetto al patto stipulato con
gli elettori? Potrà essere anche un'ipertrofia ciò che si celebra
attraverso questo disegno di legge, ma non pensa che quella testé
indicata possa essere la ragione vera piuttosto che la ricerca di poteri
fortissimi quali quelli da lei evocati, addirittura ricordando
l'esperienza fascista?
GIANCLAUDIO BRESSA. Signor presidente, non
mi sento in condizioni di fare domande al professore Elia sulla
questione della forma di Governo perché condivido interamente l'analisi
da lui svolta, che assolutamente non considero, come ha detto il collega
Saponara, un rifiuto del nuovo; mi sembra piuttosto un rifiuto
dell'avventura di un modello squilibrato quale quello che, a mio modo di
vedere, il professore ha, in maniera molto puntuale e lucida, descritto.
Invece, vorrei rivolgere una domanda su
una questione molto marginale - che il professore solo incidentalmente
ha affrontato - e che però ritorna spesso nelle nostre audizioni. Il
presidente Elia ha fatto riferimento alla cosiddetta «norma Giscard»
introdotta nel 1974 per consentire nuove forme di ricorso al Consiglio
costituzionale. Ebbene, lei ritiene che questo tipo di opposizione
dinanzi alla Corte debba avvenire solo per le lesioni procedimentali e
procedurali nel rapporto tra maggioranza e minoranza o che possa anche
avvenire per questioni di merito costituzionale inerenti alle leggi che
vengono proposte e approvate?
PRESIDENTE. Non essendoci altre domande,
do la parola al professor Elia per la replica.
LEOPOLDO ELIA, Presidente emerito della
Corte costituzionale. Risponderò dapprima all'onorevole Saponara,
chiarendo che certamente non vi è, da parte mia, un rifiuto del nuovo;
ritengo, anzi, che alcune norme della legge n. 400 del 1988 andrebbero
canonizzate in Costituzione per non lasciarle esposte a modifiche con
legge ordinaria e per opporsi ai fenomeni di decostituzionalizzazione
che continuamente si presentano.
Quindi, in coerenza con quanto abbiamo
sostenuto, vi sono alcuni aspetti relativi al potere esecutivo che
meritano di essere riveduti. Ma per quello che riguarda lo specifico
articolo 88, ed il potere di scioglimento della Camera, affermo di non
essere d'accordo con la restrizione della mozione di sfiducia
costruttiva ai deputati che siano espressione della maggioranza
vincitrice. Prima di tutto perché dubito che questa ipotesi sia in
armonia con l'articolo 67 della Costituzione (si potrebbe obiettare che
si tratta di un motivo ancora formale, considerato che in regime di
partitocrazia questa regola ha subito molte attenuazioni) ma anche, e
soprattutto perché quella norma promuove l'onnipotenza, oltre che del
premier - quando funziona - anche di piccoli gruppi che sarebbero in
grado poi di ricattare la maggioranza ed il premier stesso. A chi mi
obietta che l'ipotesi di una riserva di sfiducia costruttiva all'interno
dello schieramento fiduciario iniziale, esiste anche nella bozza Amato
semplicemente rispondo che tale bozza non mi soddisfa.
Alle osservazioni dell'onorevole Taormina rispondo che certamente do
atto delle intenzioni; quelle che hanno guidato almeno alcune di queste
proposte, sono buone intenzioni ma la loro realizzazione non mi
garantisce. Ossia la loro realizzazione non garantisce quel tanto di
flessibilità che è propria della forma di Governo parlamentare, che
naturalmente dispone di sue sanzioni interne, come si è visto nel caso
Thatcher e nel caso MacMillan, ma anche in Germania dove, non
dimentichiamolo, Adenauer è stato sostituito in corso di legislatura, da
Erhardt e quest'ultimo, a sua volta, è stato sostituito da Kiesinger.
È quindi necessario un certo grado di flessibilità, che era stato
escluso - peraltro in forme quasi grottesche - quando si è legiferato in
sede costituzionale per le regioni, quando anche l'impedimento
permanente, anche la morte del presidente della giunta regionale
costringeva nuovamente al ricorso agli elettori. Per fortuna ora ciò lo
si vuole evitare con una norma ad hoc.
Quindi la mia critica esige una precisazione, ed è una critica positiva
nei confronti di alcune intenzioni, come il voler conservare in linea di
massima la maggioranza che si è creata, salvo possibilità di
integrazioni o sostituzioni minime, come può avvenire in corso di
legislatura. Su tale evenienza però il giudizio migliore, il più
obiettivo, lo può fornire il Presidente della Repubblica, congiuntamente
con il Primo Ministro. Ma alle buone intenzioni si è contrapposta un
realizzazione secondo una meccanica distorsiva, che dà luogo ad un
«corsetto» talmente costrittivo da riuscire asfissiante.
All'onorevole Bressa dico che gran parte della mia risposta dipende dal
quadro generale. Il sistema delle garanzie viene, purtroppo, del tutto
trascurato in quanto il rinvio ai regolamenti parlamentari non
garantisce nulla; non c'è nemmeno la possibilità di ricorrere alla Corte
costituzionale su questioni come i «seggi fantasma» o questioni
similari. Ma se il sistema rimane così poco garantito, anche per colpa
del centro sinistra (che nella scorsa legislatura ha mancato al dovere
di creare questo sistema di garanzie) e se rimane questo deserto di
garanzie, allora io sono pienamente favorevole alla riforma Giscard,
alla possibilità cioè di investire la Corte non solo di vizi relativi al
procedimento legislativo ma anche di vizi relativi alla sostanza della
Costituzione.
In tutto ciò vi è un interesse generale o
meglio, ci sarebbe un interesse generale nello stabilire queste
garanzie, perché la ruota gira, o può girare. È allora bene che queste
garanzie ci siano per tutti, contribuendo a quella reciproca
legittimazione di tutte le forze politiche, da me auspicata.
FRANCESCO PIZZETTI, Professore
ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Torino. Ringrazio la Commissione per avere avuto
l'onore di essere stato invitato a questa audizione. Dico subito che mi
iscrivo al gruppo di coloro che ritengono necessarie ulteriori riforme
costituzionali per mettere in asse la nostra Costituzione con i
mutamenti che già sono intervenuti nello scorso decennio, vuoi sul
sistema politico, attraverso le riforme elettorali, vuoi sulla forma di
Stato, attraverso le stesse modifiche costituzionali introdotte con le
leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001.
Dico anche, però, che ritengo il disegno di legge in questione, sotto
molti profili, un testo che non risolve i problemi che abbiamo di
fronte, anche perché è tecnicamente confuso in quanto molte norme sono
incoerenti fra loro, lasciando dubbi rilevanti. Ad esempio, non è mai
chiaro se le mozioni vengano votate o meno, non è neanche chiaro se il
primo ministro sia tenuto a dimettersi nel caso in cui la sua proposta
sia respinta dalla Camera dei deputati e se sia tenuto a chiederne lo
scioglimento; questo aspetto, tutt'altro che secondario, rimane
equivoco. Trovo il disegno di legge in parte anche contraddittorio,
perché da una parte mira dichiaratamente a rafforzare il Governo, ma
dall'altra costruisce un Senato così forte e carico di poteri in un
ampio spettro di materie da indebolire oggettivamente l'indirizzo del
Governo, che in questa Camera, anche in materie che non sono
specificamente legate alla dialettica centro-periferia, si trova
costretto a ricercare il consenso di una Camera rispetto alla quale non
ha alcun potere di indirizzo.
Il testo appare anche un po' arretrato,
perché incentra tutto il rafforzamento del Governo sul potere del Primo
ministro verso il legislatore, ma non costruisce alcuna nuova forma di
governance. Anche il rapporto con le regioni è interamente
risolto all'interno del Senato, che ha poi una struttura di raccordo con
le medesime molto debole, così debole e pallida che, in certi momenti
strategici, deve registrare l'ingresso diretto dei presidenti delle
regioni nell'aula del Senato quando, ad esempio, si tratta di nominare i
giudici della Corte Costituzionale o membri del CSM. È una forma di
Stato tutta incentrata su uno dei due rami del Parlamento, in cui non vi
è alcuna istituzionalizzazione di forme di governance corrette,
nessuna costituzionalizzazione di forme già conosciute nel nostro
ordinamento, come il sistema delle conferenze. Ricordo che l'onorevole
Bressa, anche oggi presente, presentò, durante i lavori della
Commissione bicamerale presieduta dall'onorevole D'Alema, una proposta
di istituzionalizzazione delle conferenze come forma di raccordo fra i
governi, coerente con l'obiettivo di cercare un equilibrio rispettoso
anche del rafforzamento del Governo centrale e di quelli periferici.
Una parte di questa riforma, che io pregiudizialmente apprezzerei, è
parzialmente razionalizzatrice in quanto tenta di migliorare alcune
parti del Titolo V. Tuttavia di tratta di una razionalizzazione poco
comprensibili. Si tolgono gli obblighi internazionali come vincolo per i
legislatori, una conquista della riforma del 2001, senza che se ne
comprenda la ragione, anche se si lasciano per fortuna gli obblighi
comunitari; non si razionalizza neanche il contributo importante fornito
dalla cosiddetta legge La Loggia, quando ha cercato di individuare le
forme di partecipazione delle regioni al processo europeo, che
nell'attuale articolo 117 della Costituzione è accennato ma non
strutturato.
Si parla di una sedicente intesa che sarebbe possibile richiedere con le
regioni a statuto speciale nel procedimento di approvazione degli
statuti, ma poi non si comprende con quali modalità dovrebbe avvenire e
quali effetti dovrebbe avere. Si stabilisce che debba avvenire entro sei
mesi dall'avvio del procedimento; qualora non avvenga, si procede
ugualmente, quindi deve intervenire dopo la presentazione del progetto
di legge, tutt'altra cosa dall'unica intesa di cui abbiamo
consapevolezza, quella con le confessioni religiose prevista
dall'articolo 8 della Costituzione, da attuare prima della presentazione
del disegno di legge in Parlamento.
Vi è dunque una serie di perplessità che
mi inducono ad affermare che questo testo, oggettivamente, è fortemente
carente e sostanzialmente insoddisfacente. Tuttavia, per valutare meglio
queste riflessioni è utile che io chiarisca perché ritengo che ulteriori
modifiche costituzionali siano importanti.
Ritengo che i fenomeni che si sono
sviluppati nel decennio che è ormai alle nostre spalle abbiano già
modificato il nostro sistema costituzionale. Vi è stata una modifica
formale, attraverso le due leggi costituzionali che richiamavo prima; in
altra misura, attraverso i referendum degli anni novanta che hanno
registrato una spinta popolare alla modifica della forma di Governo.
Quale è stata la grande richiesta che ha portato al cambiamento del
sistema politico? Non soltanto quella di fornire stabilità al Governo,
non solo quella di garantire all'Esecutivo ed al suo leader una
capacità di governo più strutturata, ma soprattutto quella di concedere
agli elettori il diritto di scegliere chi li deve governare. Ciò è
avvenuto attraverso leggi elettorali che hanno spinto verso un sistema
bipolare. Proprio perché la vera domanda riguardava il diritto degli
elettori di scegliere chi deve governare, il sistema si è strutturato
nei fatti attraverso un processo che vede ormai da due legislature
coalizioni contrapposte che definiscono un leader, una coalizione
di supporto ed un programma di governo. Su tutti e tre questi aspetti
viene chiesto un voto agli elettori.
Allora, io credo che si debba strutturare un sistema che fornisca la
garanzia che qualora si rompa l'accordo fra il leader e la sua
maggioranza sia possibile ridare all'elettore il diritto di parola, ma
che garantisca anche che se la maggioranza coesa, in nome del programma
su cui ha ricevuto la fiducia dell'elettore, ritiene di cambiare il
leader lo possa fare. Quindi, io credo che occorra un sistema
armonico che non dia al leader il potere di controllo della
maggioranza e non dia alla maggioranza il potere di cambiare il
leader cambiando se stessa, quindi non dia la possibilità di uno
sfaldamento della maggioranza e di una continuazione della capacità di
governo. Sono favorevole a norme che chiariscano non lo strapotere del
leader sulla sua maggioranza, ma la sua capacità di registrare se
la propria maggioranza è coesa sulla proposta di governo, coerente con
il programma di governo e, contemporaneamente, diano alla maggioranza
stessa la possibilità di cambiare leader se questo non è più in
grado di interpretarne la volontà, purché essa rimanga coesa e fedele al
programma contratto con gli elettori.
La critica che ha svolto il professor Elia
mi pare, per certi versi, ancora legata ad un'idea troppo incentrata
sulla sovranità del Parlamento ma, per altri versi, perfettamente
condivisibile. Occorre fare chiarezza. Cos'è il potere del leader
nel 1994? Il leader mette in gioco se stesso? Se la maggioranza
respinge la sua proposta, è obbligato a dimettersi? È possibile per la
maggioranza che ha stipulato il patto con gli elettori, purché rimanga
tale, cambiare il leader? Tutto ciò non è chiaro, tant'è vero che
si continua ad usare il termine mozione di sfiducia, come se si dovesse
rimuovere il Primo ministro come salvaguardia. Viceversa, dovrebbero
essere previsti meccanismi in cui la maggioranza, nel momento stesso in
cui non approva la proposta del leader, possa tranquillamente
continuare ad attuare il suo programma di governo, modificando e
individuando un diverso premier nel quale riconoscersi.
In ogni caso, è troppo e troppo poco ciò
che è contenuto nel testo: è troppo perché non è chiaro il rapporto fra
il leader, la maggioranza e il programma e come tutti e tre si
raccordano con gli elettori, che sono i detentori della legittimazione
dell'Esecutivo a governare; è troppo poco perché manca ogni altro
strumento effettivo di governo. Tutto è giocato sul potere di ottenere
il consenso della propria maggioranza in aula, in una sola delle due; in
questo caso, c'è veramente molto da lavorare.
Per quanto riguarda la forma di Stato, si assiste ad un'ipertrofia del
Senato, accompagnata ad un suo debole raccordo con il sistema delle
regioni e delle autonomie locali. Il fatto che i senatori siano eletti
contestualmente ai consigli regionali assicura troppo poco, tanto più in
un contesto in cui, da un lato, si passa ad un Senato federale e,
dall'altro, si continua a dire che tutti i parlamentari - quindi anche i
senatori - non hanno un vincolo di mandato e rappresentano la Nazione e
la Repubblica.
Allora, si tratta di capire quale sia la
coerenza di un sistema così schizofrenico, in cui i senatori dovrebbero
tutelare il sistema dei soggetti periferici, senza però avere con essi
alcun vincolo, e sono, invece, allo stesso momento, come i deputati,
rappresentanti della Nazione e della Repubblica e rispondono senza
vincolo di mandato.
Anche i collegamenti tra il Senato e le
regioni sono troppo deboli (i presidenti possono essere sempre sentiti
dal Senato, i senatori, sempre se lo chiedono, possono essere sentiti
dal consiglio regionale della regione in cui sono stati eletti). Fra
l'altro, la norma attuale ha anche una strana formula, per cui i
senatori possono essere sentiti nei consigli regionali della regione in
cui sono stati eletti: prego almeno la Camera di correggere questa
evidente svista lessicale del testo.
Credo che si debbano meglio definire i
poteri reali del Senato, i suoi vincoli rispetto alle assemblee
regionali e ai governi locali, nonché i rapporti - tutti da costruire
perché in questo testo non si riscontrano - che assicurano il raccordo
fra il Governo centrale e i governi regionali. In questo modo si darebbe
al Governo centrale il potere effettivo di garantire al proprio
elettorato il perseguimento del programma di governo anche nel rapporto
con il sistema delle regioni e nel rispetto della loro autonomia e delle
differenti competenze.
Questo testo solleva altri dubbi. Le riforme che sono intervenute, di
fatto e di diritto, in questi anni, proprio perché incentrano tutta la
legittimazione del sistema sul rapporto con l'elettorato e non più solo
con il Parlamento, obbligano a dare un ruolo - di cui nel testo non c'è
traccia sufficiente - alle minoranze e all'opposizione. Infatti,
anch'esse sono espressione dell'elettorato e, quindi, ad un
rafforzamento della maggioranza scelta dall'elettorato deve
accompagnarsi un rafforzamento delle opposizioni, anch'esse conseguenza
delle scelte dell'elettorato. Queste ultime sono opposizioni nel paese
prima ancora di esserlo nel Parlamento e devono vedersi garantito un
proprio ruolo in quanto pezzo del sistema democratico, importante tanto
quanto la valorizzazione della maggioranza, di cui qui non c'è traccia.
Non si può lasciare al solo regolamento
della Camera, come se fosse un fatto solo parlamentare, definire i ruoli
delle opposizioni e al solo regolamento del Senato definire - tra
l'altro non è neanche chiaro quali e cosa siano le opposizioni in Senato
- le garanzie dell'opposizione. Se dobbiamo costruire la vera
razionalizzazione della democrazia governante dobbiamo farci carico di
questo problema, risolto il quale le critiche del professore Elia sono
assolutamente condivisibili, così come sono condivisibili le
osservazioni riguardanti l'esigenza di chiarire il rapporto tra il
leader, la maggioranza e l'elettorato. Inoltre, in un sistema
corretto di democrazia governante i diritti del pluralismo e del
confronto democratico devono trovare uno status costituzionale
maggiormente definito; questo è uno degli aspetti dei diritti
dell'opposizione ma non l'unico, perché la stessa maggioranza deve avere
il diritto garantito di poter dialogare con il proprio elettorato, così
come l'opposizione.
È evidente a tutti che il sistema delle
comunicazioni e il ricorso ai media devono trovare una garanzia
costituzionale nell'interesse degli elettori, delle regole del gioco e
della dialettica maggioranza-opposizione in Parlamento, di cui qui non
c'è traccia.
Infine, in questo contesto il sistema delle garanzie, fondamentale, non
è risolto, anzi per certi versi è reso ancora più complesso. In un
sistema di forte decentramento - quindi, in una struttura di carattere
federale - è necessario dare garanzie serie di funzionamento sia nei
rapporti centro-periferia sia in quelli maggioranza-opposizione.
Questo non può risolversi nell'attribuire
ad una sola delle due Camere, proprio a quella che dovrebbe
rappresentare il solo sistema delle comunità territoriali, il compito di
nominare in via esclusiva i giudici di competenza parlamentare che fanno
parte della Corte costituzionale. Allora, è più corretto e più
equilibrato il sistema attuale, che almeno ripartisce su entrambe le
Camere tale nomina. Inoltre, che significato avrebbe dare alla sola
Assemblea che rappresenta i sistemi periferici la nomina dei membri del
CSM? Forse la magistratura deve tutelare soltanto il rapporto
centro-periferie? Non si tratta di un potere dello Stato e della
Repubblica in tutte le sue forme? E come si giustifica incentrare il CSM
nel rapporto con il Senato, per la parte di nomina parlamentare, e poi
mantenere la competenza esclusiva nella sola Camera dei deputati per ciò
che riguarda la legislazione sull'ordinamento giudiziario? Come si
giustifica prevedere l'esercizio della funzione legislativa da parte
delle due Camere per le leggi in attuazione dell'articolo 125 della
Costituzione sulla giustizia amministrativa di primo grado e poi
mantenere la competenza esclusiva della Camera dei deputati per le leggi
sulla giustizia amministrativa?
Ci sono troppe incongruenze nel sistema. Condivido pienamente le
osservazioni del professore Elia sul ruolo del Presidente della
Repubblica: secondo quale logica vengono aumentati i poteri del Capo
dello Stato i merito alla nomina dei presidenti delle autorità di
garanzia? Per quale motivo si considera soltanto la nomina dei
presidenti e come viene «giocata» la nomina degli altri membri nella
ripartizione tra Camera e Senato? Dove si collocano le autorità di
garanzia? Le si evocano soltanto per definirne la nomina dei presidenti
in capo al Presidente della Pubblica: è troppo poco. Le autorità di
garanzia in un sistema equilibrato di democrazia governante e di
corretto rapporto tra centro e periferie debbono avere da parte del
legislatore costituzionale, così come la governance, ben altra
attenzione.
Quale significato ha il fatto che il Presidente della Repubblica nomina
il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura in un
contesto, però, in cui i membri sono tutti di nomina della Camera delle
rappresentanze territoriali? Mi sembra che in molti, troppi casi siano
state effettuate scelte che sembrano rispondere ad una logica di
equilibrio contingente dei ruoli dei diversi soggetti ma non ad un
disegno razionale e compiuto.
Come si spiega che una riforma, che vorrebbe stabilizzare e portare a
compimento il processo - come ho già detto, a mio giudizio già avvenuto
- di mutamento della forma di Governo centrale e dei rapporti tra centro
e periferia, veda un rinvio al 2011 per quanto riguarda la sua piena
entrata in vigore? Come si giustifica una anomalia così forte rispetto
ad ogni Costituzione a noi nota? Già la riforma del 2001 aveva una
propria anomalia, il «famoso» articolo 11, che dichiarava non compiuta -
come di fatto essa è - la riforma medesima in attesa della riforma del
Titolo I. Ora si intende aggiungere un'altra più rilevante anomalia,
quella di una riforma che si autodefinisce ad entrata in vigore
differita (fate attenzione, non ad attuazione, ma ad entrata in vigore
differita). Infatti, la seconda Camera rimane immodificata per l'intera
prossima legislatura ma le si attribuiscano fin d'ora i nuovi poteri,
fatto giustificabile se il Senato fosse già, sia pure in una
pallidissima forma, rappresentanza dei corpi elettorali regionali.
Mi sembra che la riforma richieda molte riflessioni ed aggiustamenti,
addirittura mutamenti di asse in certi contesti. Dico ciò con la
passione di chi è convinto occorra - perché vitale per il paese -
completare le modifiche intervenute in questi anni, ponendo
completamente in asse la Costituzione formale ed il funzionamento reale
del sistema. Il rischio è che se si sbagliano le scelte, si darà vita a
riforme con troppe ombre e poche luci, dando ragione a chi, forse in
modo troppo pessimistico, ritiene che sarebbe meglio non modificare
nulla. Non sono di questa opinione e ritengo essenziale che modifiche vi
siano, ma dovranno essere quelle di cui si ha bisogno, non quelle, come
sembra, legate a disegni, congiunture e strategie di cui sfugge,
obiettivamente, la razionalità complessiva.
PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi
per le domande.
CARLO TAORMINA. Professore, a parte la
difesa che lei ha fatto della relazione del professore Elia, su cui non
concordo perché ha teorizzato l'esigenza della permanenza del
«ribaltone», dico subito che condivido moltissime delle osservazioni da
lei fatte, in particolare sul fenomeno da lei definito di ipertrofia del
Senato delle regioni, sulla questione delle opposizioni e dell'esigenza
che si pervenga ad un regime che costituzionalizzi le relative
prerogative.
Lei ha rappresentato due interrogativi, ma
nel far ciò ha fornito anche la risposta. È evidente che le mozioni si
votano ed è chiaro che il Presidente del Consiglio nei riguardi del
quale sia stata approvata una mozione di sfiducia non possa che
dimettersi. Diversamente, si tratterebbe di uno stravolgimento
dell'ordinamento costituzionale.
Eliminata allora l'ipertrofia del Senato, che nella logica del disegno
di legge in esame aveva il compito di svolgere un contrappeso ai poteri
del premier, e colmata la lacuna relativa all'opposizione (e dopo
aver giustamente fatto riferimento alla costituzione materiale che in
questi anni ha compiuto molto di quanto si sta cercando di realizzare
con il disegno di legge), sembra di capire che la «filosofia» del
disegno di legge su cui abbiamo chiesto il suo parere sia pienamente
accolta da parte sua. Lei ha detto due cose importanti: ha sostenuto che
il disegno di legge punta a disciplinare il rapporto tra leader,
maggioranza ed elettori ed ha fatto riferimento all'esigenza di studiare
attentamente il rapporto del premier rispetto alla maggioranza.
Approdiamo, dunque, oggi ad un risultato che rispecchia la costituzione
materiale in relazione al sistema elettorale, ai candidati premier
che si confrontano e così via.
Dopo la sua «filippica» sul disegno di
legge e l'indicazione di alcuni aspetti che non vanno (ma, ripeto, nel
quadro di un'accettazione della filosofia di fondo), le saremmo grati di
sapere quali dovrebbero essere (oltre a quelli già citati) le modifiche
cui la Camera dovrebbe prestare attenzione?
GIANCLAUDIO BRESSA. P
oiché anch'io condivido in larga parte
quanto detto dal professor Pizzetti, la cosa mi inquieta essendo
accomunato ad un giudizio analogo a quello espresso dal collega
Taormina...
CARLO TAORMINA. Non è certo una vergogna.
GIANCLAUDIO BRESSA. Non ho detto che sia
una vergogna, ma che il fatto mi inquieta. È la prima volta. Non ho
voluto formulare alcun giudizio. Lascio, comunque, al professor Pizzetti
l'interpretazione corretta del suo pensiero.
Per quanto riguarda la forma di Governo
lei, professore, ha detto in maniera molto chiara che le questioni da
tenere presente, se intendiamo giungere a modifiche importanti,
opportune e necessarie, sono tre: garantire la stabilità e la capacità
del Governo e, terzo aspetto, garantire anche il diritto di scelta degli
elettori. Non ritiene, però, che il modello approvato dal Senato abbia
elementi di squilibrio tali da non riuscire a definire questi tre
aspetti?
Non ritiene utile e opportuna, proprio per
definire in maniera chiara la stabilità del Governo, una definizione
della maggioranza parlamentare? Fino ad oggi, la nozione di maggioranza
è stata desunta solo in sede extraparlamentare, al momento della
presentazione delle liste, dall'apparentamento tra il candidato e il
Presidente del Consiglio.
Inoltre, relativamente alla garanzia della libertà di scelta degli
elettori, non ritiene che si debba tenere presente, comunque, l'articolo
67 della Costituzione e che, pertanto, non sia possibile incatenare un
parlamentare allo schieramento attraverso il quale è stato eletto? Non
ritiene che ci possa essere, invece, la possibilità, e la connessa
responsabilità parlamentare, di modificare anche questo tipo di confine,
definito dalle elezioni, magari stabilendo la clausola dell'obbligo di
elezioni entro un termine predeterminato? In altri termini, lei rammenta
il modello che era stato proposto nella scorsa legislatura e firmato da
tutti i presidenti di gruppo dell'Ulivo? Esso prevedeva la possibilità
di una modifica della maggioranza, la quale doveva essere certificata
parlamentarmente al momento del suo insediamento, ma stabiliva che, ove
la maggioranza fosse stata alterata, in qualche modo, ciò avrebbe
comportato lo scioglimento delle Camere entro dodici mesi, perché la
responsabilità parlamentare della modifica del voto avrebbe dovuto
subire, entro tempi certi, una verifica da parte dell'elettorato.
MARCO BOATO. Signor presidente, mi scuso
anch'io con i nostri interlocutori per il ritardo. Dal momento che
devono ancora svolgersi alcune audizioni, già programmate per la seduta
odierna, sotto il profilo metodologico credo che sia opportuno evitare,
sia nelle relazioni, sia nel dibattito, ogni riferimento a quanto
affermato dai relatori ascoltati in precedenza. Ciò sarebbe scorretto
dal punto di vista formale, dal momento che chi è intervenuto in
precedenza, anche se sta ascoltando, non può più intervenire, e sarebbe
un po' anomalo ai fini del resoconto. Perciò, dal punto di vista
procedurale, ritengo opportuno che ciascuno di noi si rapporti con
l'interlocutore che ha di fronte.
Anch'io sono rimasto un po' stupito per le affermazioni del collega
Taormina; del resto, il professor Pizzetti è l'interprete autentico di
se stesso. Io ho annotato alcune espressioni tra cui: «testo
tecnicamente confuso», «norme incoerenti», «testo fortemente carente e
sostanzialmente insoddisfacente». Ho l'impressione che ciascuno di noi
dovrebbe evitare di pretendere di attribuire ai nostri interlocutori le
proprie idee, che possiamo manifestare in tutti gli ambiti, sia in sede
parlamentare sia in sede extraparlamentare. Soprattutto, tutti abbiamo
interesse ad ascoltare il parere di coloro che abbiamo invitato a
intervenire.
Premetto che condivido alcune domande formulate dal collega Bressa, con
una precisazione che mi riservo di effettuare alla fine del mio
intervento relativamente al progetto della scorsa legislatura (che era
nel dibattito ma non era nel testo). Il professor Pizzetti ha rilevato
che non è prevista alcuna istituzionalizzazione di forme di
governance, al di là del rafforzamento del ruolo del Primo ministro.
Vorrei chiedergli di approfondire questo argomento e vorrei chiedergli
anche se abbia indicazioni a riguardo.
In connessione con questo ragionamento, il professore ha fatto
riferimento al lavoro della Commissione bicamerale e al fatto che, in
questo testo, non è presente alcuna ipotesi di istituzionalizzazione
delle Conferenza Stato-regioni e Stato-autonomie locali. Dal momento che
ne abbiamo discusso e, ritengo, ne discuteremo ancora, le chiedo se
questo implichi che lei è favorevole a un riconoscimento costituzionale
di tali istituzioni, oggi previste soltanto in base a legge ordinaria.
Lei ha fatto riferimento, inoltre, alla
questione dell'intesa per le regioni a statuto speciale. Si tratta di un
tema che già è stato accennato nel corso di queste audizioni. Al
riguardo, le chiedo quale formulazione riterrebbe corretta, laddove
ritenga giusto inserirla in Costituzione.
Più volte, è stato da lei richiamato - e condivido questo richiamo,
almeno sotto il profilo della coerenza - il mantenimento, sia pure con
una formulazione diversa, della assenza di vincolo di mandato ex
articolo 67 della Costituzione. Le chiedo se, nella sua ipotesi,
l'assenza di vincolo di mandato debba essere differenziata nella
formulazione o, in ipotesi, addirittura soppressa, per quanto riguarda
la Camera e il Senato; la Camera, comunque, intrattiene un rapporto
fiduciario con il Governo; il Senato, in questa ipotesi, non ce l'ha.
In connessione con questo - ma non è la stessa cosa, ovviamente - le
chiedo se ritenga opportuna, comunque, l'ipotesi di una reintroduzione
(nel testo originario del Governo era prevista) della possibilità di
scioglimento del Senato, sia pure in casi diversi da quelli previsti per
la Camera politica. Infatti, allo stato attuale, per come è configurato,
nel Senato potrebbe succedere di tutto, compresi il blocco dell'attività
del Governo e l'impossibilità di funzionamento. Nel testo attuale,
proveniente dal Senato, non è contemplata alcuna deterrenza
istituzionale e costituzionale nei confronti di questa ipertorfia dei
poteri, cui si è fatto riferimento.
Per quanto riguarda lo statuto
dell'opposizione, si è cominciato a discutere, nel dibattito
parlamentare e, soprattutto, in dottrina (in quella dottrina che
comincia ad essere pubblicata in questo periodo), sulla differenza fra
statuto della opposizione e delle opposizioni. Lei ha fatto un cenno
rapidissimo in merito ed ha parlato di minoranze e di opposizioni. Le
chiedo se si sia trattato soltanto di un fatto linguistico, dovuto alla
rapidità di eloquio, o se ritenga necessario - come io ritengo -
rafforzare lo statuto delle opposizioni in sede costituzionale, senza
rinviarlo alla sede regolamentare, tanto più che il regolamento è
approvato dai componenti della maggioranza e non dell'opposizione. In
altri termini, il regolamento parlamentare è approvato da chi non è
all'opposizione e, perciò, è giusta la sua ipotesi relativa alla
necessità che ci siano maggiori punti di riferimento in Costituzione. Le
chiedo una valutazione circa la differenza tra le diverse opposizioni o
minoranze, in Parlamento.
Inoltre, lei ha fatto riferimento ai diritti del pluralismo nel sistema
delle comunicazioni. Le chiedo se ritenga che la materia debba essere
affrontata nella seconda parte della Costituzione o se, pur essendo
assolutamente condivisibile questa esigenza da lei prospettata (o,
almeno, io la condivido), non sia, per altri aspetti, da inserire nella
prima parte della Carta costituzionale.
Da ultimo, lei ha ricordato il tema alle
autorità di garanzia. Giustamente, ha rilevato come vi sia un
riferimento ad esse nel progetto di modifica dell'articolo 87, con la
definizione, un po' anomala, di autorità amministrative indipendenti,
laddove si tratta del potere di nomina attribuito al Presidente della
Repubblica. Non vi è alcun altro riferimento in Costituzione al
riguardo. Al di là della discutibilità o meno della nomina da parte del
Presidente della Repubblica - questo è altro argomento - le chiedo se
ritenga giusto costituzionalizzare le cosiddette autorità di garanzia.
PRESIDENTE. Vi ricordo che era stato
convenuto che ciascuno intervento avrebbe avuto la durata di tre minuti.
Non solo: se il professor Pizzetti dovesse rispondere a tutte le domande
che avete formulato finora, impiegheremmo almeno un'altra mezz'ora.
Perciò, pregherò il professore di consegnarci una documentazione scritta
sia dell'intervento, sia delle risposte.
MARCO BOATO. Signor presidente, svolgiamo
le audizioni allo scopo di audire.
PRESIDENTE. Ho capito, ma è lo stesso:
rispettiamo i tempi e vedrà che riusciremo a fare tutto.
MARCO BOATO. Signor presidente, questa
interruzione non mi piace, perché un collega della maggioranza ha
superato i tempi previsti ampiamente e ripetutamente e nessuno ha detto
nulla. Se lei deve fare questo richiamo, lo deve effettuare
imparzialmente.
PRESIDENTE. Il richiamo è rivolto a tutti,
perché abbiamo convenuto ieri, in sede di ufficio di presidenza, la
durata di tre minuti per ciascun intervento!
MARCO BOATO. Signor presidente, io ho
formulato molte domande e non ho svolto ragionamenti politici, mentre
abbiamo ascoltato molti ragionamenti politici e non abbiamo obiettato.
PRESIDENTE. Invito il collega Leoni ad
intervenire.
CARLO LEONI. L'accordo con le cose dette
dal professor Pizzetti mi consente di porre una domanda molto
particolare e quindi molto breve. Non so se il professore abbia avuto
modo di concentrare la sua attenzione anche su questo argomento, ma
approfitto dell'occasione - essendo un parlamentare nato ed eletto a
Roma - per rivolgerle questa domanda. Quale è il suo giudizio sul modo
in cui questo disegno di legge disciplina i poteri e l'ordinamento della
capitale?
Credo che lei abbia visto questa parte o
che avrà modo di esaminarla più dettagliatamente. Io ritengo che il
testo sia confuso; infatti, prima si fa un richiamo a forme e condizioni
particolari di autonomia, anche normativa, stabiliti dallo statuto della
regione Lazio e poi, invece, si dice che la legge dello Stato ne
disciplina l'ordinamento; quindi, sarei interessato ad un suo giudizio
su tale argomento.
FRANCESCO PIZZETTI, Professore
ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Torino. Mi riservo, soprattutto sulle questioni
più puntuali, di darvi un contributo in forma scritta, avendo, in questo
modo, il tempo per farlo in maniera più meditata.
In primo luogo, vorrei rispondere alla
domanda iniziale nella quale mi si chiedeva come mai fossi in accordo
con la relazione del professor Elia, pur avendo accentuato l'aspetto del
raccordo con l'elettorato, mentre il professor Elia, in qualche modo, ha
sottolineato la sua preoccupazione per il mantenimento e la salvaguardia
del ruolo del Parlamento. Credo che ci accomuni la preoccupazione
derivante dal sistema complessivo che, per i tanti motivi che ho detto
(non tocca a me interpretare il professor Elia, ma mi sembra che nella
sua relazione fossero chiari i motivi che lo hanno spinto a dire le cose
che ha detto), è preoccupante.
Non si può pensare che il testo, solo perché ha dimostrato di avere la
comprensione dell'esistenza di alcuni problemi, sia da ritenersi valido,
non considerando il fatto che nel suo complesso sia così squilibrato e
anche (mi sembra di capire che anche l'onorevole Taormina condivida la
lettura dell'ipertrofia del Senato e la carenza dello statuto
dell'opposizione) carente su elementi essenziali. Ciò non è sufficiente
a rintracciare un equilibrio complessivo che possa consentire una
valutazione più serena; quindi, i due interventi - il mio e che quello
del professor Elia - vanno assolutamente nella stessa direzione che è
quella (molto più autorevole la sua, meno la mia) di avvisare la
Commissione parlamentare dell'obiettiva e preoccupante incoerenza del
testo complessivo.
In ordine alle domande specifiche che mi sono state fatte, non è facile
in poco tempo delineare quali siano effettivamente i rapporti tra il
Primo ministro - come più correttamente dice il testo - il Governo e la
maggioranza che lo sostiene. Così come non è di poca cosa - e qui
condivido l'osservazione fatta dall'onorevole Bressa - che si individui
in modo più compiuto quale sia la maggioranza parlamentare, come cioè la
coalizione che si è presentata all'elettorato diventi tale. Tale
problema nel testo varato dal Senato in qualche modo emerge; infatti, si
prevede che il candidato premier e la coalizione si presentano in
qualche modo raccordati fra di loro di fronte all'elettorato, ma che la
formalizzazione transita poi in Parlamento o almeno nella Camera dei
deputati.
Come avviene la formalizzazione di questa maggioranza? Questo diventa,
infatti, un momento fondamentale per lo stesso processo di formazione
del Governo, rispetto al quale certamente il Presidente della Repubblica
deve rispettare l'indicazione dell'elettorato, ma solo quando questa
indicazione trovi nella Camera dei deputati la sua formalizzazione.
Quindi c'è un processo da mettere a punto, che il sistema parlamentare
attualmente vigente ovviamente non fa emergere, ma che, se vogliamo
portare il sistema a compimento, deve trovare una risposta; quindi, sono
d'accordo, in questo senso, con quello che diceva l'onorevole Bressa e,
naturalmente, su questo è importante che si lavori.
Rispetto alla questione riguardante lo
statuto dell'opposizione, mi riservo di dare una risposta scritta, ma
occorre naturalmente non rimetterlo unicamente al regolamento della
Camera.
Mi è stato chiesto perché ho usato alcune volte la parola opposizione e
altre la parola minoranza; l'ho fatto solo perché ho seguito il testo
licenziato dal Senato, dove si parla di individuare forme di governo
delle minoranze e non dell'opposizione, mancando appunto nel Senato
federale il rapporto con il Governo; quindi, ciò fa pensare che nel
varare questo testo si è immaginato che il Senato si possa articolare in
maggioranza e minoranza. La norma è certamente incoerente con l'idea che
il Senato debba rappresentare i corpi elettorali regionali; infatti, in
questo caso si dovrebbe applicare un metodo diverso da quello di
maggioranza e minoranza, ma questa è un'altra delle grandi lacune o
incoerenze.
È chiaro che quando parlo di statuto dell'opposizione, intendo un
riconoscimento formale di diritti e ruoli a tutte le liste e le forze
che si siano presentate all'elettorato, indicando un leader di
governo alternativo a quello che è emerso vincitore e coalizioni o
schieramenti alternativi - diversi a quello che ha prevalso - ai quali
occorre dare un riconoscimento costituzionale.
Mi è stato chiesto, inoltre, di ritornare sul punto riguardante il
vincolo di mandato, su cui mi dichiaro molto perplesso. In primo luogo
sono molto perplesso riguardo a questa strana formula - che è presente
anche per il Capo dello Stato - per cui il deputato e il senatore
rappresentano la Nazione e la Repubblica. Forse sarebbe meglio far
chiarezza su questo punto; infatti, il Presidente della Repubblica
continua a rappresentare la Nazione, i deputati e i senatori che prima
rappresentavano la Nazione, adesso rappresentano anche la Repubblica.
Sarebbe giusto chiedere ai parlamentari di questa legislatura di far
chiarezza su questi concetti, anche per non aggravare il compito della
dottrina; vi chiedo, quindi, che senso abbia immaginare i senatori in
qualche modo raccordati con le rappresentanze regionali e poi, con
l'assenza di vincolo di mandato, renderli rappresentativi dell'intera
Nazione e dell'intera Repubblica.
Devo dire che anche le forme di raccordo presenti sono da chiarire.
Infatti, i senatori da un lato rispondono senza vincolo di mandato e
sono rappresentanti della Nazione e della Repubblica dall'altro devono
sentire i rappresentanti delle regioni su tutte le materie dell'articolo
70, cioè su ciò che riguarda il loro potere legislativo, definendo essi
stessi nel proprio regolamento in che modo sentìrli e, per di più,
chiedendo che siano ascoltati dopo che questi abbiano a loro volta udito
i rappresentanti dei Consigli delle autonomie locali. Perché tutto
questo meccanismo barocco e complesso, se poi, tanto, i senatori non
hanno alcun vincolo di mandato?
C'è davvero troppo da chiarire!
A questo punto voi mi direte che avete
fatto delle domande per chiarire alcuni punti ed io vi sto ripetendo
quanto ho già detto. Ciò dimostra che i chiarimenti non possono che
essere dati molto rapidamente e semplicemente; infatti, si tratta di
capire se la domanda fattami postula la disponibilità a ripensare
profondamente il sistema. Comunque non considero ragionevole la formula
dell'articolo 67, soprattutto se estesa al Senato del quale si cerca,
anche se senza successo, di definire una nuova e diversa natura; una di
queste potrebbe essere l'istituzione delle conferenze, di nuove forme di
governance.
Ho qualche perplessità nel
costituzionalizzare troppo una forma strutturata; ho invece la
convinzione che sia necessario chiarire un diritto costituzionale dei
governi ad avere un rapporto fra di loro, parallelo al rapporto con il
Parlamento, e che non si esaurisca nella Camera delle regioni,
soprattutto se questa si chiama Senato federale e ha un vincolo pallido
con i governi regionali.
Posso solo dire che abbiamo un grande
esempio nel Trattato costituente europeo, che ha cercato di moltiplicare
le forme di governance, soprattutto non alta, da parte dei
parlamenti nazionali a difesa della sussidiarietà. Qui, invece, non
diamo nessuna difesa alle regioni che non sia lo Statuto del Senato, al
quale esse non sono presenti, se non a titolo di consultazione e sempre
che siano consultate. Mancano forme di partecipazione diretta, che anche
noi abbiamo riconosciuto alle regioni nel processo di elaborazione della
posizione dello Stato italiano in sede europea e che adesso qui vengono
del tutto trascurate.
Non penso solo ad una governance riguardante i rapporti tra i
governi, ma anche tra i legislatori, tra le regioni e il sistema
parlamentare centrale, che non possa risolversi sempre tutto è soltanto
in un rapporto costretto dentro al Senato federale per la modernità cui
dobbiamo dare una risposta.
In questo senso il presidente Elia ha
detto che la formula dell'articolo 94 della Costituzione è un collare
troppo stretto. Secondo me, concentrare tutto in un Senato così
stranamente costruito e debolmente raccordato con le regioni costituisce
davvero un collare troppo stretto per un sistema che avrebbe bisogno di
molto più moderne ed elaborate forme di raccordo o - come amo dire
talvolta, usando un termine che non ha traduzione italiana, ma che ormai
è entrato nel linguaggio costituzionale grazie al contributo dato dalla
cultura europea - moderne forme di governance.
Mi riservo di dare risposte pure in
puntuali in forma scritta.
CARLO TAORMINA. Prendo la parola per
chiedere soltanto che, dal momento che alle mie domande non è stata data
risposta, sia data una risposta in forma scritta.
PRESIDENTE. Dipende se il professor
Pizzetti lo ritiene opportuno. Dichiaro conclusa l'audizione.
Audizione di Beniamino Caravita di Toritto,
professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la
facoltà di scienze politiche dell'Università «La Sapienza» di Roma.
BENIAMINO CARAVITA DI TORITTO,
Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la
facoltà di scienze politiche dell'Università «La Sapienza» di Roma.
Mi riservo di presentare un testo scritto e, poiché l'auditorio è tale
da non necessitare spiegazioni, mi limiterò a dare conto di alcune mie
idee rispetto al testo del disegno di legge.
Mi soffermerò soprattutto sulla parte che
riguarda il federalismo e la composizione del Senato, ma vorrei fare
qualche battuta anche sulla parte che attiene alla forma di Governo.
Innanzitutto, ritengo anche io - ma ciò fa parte della nostra
caratteristica di costituzionalisti e giuristi - che il testo richieda
ampi e approfonditi ripensamenti, correzioni, sistemazioni e messe a
coerenza. Ciò posto, mi pare che, almeno su alcuni passaggi, il testo si
muova in una direzione apprezzabile.
Il primo aspetto riguarda il ruolo del
Presidente del Consiglio in relazione alle Camere e al Presidente della
Repubblica. Credo che negli ultimi 10-15 anni ci sia stata un'evoluzione
del sistema verso un collegamento tra la maggioranza e l'elettorato e
tra maggioranza e Governo che ha trovato grandi spunti e grandi
meccanismi che lo accoglievano attraverso leggi elettorali, attraverso
alcuni ripensamenti dei regolamenti e alcune modificazioni, ma credo
anche che questo non sia riuscito ad esplicitarsi fino in fondo. Le due
vicende degli scioglimenti dei governi Dini del 1995 e D'Alema del 1998,
costituiscono il momento in cui il sistema è andato in crisi. Il testo
cerca di rispondere a questo passaggio.
Non mi soffermo sulle critiche forti nel caso Dini nei confronti della
nomina del Presidente del Consiglio e meno forti nel caso D'Alema,
perché in quel caso esisteva una maggioranza parlamentare che aveva
indicato D'Alema, mentre non esisteva nel caso Dini, ma mi pare che il
tentativo di questo testo sia quello di razionalizzare delle vicende che
sono già dentro il sistema.
La mia sensazione è che il testo oscilli
tra il governo di legislatura del premier e quello della maggioranza e
non risolva questa contraddizione. In alcuni casi si è partiti
probabilmente con l'idea del governo di legislatura del premier, ma il
testo in altri casi va verso l'idea della legislatura di maggioranza. Mi
sembra importante arrivare fino in fondo alla costituzionalizzazione del
governo di legislatura di maggioranza e mi pare che l'aspetto delicato
per ottenere questo risultato sia l'introduzione, all'interno
dell'articolo 94, terzo comma, del richiamo all'articolo 88, ossia la
possibilità che, anche nel caso di un voto di sfiducia, possa scattare
la richiesta della maggioranza dei parlamentari di sostituire il premier
sfiduciato.
Naturalmente vi sono alcuni elementi di
coerenza del testo che vanno perfezionati e sui quali non mi soffermo.
Vorrei sottoporvi una mia critica, che ho
già espresso in un'altra sede. Non voglio entrare nel problema che
riguarda il fatto se i poteri del Presidente sono troppi oppure pochi.
Credo che le grandi democrazie moderne, che hanno adottato una forma di
Governo parlamentare, vedono una riduzione dei poteri del Capo dello
Stato. Basta guardare a tutte le forme di Governo parlamentare, da
quelle monarchiche a quelle repubblicane, per capire come questa linea
di tendenza sia molto netta.
Tuttavia, vi sottopongo il problema che
non appare condivisibile l'eliminazione della firma ministeriale su
alcuni atti perché il sistema resta un sistema in cui gli atti del
Presidente della Repubblica sono privi di responsabilità e la
controfirma del ministro o del Presidente del Consiglio serve appunto
all'assunzione di responsabilità rispetto ad atti che incidono
nell'ordinamento, ma per i quali il Presidente, ai sensi dell'articolo
90, non è responsabile.
L'articolo 89, terzo comma, che elimina la
controfirma del Primo ministro o dei ministri su alcuni atti del
Presidente, mi pare un'incoerenza sistematica, perché rimarrebbero degli
atti nell'ordinamento senza nessun soggetto responsabile.
Per quanto riguarda la Corte
costituzionale, mi sembra positivo che si rimanga a quindici membri, ma
probabilmente bisogna tornare alla nomina dei giudici di provenienza
parlamentare da parte del Parlamento in seduta comune.
Sul tema della composizione del Senato e del federalismo, il testo è
chiaramente carente, perché deriva dal Senato e dai senatori e recepisce
in molti punti la vecchia logica del Senato di garanzia. Molti elementi
fortemente discutibili (quali l'elezione dei membri del CSM da parte del
Senato, l'elezione di tutti i giudici della Corte costituzionale da
parte del Senato) non si spiegano nella logica del Senato rappresentante
dei territori, ma si spiegano se si pensa che la discussione è sempre
stata quella di un Senato quale Camera di garanzia. Allora, sono rimasti
alcuni elementi di questo tipo che hanno portato all'aberrazione, come
quella dell'elezione dei membri del CSM da parte del Senato.
Bisogna prendere atto che la logica del
«Senato di garanzia» non ha senso. Primo, perché non vedo perché una
Camera debba essere di garanzia, come se l'altra non lo fosse. Secondo,
perché, nel sistema che si va creando, la logica che ci occorre è quella
di un Senato che rappresenti i territori. Come rappresentarli?
Voi sapete meglio di me come vi sia una
richiesta forte dal parte del mondo regionale, e anche da una parte
della dottrina, di un Senato composto sul modello Bundesrat, cioè di
delegati dei governi regionali. Mi pare che questa posizione sia
politicamente poco percorribile, ma abbia anche delle difficoltà di tipo
costituzionale: vi segnalo che in Germania, oggi, una apposita
commissione sta discutendo la riforma del federalismo, dove fra l'altro
è presente proprio questo punto dei poteri del Bundesrat.
L'idea della contestualità poteva essere interessante, perché
significava legare insieme i momenti elettorali; certo, la contestualità
affievolita è assolutamente un paradosso, è assolutamente una cosa priva
di senso. Se contestualità ci deve essere, i senatori devono essere
eletti sempre e contemporaneamente insieme ai consigli regionali da cui
provengono. Eventualmente, anche con meccanismi di collegamento
elettorale, ma su questo forse si può rinviare alla legge elettorale.
A me parrebbe altrettanto importante e
significativo introdurre la presenza dei presidenti delle regioni nel
Senato. Questo perché è l'unico modo per «controllare» l'esercizio delle
amplissime discrezionalità regionali, e riportare al centro la
discussione.
Sarei d'accordissimo con la costituzionalizzazione di un meccanismo di
governance e su un richiamo al sistema delle conferenze. Temo
però, da un punto di vista politico, che affrontare oggi il discorso
sulla costituzionalizzazione delle conferenze significherebbe
abbandonare ogni ipotesi di federalizzazione, di rafforzamento della
rappresentanza dei territori da parte del Senato. Quindi, come dire,
cosciente che quella è una soluzione, non credo che politicamente vada
affrontata in questo momento. Si tratta naturalmente di una mia
opinione.
L'articolo 117 della Costituzione. Il
testo attuale di questo articolo rappresenta un problema. Tuttavia, il
disegno di legge costituzionale approvato dal Senato ha fatto una scelta
molto netta: la scelta di non modificare l'elenco delle materie. Voi
sapete meglio di me che l'elenco delle materie è stato fortemente
discusso, sia dall'attuale maggioranza, sia dall'attuale opposizione.Il
Governo, nel 2003, aveva presentato un disegno di legge in cui ripensava
l'organizzazione per materie dell'articolo 117. Quella proposta del
Governo si è fermata.
L'idea è quindi, evidentemente, quella di non toccare l'articolo 117. Da
costituzionalista studioso della materia, devo dire che l'attuale
articolo 117 crea molti problemi. La giurisprudenza della Corte
costituzionale è esemplificativa sul punto. Capisco tuttavia le
difficoltà politiche. Esse consistono nel fatto che basta prendere anche
solo una materia, e spostarla nell'elenco delle materie di competenza
esclusiva dello stato, che questo si porterebbe dietro un «trenino» di
altre materie che renderebbe l'operazione politicamente impraticabile.
Vi segnalo che c'è uno spunto interessante nel testo approvato dal
Senato, anche se forse va perfezionato: si tratta del richiamo alla
tecnica degli accordi, non solo per i beni culturali, ma anche per
l'energia, le professioni e forse, le grandi reti di trasporto. Questo è
un pò costituzionalizzare le due sentenze della Corte costituzionale che
hanno cercato di mettere ordine in questa materia: la sentenza n. 303
del 2003 e la sentenza n. 6 del 2004.
Per quanto riguarda il tema devolution, personalmente non riesco
a vedere in questo tema, nè le conseguenze drammatiche che qualcuno
paventa, né la grande modifica che qualcun altro ipotizza. Molto
rapidamente: organizzazione e assistenza sanitaria, secondo alcune
teorie sono già parte della potestà legislativa esclusiva, ma in ogni
caso, a prescindere dalla collocazione, rimane ferma la determinazione
dei livelli essenziali in capo allo Stato, e quindi il quadro della
potestà esclusiva regionale avviene all'interno di quella competenza.
Lo stesso vale per le competenze organizzazione scolastica, gestione
degli istituti, e definizione dei programmi scolastici formativi di
specifico interesse della regione, che avvengono nel quadro delle norme
generali sull'istruzione, di competenza dello Stato, nonchè della
determinazione dei livelli essenziali, sempre di competenza dello Stato.
Su questo ricordo che il testo Moratti ha già previsto che le regioni
possono intervenire sulla parte di programma di interesse regionale; vi
ricordo altresì la sentenza della Corte costituzionale n. 14 del 2004,
che ha ritenuto che fosse di competenza delle regioni la distribuzione
del personale all'interno degli istituti scolastici. Quindi ciò è già
nel quadro costituzionale vigente.
Il tema della polizia locale è più
delicato, ma qui il problema è che la competenza regionale avrebbe sopra
di sé la potestà statale (in tema di ordinamento penale e giudiziario,
di ordine e sicurezza pubblica), e verso il basso deve comunque fare i
conti con le competenze in materia di polizia amministrativa. Devo dire
quindi che non trovo questa modifica, né in un senso, né in un altro,
tale da poter spaventare, né da una parte, né dall'altra.
Richiamo la vostra attenzione sull'articolo 118, sotto il profilo del
riferimento alle autonomie funzionali. Lo trovo positivo, perché nel
sistema italiano ogni tanto c'è l'idea che il pluralismo sia solo quello
istituzionale. L'articolo 114, ed alcune interpretazioni di tale
articolo, si muovono nel senso di un pluralismo solo istituzionale:
ricordo che il decreto legislativo n. 616 del 1977 prevedeva che solo
agli enti territoriali potessero essere date funzioni amministrative.
Allora, per evitare che questo fiume carsico di un idea giacobina,
secondo la quale il pluralismo è solo istituzionale (e non anche
sociale), ogni tanto riemerga, mi sembra positivo l'aggancio delle
autonomie funzionali nell'articolo 118.
Concludendo il mio intervento, vorrei segnalarvi alcuni aspetti finali:
primo, il problema del simul stabunt, simul cadent. Esso è stato
affrontato, è uno degli argomenti di grande difficoltà degli statuti
regionali. L'articolo 37 del disegno di legge prevede di modificare
l'articolo 126 ultimo comma della Costituzione, temperandolo nel caso di
morte o impedimento. Viene previsto che o un vicepresidente, o un
presidente eletto dal Consiglio regionale, possa subentrare. Al Senato
vi è attualmente una proposta Vizzini-Bassanini, che prevede il
temperamento di questa regola, anche nel caso di impedimento del
presidente, legato alla assunzione di compiti e funzioni di particolare
rilievo (presidente del consiglio, ministro, eccetera). Anche questo mi
pare un argomento da tenere in considerazione.
Vi segnalo poi il problema delle norme transitorie. Esse sono
importanti, ma in esse si possono annidare incostituzionalità. Le norme
transitorie rappresentano un passo avanti rispetto alla riforma operata
con la legge n. 3 del 2001, ma proprio in esse si potrebbero annidare
delle incostituzionalità. Il testo non dice nulla su quando scatterà (se
cioè nel 2011 o nel 2010), perché non lo può dire, in quanto non può
prevedere se ci saranno o non ci saranno scioglimenti nella prossima
legislatura.
Ora, a parte le considerazioni tutto
sommato condivisibili del professor Pizzetti circa questa riforma, che
scatterebbe fra un numero di anni imprecisato (e quindi, come dire,
veramente la politica poi non può giocare da qui a dieci anni), vi
segnalo anche il problema che in questo quadro l'eliminazione del potere
di scioglimento del Senato nella prossima legislatura non ha senso. Per
quale ragione il Senato, fra il 2006 e il 2011, non deve essere sciolto?
Perché? Perché, se rimane un Senato eletto nello stesso modo e comunque
il meccanismo di elezioni contemporanee di senatori e consigli
regionali? Questo è un nodo che non riesco a capire. Naturalmente,
l'altro problema è che è difficile creare un Senato di 200 membri con la
legge elettorale attuale, e quindi qui c'è il rischio che la legge
elettorale per il Senato non si faccia mai.
Un altro problema ancora è quello della
disposizione transitoria perché la proposta in esame non dice nulla
riguardo a quando avverrà l'elezione dei consigli regionali; in tal
modo, la legislatura regionale, se tutto funziona in ordine, durerebbe
solo un anno.
Pur essendo sottintesa l'idea di una proroga delle legislature
regionali, la mancata previsione della stessa potrebbe essere
problematica ed è forse il caso che venga inserita una norma transitoria
che preveda che le elezioni del consigli regionali e del Senato scattino
insieme, fermo restando che, a mio avviso, appare molto grave e
criticabile sia la composizione del Senato sia il meccanismo di
contestualità affievolita.
PRESIDENTE. Ringrazio il professor
Caravita di Toritto per la relazione testé illustrata e do la parola ai
colleghi che intendono intervenire.
GIANCLAUDIO BRESSA. Nel ringraziare il
professore per gli spunti molto interessanti che ci ha offerto, vorrei
porre alcune domande. La prima attiene alle disposizioni transitorie,
che, più che tali, sono, per quanto vi è sotteso, un vero e proprio nido
di vespe. Mi interessa conoscere la sua opinione riguardo al comma 12
dell'articolo 42 del testo approvato dal Senato, che è assolutamente
incomprensibile: è possibile che, con una norma transitoria, che recita
che «le disposizioni di cui al comma 11 si applicano in via transitoria
anche nei confronti delle Regioni nelle quali, alla data di entrata in
vigore della presente legge costituzionale, siano già entrati in vigore
i nuovi statuti regionali (...)», si va a togliere efficacia agli
statuti regionali che hanno già sciolto il nodo del simul simul?
Concordo con lei riguardo al rischio che si annida nel momento in cui si
costituzionalizza il principio di governance e la Conferenza
Stato-regioni, quello cioè di affievolire la possibilità di risolvere la
questione del Senato federale, ma ritengo che il realismo ci imponga di
non dimenticare che, una volta che il testo sarà approvato dalla Camera,
ritornerà al Senato ed è quindi molto complicato immaginare ipotesi e
soluzioni che possano prevedere una qualsivoglia forma di dissoluzione
del Senato stesso.
Allora, piuttosto che continuare ad arzigogolare attorno a modelli
improbabili, quale quello che uscito dal Senato, non potrebbe essere
questa forse la soluzione meno dolorosa, in attesa che la questione
della seconda Camera possa trovare una maturazione politica più piena?
Credo che mostri analoghi a quelli partoriti - non solo in questa
occasione, ma ricordo anche le esercitazioni, piuttosto devianti, nel
corso dei lavori della Bicamerale - relativamente alla Camera federale,
dimostrino che probabilmente non siamo maturi per risolvere la
questione.
È vero che la riforma del titolo V della
Costituzione ci impone momenti di raccordo e di diversa definizione dei
rapporti in essa contemplati, ma può darsi che questo sia il male minore
rispetto all'immaturità della cultura politica in cui noi tutti ci
troviamo a vivere in questo momento.
MARCO BOATO. Ringraziando il professor
Caravita per le sue osservazioni ed associandomi a quanto rilevato dal
collega Bressa, vorrei la sua opinione sull'opportunità di temperare
l'articolo 94, terzo comma, con l'articolo 88, secondo comma, del testo
approvato dal Senato. Più in particolare, quest'ultima previsione
contempla l'ipotesi di presentazione di una mozione senza indicare
alcuna ipotesi di parlamentarizzazione.
Sono d'accordo con lei sull'obiezione alla soppressione della
controfirma. Credo, infatti, che la controfirma sia un atto di
legittimità nei casi di potere esclusivo del Presidente della Repubblica
ed è giusto che nell'ordinamento sia prevista un'attestazione di
conformità dell'atto presidenziale. Se il Capo dello Stato nomina un
giudice costituzionale che, per esempio, non è laureato in legge, è
indispensabile che vi sia qualcuno che abbia il diritto di avvertire che
per la controfirma sia necessaria una persona laureata in tale
disciplina, fatta naturalmente salva la libertà del Presidente di
scegliere chi vuole. Ricordo che, tra l'altro, abbiamo appreso che in
Francia non vi è tale requisito per la nomina a giudice del Consiglio
costituzionale.
BENIAMINO CARAVITA DI TORITTO,
Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la
facoltà di scienze politiche dell'Università «La Sapienza» di Roma.
Forse, però, tale requisito non è necessario perché deve trattarsi di
professori in materie giuridiche.
MARCO BOATO. Era solo un esempio per
ipotizzare che il Capo dello Stato nomini un giudice privo dei requisiti
previsti dalla Costituzione. Comunque, in questi casi, è giusto che
l'atto presidenziale sia controfirmato per attestarne la conformità
all'ordinamento.
Circa quanto ha detto sulla nomina dei giudici costituzionali, vorrei
avere la sua opinione riguardo a come il progetto approvato dal Senato
ne ripartisce i poteri di nomina tra gli organi.
Concordo ancora con quanto rilevato sull'autonomia funzionale,
ricordando, tra l'altro, che sono l'autore del testo originario sulla
sussidiarietà orizzontale. Avendo peraltro sollevato l'esigenza che la
Costituzione contenga, anche dal punto di vista stilistico, norme
coerenti, mi chiedo se sia necessario aggiungere un comma all'articolo
118 della Costituzione che espressamente indichi tale concetto, quando
basterebbe inserirlo nel quarto comma attualmente vigente.
Infine, vorrei conoscere la sua opinione
su come è configurata la questione del cosiddetto interesse nazionale e
sul ruolo del Governo e del Presidente della Repubblica e al rischio di
politicizzazione recato dalle previsioni contenute nel testo della
riforma, rischio sulla cui esistenza convengo.
PRESIDENTE. Do la parola al professor
Caravita di Toritto per la replica.
BENIAMINO CARAVITA DI TORITTO,
Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la
facoltà di scienze politiche dell'Università «La Sapienza» di Roma.
Mi sembra che il senso dell'articolo 42, comma 11, del testo approvato
dal Senato, se nulla viene previsto circa l'applicazione della norma,
sia quello di fare in modo che la disposizione in esso contenuta non si
applichi nel caso in cui una regione (come ad esempio, la Puglia) abbia
già approvato lo statuto. Se il presidente muore o è impedito
permanentemente, il presidente eletto con lo statuto potrà sempre dire
di essere stato eletto sulla base dello statuto stesso e dichiarare che
in tal caso non si applica la norma costituzionale. Qui, il problema è
che lo statuto è stato scritto, perché non c'era altra soluzione.
Ricordo che sulla questione le regioni si stanno scontrando
drammaticamente. L'abrogazione delle parole «regolamentari» nell'ambito
della legge costituzionale n. 1 del 1999 comportava che la potestà
regolamentare passava subito alla competenza delle giunta o che, per
tale conferimento, dovevano intervenire gli statuti? Non vorrei
soffermarmi troppo a lungo ma vi ricordo che una tale problematica è
aperta da ormai quattro anni.
Per quanto riguarda la Conferenza Stato-regioni ho preso in esame su
Magna Charta gli Stati che si richiamano a modelli regionali e
federali ed ho osservato che tutti hanno una seconda Camera in qualche
modo rappresentativa delle regioni; rinunciare a tutto ciò significa
abbandonare il sistema nel disagio.
Secondo me la Conferenza Stato-regioni, il
cui utilissimo ruolo va potenziato e diversamente disciplinato, non
risolve tutti i problemi di dibattito politico che un modello regionale
impone; quindi, occorre una Camera di rappresentanza, mentre le relative
valutazioni di opportunità politica spettano più a voi che a me.
Circa l'articolo 88, credo sia inammissibile una mozione senza un voto
parlamentare, quindi se su ciò vi è un dubbio, è opportuno che venga
chiarito.
Io penserei ad un richiamo dell'articolo 88 all'interno dell'articolo
94. La formula dell'articolo 94, secondo comma, secondo cui si applica
l'articolo 88, di massima si può ripetere anche nell'articolo 94, terzo
comma.
Per quanto riguarda la nomina dei giudici
costituzionali rimango legato ad un vecchio articolo di Mortati in cui
egli sosteneva che la composizione della nostra Corte costituzionale è
da considerarsi di mirabile equilibrio. Non mi scandalizzerei se
venissero apportate modifiche, in ogni caso credo che la composizione
attuale della Corte costituzionale sia sostanzialmente equilibrata e può
tranquillamente essere mantenuta.
Per quanto riguarda il meccanismo di interesse nazionale ha ragione
l'onorevole Boato quando sostiene che è estremamente macchinoso, lungo e
coinvolge il Presidente della Repubblica. In questo caso si potrebbe
pensare a richiamare il tradizionale meccanismo relativo all'ordinamento
tedesco per cui si possono approvare leggi delle due Camere che
intervengono in casi particolari dettate da esigenze di unità.
Il problema delle normative cedevoli nelle materie di legislazione
regionale sta diventando molto grosso. La maggior parte della dottrina e
la giurisprudenza ritiene che non possano esistere norme di dettaglio
dello Stato nelle materie di legislazione concorrente. Ciò, fa sì che
se, ad esempio, viene introdotto un nuovo principio in materia di
aeroporti esso rimarrà «appeso» fino a che la regione Molise non gli
darà attuazione.
Bisognerebbe introdurre il principio secondo cui lo Stato, quantomeno
nelle materie di legislazione concorrente, può intervenire con norme di
dettaglio, naturalmente cedevoli rispetto al successivo intervento
regionale.
Infine, debbo dire che non riesco a capire la ratio relativa
all'abrogazione dell'articolo 116, terzo comma della Costituzione. Il
regionalismo italiano è differenziato nei fatti e quel meccanismo
permette una maggiore elasticità nel caso possa rivelarsi utile.
Inoltre, non avrei nulla in contrario per quanto riguarda i ricorsi
della minoranza alla Corte costituzionale, come nel modello francese,
austriaco, tedesco e spagnolo.
PRESIDENTE. Il professor Loiodice ci ha
fornito un intervento scritto e una serie di proposte emendative,
conseguenza del suo ragionamento sull'argomento oggi in discussione.
Do ora la parola al professor Loiodice.
ALDO LOIODICE, Professore ordinario di
diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Bari. Signor presidente, onorevoli deputati, vi
ringrazio per avermi invitato.
Nelle mie osservazioni scritte - che mi
permetteranno di risparmiare molto tempo - ho evitato di ripetere
riflessioni e spunti desumibili dagli interventi precedenti che in gran
parte ho condiviso, specie laddove hanno manifestato sensibilità
costituzionale e capacità critica.
Quindi, mi limito a segnalare solamente alcuni punti che, in gran parte,
si collegano a quanto già detto dai deputati e dai colleghi che mi hanno
preceduto.
Vi parlerò del riparto dei seggi
relativamente al Senato federale (articolo 57, quarto comma);
dell'elettorato passivo (articolo 58); dei senatori a vita (articolo
59); della mancata proroga in caso di guerra del Senato federale
(articolo 60, secondo comma); del quorum strutturale per le
deliberazioni del Senato federale (articolo 64, terzo comma); dello
statuto, dei diritti delle opposizioni e dei regolamenti parlamentari su
questi temi (articolo 64); dei profili attinenti al ruolo dei
parlamentari e, più in particolare, del profilo iniziale della convalida
(articolo 66) e della formula relativa al profilo del mandato imperativo
(articolo 67).
Riguardo la funzione legislativa mi soffermerò sul divieto di
emendamenti (articolo 70, terzo comma) e sulle questioni di competenza
(articolo 70, ultimo comma). Per quanto riguarda il Presidente della
Repubblica mi occuperò della controfirma (articolo 89), e del giuramento
dei ministri nelle sue mani (articolo 93).
Per quanto riguarda la forma di Governo
concentrerò la mia attenzione sui poteri del Primo ministro e lo
scioglimento delle Camere (articolo 88).
Mi occuperò poi del vicepresidente del
Consiglio superiore della magistratura, della reintroduzione degli
obblighi internazionali come vincolo per la legislazione, dell'interesse
nazionale e infine, per quanto riguarda le garanzie, del riparto dei
giudici costituzionali e delle incompatibilità successive alla scadenza
del mandato di giudice costituzionale, che considero una sanzione
postuma.
Per quanto riguarda il riparto dei seggi
relativi al Senato federale sarebbe opportuno un sistema paritario.
Il collegamento dell'elettorato passivo
(articolo 58) alla qualifica rivestita di consigliere in carica o già
consigliere, potrebbe essere rivisto, non avendo la funzione di radicare
il Senato nel territorio ma solo un carattere estetico. Sarebbe
opportuno riesaminare una serie di profili, tuttavia, se si rimane con
questo testo e si chiede solo di suggerire emendamenti, allora, qualcuno
bisogna indicarlo. Questa funzione estetica del collegamento con il
consigliere comunale, regionale o provinciale, cioè la limitazione
dell'elettorato passivo ad un numero così ristretto, non attribuisce al
Senato un rapporto con il territorio, bensì riduce il numero dei
potenziali eleggibili. Quindi, la ritengo una soluzione non
comprensibile. Oppure, si potrebbe anche accogliere questa ipotesi
lasciando che siano i consigli provinciali, comunali e regionali a
stilare un elenco degli eleggibili ogni anno. In questo modo, almeno,
farebbero qualcosa per avere un rapporto con il Senato!
MARCO BOATO. L'alternativa a tutto questo
è avere la residenza un giorno prima!
ALDO LOIODICE, Professore ordinario di
diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Bari. Appunto! Come ho precisato all'inizio, non
intendo dilungarmi oltre in ricostruzioni teoriche. Per ragioni di
celerità di esposizione preferisco esprimere il concetto e poi, ognuno,
potrà accoglierlo nelle sfumature che desidera.
Per quanto riguarda i senatori a vita, non capisco perché debbano essere
solo tre quando poi il Presidente della Repubblica, per altro verso, ha
un potere più elevato in altre questioni.
Per quanto riguarda la proroga in caso di guerra solo per la Camera dei
deputati, mi domando perché si proceda a tale proroga: in caso di guerra
è preferibile non fare elezioni! Allora, perché non si proroga anche il
Senato, contestualmente ai consigli regionali, se proprio la
contestualità deve rimanere in questi termini e con queste modalità?
MARCO BOATO. In quel modo si prorogano
anche i consigli regionali!
ALDO LOIODICE, Professore ordinario di
diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Bari. Difatti, oppure «si spacca» la
contestualità! In altre parole, il Senato federale è un problema che va
risolto. Comunque, se in caso di guerra si fanno venti elezioni di
consigli regionali, a questo punto, possono farsi anche quelle per la
Camera. In un unico giorno si vota tutto: o non si vota, in caso di
guerra, o votano tutti!
Comunque, non mi faccia il cosiddetto «tiraggio»! Alle provocazioni,
poi, sono costretto a rispondere pur in mancanza di tempo!
PRESIDENTE. In Puglia lo chiamiamo
tiraggio!
ALDO LOIODICE, Professore ordinario di
diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Bari. Per quanto riguarda il quorum
strutturale, di cui all'articolo 64, terzo comma, in sostanza, la
validità delle deliberazioni del Senato si ha quando sono presenti i due
quinti dei componenti: inspiegabile! Per quale ragione? Perché non deve
essere presente almeno la maggioranza?
MARCO BOATO. Perché le regole se le sono
scritte i senatori che sono sempre senza numero legale!
ALDO LOIODICE, Professore ordinario di
diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Bari. Per quando riguarda i diritti delle
opposizioni, di cui all'articolo 64, quarto comma, mi chiedo come si può
attribuire il relativo statuto al regolamento parlamentare, approvato
dalla maggioranza. Insomma, se la maggioranza vuole, concede qualche
cosa, altrimenti non concede nulla! Se vogliamo rimanere con questo
testo, per le disposizioni attinenti allo statuto delle opposizioni, si
dovrebbe perlomeno prevedere, magari, una maggioranza di due terzi o di
tre quinti, insomma, una maggioranza tale da inglobare le opposizioni
nell'adozione o nella modifica di tale statuto: almeno questo!
In alcuni vostri interventi ho riscontrato
delle proposte molto interessanti che andrebbero utilizzate e inserite
nel testo, anche se in maniera sintetica. Questo testo, infatti,
presenta alcune ridondanze che andrebbero eliminate (quando, invece,
sono necessarie non ci sono).
Passando all'articolo 66, si deve segnalare che, mentre per la Camera
dei deputati l'insussistenza dei titolo o la sussistenza delle cause
sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità dei parlamentari
sono accettate con deliberazione adottata a maggioranza dei tre quinti
dei componenti l'Assemblea per il Senato federale, invece, si richiede
la maggioranza dei componenti. Mi limito a segnalare questo.
Per quanto riguarda il divieto di mandato imperativo, articolo 67,
interviene la Nazione come ulteriore entità rappresentata dai
parlamentari. Tuttavia, la Nazione è un concetto diverso da quello di
Repubblica (l'ho spiegato nel mio scritto). Si potrebbe, al fine di
evitare ogni problema interpretativo, affermare semplicemente che ogni
parlamentare esercita le proprie funzioni senza vincolo di mandato.
Utilizzando i termini Nazione e Repubblica, la dottrina dovrà impegnarsi
per spiegare il loro utilizzo contestuale.
Per quanto riguarda l'articolo 70, terzo comma, ultimi due periodi, ho
delle perplessità riguardo all'ultima frase, laddove si prevede che sul
testo proposto dalla Commissione paritetica non sono ammessi
emendamenti. Questo è un aspetto ampiamente criticabile! Non è
immaginabile che i meccanismi di eliminazione della dialettica
parlamentare si moltiplichino (già ce ne sono molti). Si può rinviare,
così come propongo negli emendamenti che ho presentato, al regolamento
parlamentare, la definizione di meccanismi di accelerazione o di
riduzione del tempo. Questa è certamente una soluzione più ragionevole.
Per quanto riguarda poi le questioni di
competenza - articolo 70, ultimo comma - in effetti si pongono dei
problemi relativamente alla competenza perché vi è, per legge, una
distinzione per materie: è già difficile individuare le materie per cui,
in caso di conflitto, qualcuno lo deve risolvere, ossia i presidenti o
un comitato paritetico. La cosa può anche andare bene, però non si può
affermare che la decisione non è sindacabile solo in sede legislativa
perché si creano problemi di costituzionalità. Se, infatti, solo le
leggi sono estromesse dal sindacato sulla competenza, a fronte dei
conflitti di costituzionalità sollevati da ognuno, la Corte verrebbe
investita di ogni questione solo perché è competente! Allora, o la
questione viene risolta, definitivamente, secondo un'interpretazione
unica non sindacabile (in questo caso, alla Corte non si può ricorrere),
oppure, si deve prevedere un altro meccanismo! Al contrario, affermare
che, in sede legislativa, la competenza non è attivabile è inutile,
perché rimane sempre l'attivazione costituzionale!
La previsione dell'eliminazione della controfirma, di cui all'articolo
89, terzo comma, del ministro responsabile richiederebbe una riflessione
molto più ampia. Comunque, quanto meno, per la concessione della grazia
da parte del Presidente della Repubblica perché la controfirma non
dovrebbe esserci? Lo stesso discorso valga per lo scioglimento della
Camera: perché non dovrebbe esserci una controfirma? Il problema della
controfirma esiste. Inoltre, in alcuni casi, per alcuni atti,
l'istruttoria viene fatta dagli uffici ministeriali e le carte passano
poi al Presidente che firma. Un po' di esperienza pratica deve essere
tenuta in conto; non si può fare un testo della Costituzione senza
sapere come funziona il mondo! Va bene, non si mette la controfirma, ma
perché? Chi fa l'istruttoria? Il Presidente che fa? Non mi trattengo
oltre su questo punto.
Per quanto riguarda il giuramento dei
ministri, il Primo ministro giura nelle mani del Presidente della
Repubblica: questo mi pare doveroso. Tuttavia, i ministri sono nominati
e revocati dal Primo ministro. Allora, se questo rapporto è forte, il
giuramento è opportuno che avvenga per i ministri nelle mani del Primo
ministro. Perché si deve andare dal Presidente della Repubblica? Questo
è un fatto, ovviamente, puramente estetico.
Il punto della forma di Governo riguardante i poteri del Primo ministro
e la richiesta di scioglimento è quello più delicato. Ebbene, bisogna
cambiare impostazione. Noi non viviamo né sotto un regime presidenziale,
né sotto un regime parlamentare; siamo di fronte ad una sorta di
innovazione costituzionale originale (che potrebbe essere anche
apprezzata), salvo il fatto che il Primo ministro è tutto! È Parlamento,
Governo, politica e anche opposizione (perché se governa la maggioranza,
approva lo statuto delle opposizioni con essa). Mi pare eccessivo; lo
rilevo dal punto di vista puramente tecnico.
Sarebbe opportuno - poiché il Primo ministro concentra in sè molteplici
poteri, ed essendovi la contemporanea esigenza di definire un impianto
capace di assicurare stabilità, ma anche il collegamento tra Presidente
del Consiglio e maggioranza di Governo - che la previsione riguardante
il potere di richiedere lo scioglimento fosse espunta dal provvedimento
approvato dal Senato.
Del resto, un meccanismo idoneo a
garantire efficienza e stabilità governativa esisterebbe già: quello
fondato sul principio per cui le dimissioni presidenziali, seguite ad un
voto non conforme alla proposta presentata dal Governo, determinerebbero
il conseguente scioglimento della Camera. Pertanto, non comprendo le
ragioni che inducono ad introdurre questa ulteriore possibilità.
Senza dilungarmi oltremodo in materia,
vorrei soffermarmi su un'ultima considerazione. In un sistema come
questo, cioè maggioritario, in cui candidati non vengono scelti con le
elezioni primarie, ma nei modi che conosciamo, vi è un forte rischio di
assoggettare la maggioranza parlamentare al Primo ministro. Come è
avvenuto, accadrà, infatti, che il leader della coalizione
esprimerà il suo consenso sui candidati della propria maggioranza: quel
consenso diviene, così, condizione imprescindibile per l'inserimento
della candidatura all'interno delle liste collegate al candidato Primo
ministro. Al momento del rinnovo della legislatura, quello stesso
candidato, per poter essere rieletto, sarà necessariamente soggetto e
condizionato dall'approvazione del leader di riferimento, senza
la quale non verrebbe riconfermato in carica.
Voi capite benissimo questo meccanismo, in
ragioni del quale si afferma un totale assoggettamento della maggioranza
parlamentare alla esclusiva volontà politica del suo leader.
Tutto ciò mi pare eccessivo.
Proseguendo nella mia analisi, in
collegamento a quanto appena evidenziato, vorrei indicare un'altra
previsione che a mio avviso potrebbe ben essere eliminata, quella di cui
all'articolo 88, lasciando inalterato tutto il resto, qualora lo si
ritenga opportuno.
Per quanto riguarda il vicepresidente del Consiglio superiore della
magistratura, oltre al problema economico, se ne pone uno ulteriore;
infatti, la norma, esattamente l'articolo 104, prevede che costui possa
essere scelto tra tutti i componenti del Consiglio stesso. Ciò significa
che anche un magistrato potrà diventare vicepresidente del Consiglio
superiore.
Poiché la composizione del Consiglio
superiore della magistratura è tale per cui il numero dei giudici è
superiore a quello dei membri laici - infatti, la composizione del
Consiglio superiore rimane del tutto invariata - ciò provoca uno
squilibrio complessivo nell'organo. Tale squilibrio, peraltro naturale
in ragione dell'autonomia di cui gode il Consiglio, rischia, però, di
divenire eccessivo. Sarebbe, pertanto, opportuno che il vicepresidente
fosse scelto tra gli eletti dal Parlamento.
Vengo poi all'articolo 117, primo comma,
il quale, a Costituzione vigente, prevede che la potestà legislativa sia
rispettosa non solo dei vincoli comunitari ma anche degli obblighi
internazionali. I dubbi sorti intorno a tale disposto hanno condotto,
nel testo in esame, a sopprimere il riferimento a questo vincolo.
Tuttavia, tale eliminazione appare pericolosissima, per il semplice
fatto che non è sufficiente l'articolo 10 della Costituzione per
garantire il rispetto dei trattati internazionali, con il principio
pacta sunt servanda. È bene dirlo chiaramente: le leggi debbono
rispettare i trattati, ovviamente quelli di cui all'articolo 80 della
Costituzione, cioè i trattati approvati con leggi. Non si può
immaginare, dopo aver approvato un trattato internazionale e averlo
ratificato per legge, che il giorno successivo il Parlamento o la
regione possano adottare un provvedimento normativo che statuisca
esattamente il contrario di quanto contenuto nel trattato stesso,
stipulato poco prima. Non è sufficiente, per evitare tale rischio, il
mero richiamo all'articolo 10 della Costituzione; né è concepibile
vanificare quel cammino faticoso che la stessa giurisprudenza
costituzionale ha compiuto per affermare che i vincoli internazionali
non possano essere ignorati con leggerezza dal legislatore ordinario.
Pertanto, ciò che è stato tolto, ritorni nel testo dell'articolo 117.
Per quanto riguarda l'interesse nazionale,
molto si è detto in proposito. Qualora lo si voglia mantenere nel testo,
mi domando perché debba essere valutato dal Senato federale che, in
teoria, esprime l'orientamento delle regioni. Una legge che violi
l'interesse nazionale dovrebbe, più propriamente, essere valutata dalla
Camera dei deputati, che è l'organo preposto alla legislazione avente
rilievo nazionale. Anche questo è un problema che, ovviamente, si
ricollega al disegno complessivo di riforma. Infine, a proposito del
riparto dei giudici costituzionali, ho già detto che l'attuale
composizione mi pare preferibile per molte ragioni, mentre in relazione
all'incompatibilità successiva alla scadenza del mandato di giudice
costituzionale, la previsione appare eccessiva e sotto certi aspetti
inutile. Innanzitutto, sembra inconcepibile che, decorsi i nove anni di
mandato, un giudice costituzionale, una volta ritornato nelle vita
professionale, universitaria, sociale, non possa avere ingresso in
nessun circuito politico del management pubblico, potendo,
invece, farlo in quello privato. Eppure, nessuno può garantire che un
giudice costituzionale, negli ultimi tre anni di mandato, ad esempio,
possa essere stato influenzato anche da appetiti attinenti al mondo
privato. In tal senso, la previsione mi sembra del tutto inutile.
PRESIDENTE. Ringrazio il professor
Loiodice per l'intervento e la relazione trasmessa a questa Commissione,
certamente utile nello svolgimento dei nostri lavori. L'onorevole Boato
desidera, forse, intervenire?
MARCO BOATO. No, signor presidente, si è
trattato di un errore. Del resto, il professore è stato sufficientemente
esaustivo e chiaro negli argomenti trattati; in ogni caso, per eventuali
profili non toccati dal suo intervento, ricorreremo alla relazione
scritta, che ci consentirà di analizzare, in modo più compiuto e
dettagliato, i nodi problematici relativi al disegno di legge approvato
dal Senato.
MARIA ELISA D'AMICO, Professore
straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di
giurisprudenza dell'Università dell'Insubria. Ringrazio il
presidente e gli onorevoli deputati per avermi convocata in questa sede;
certamente, chi interviene da ultimo ha perlomeno l'onere di
sintetizzare al meglio il proprio intervento, con la maggior chiarezza
possibile.
Cercherò di riuscirvi, avvalendomi in ogni
caso del testo scritto che ho redatto per questa occasione. Mi
riserverò, se possibile, di svolgere ulteriori approfondimenti, qualora
si rivelasse necessario. Il mio testo è dedicato soprattutto ad
un'analisi dei problemi relativi al rapporto fra Stato e regioni,
articolata in tre punti. In primo luogo, mi sono concentrata
principalmente sul significato della cosiddetta devolution e
delle modifiche relative alle competenze esclusive regionali, alla luce
degli interventi interpretativi compiuti dalla Corte costituzionale
sulla riforma del Titolo V. Attualmente, infatti, non possiamo più
leggere, come si faceva fino a solo un anno fa, il rapporto tra
legislazione statale e regionale di cui all'articolo 117 in modo
astratto, essendo piuttosto necessario comprenderne la valenza e le
implicazioni soprattutto al reticolo interpretativo posto in essere
dalla Corte costituzionale nell'ultimo anno. Vi spiegherò, dunque, quale
significato attribuire, secondo la mia interpretazione, alla
devolution considerata in questi termini.
In secondo luogo, intenderei affrontare il
punto relativo all'interesse nazionale, questione molto problematica;
infine, tratterò dei problemi creati dalla previsione del Senato
federale - che secondo molti, cui il mio modesto parere si allinea,
potrebbe essere anche più «federale» - ivi incluse le implicazioni
sull'assetto della forma di Governo, come concepita dal disegno di
legge.
In ordine al tema della devolution,
ovvero a proposito delle modifiche da apportare all'articolo 117, quarto
comma, della Costituzione, mi sono resa conto che parte delle
preoccupazioni iniziali - comprensibili allorché, quella sull'articolo
117, pareva configurarsi come una modifica unica ed autonoma del titolo
V della Costituzione - attualmente non avrebbero più motivo di
sussistere, alla luce dell'impalcatura globale della riforma. In realtà,
quello di cui soprattutto dovremmo preoccuparci - almeno a livello
scientifico - è comprendere quale tipo di operazione ermeneutica la
Corte costituzionale abbia compiuto, a partire da alcune decisioni
importanti recentemente intervenute. Sembra essersi infatti verificata
una netta e percepibile inversione di rotta della Consulta rispetto al
filone giurisprudenziale inaugurato trenta anni fa.
La giurisprudenza costituzionale degli
anni Settanta, si diceva, si è qualificata per aver svuotato di gran
parte del suo significato la previsione di materie di competenza
regionale, in seguito ad una protratta valorizzazione delle prerogative
centrali. Rispetto a tale impostazione, invece, la giurisprudenza
odierna sul nuovo Titolo V, se in parte concede allo Stato, in altra
concede alla regioni, apparendo molto più equilibrata che in passato.
Nel panorama attuale, si profilano però anche alcune tendenze
significative che creano, a mio avviso, una trasformazione - in via
interpretativa - della norma che tutti i costituzionalisti ritenevano
essere la disposizione centrale della riforma del Titolo V. Mi
riferisco, ovviamente, all'articolo 117, quarto comma, secondo il quale
tutte le materie non nominate sono di esclusiva spettanza delle regioni.
La giurisprudenza costituzionale modifica
profondamente il significato dell'articolo 117, quarto comma; nella mia
relazione, ovviamente, cito tutte le sentenze relative e porto una serie
di argomenti, opinabili ma sui quali ho maturato una certa convinzione.
Faccio riferimento, in modo molto sintetico, a tre filoni di
giurisprudenza.
Nel primo, la giurisprudenza della Consulta avvalora l'esistenza di
materie di esclusiva spettanza dello Stato che non devono essere
considerate «materie», ambiti oggettivi definibili ma «funzioni». In
pratica, esse sono in grado di penetrare in qualsiasi materia, e perciò
anche in quelle di competenza esclusiva delle regioni; è una
giurisprudenza in parte condivisibile, ma che in alcuni casi ha un
impatto pesante, arrivando a consentire allo Stato di riappropriarsi, se
vogliamo sposare questa interpretazione, di spazi che ormai si
ritenevano pacificamente conferiti alla autonomia legislativa esclusiva
delle regioni.
Il secondo filone è costituito, almeno per ora, da due sentenze molto
problematiche - le ho criticate molto ed in varie sedi - in tema di
sussidiarietà; in esse, la Corte costituzionale, praticamente, trasforma
profondamente il significato della sussidiarietà. Da principio che nasce
e deve essere applicato a livello amministrativo, avvicinando il potere
pubblico al livello più vicino ai cittadini (quindi, un principio che
spiega la sua natura a partire dal basso) si trasforma in principio che
può consentire allo Stato di riappropriarsi di funzioni dall'alto.
Inoltre, da un principio operante del diritto amministrativo, con la
sentenza n. 303 del 2003, confermata dalla sentenza n. 6 del 2004,
diventa un principio che può consentire allo Stato anche di riacquisire
in via esclusiva competenze legislative concorrenti o, addirittura,
esclusive delle regioni. Quindi, anche questo è un grimaldello con cui
la Corte crea uno strumento tecnico per consentire allo Stato di
riappropriarsi, pian piano, di poteri che si ritenevano pacificamente
conferiti all'autonomia regionale.
Circa il terzo filone, più teorico, sarò molto sintetica (ma, per
fortuna, spero di averlo chiarito sufficientemente nel testo scritto);
vi sono due sentenze interessanti della prima giurisprudenza del 2002 in
cui la Corte dichiara che il termine Parlamento non può essere
utilizzato per i Consigli regionali. In altri termini, nei nuovi statuti
regionali, non si può utilizzare il termine Parlamento in quanto il
legislatore nazionale ha una qualità, una sostanza e, quindi, anche un
nome diverso rispetto a quello regionale. Sono sentenze molto
interessanti, anche queste molto discusse; evidentemente, noi pensiamo
subito al fatto che, invece, in uno Stato davvero federale - per
esempio, quello tedesco - tutti i singoli Länder, nel loro
statuti, utilizzano tranquillamente il termine Parlamento, e nessuno si
è mai scandalizzato. Quindi, anche ciò è un aspetto significativo; se
qualifico diversamente l'organo, chiaramente devo dare una qualità
diversa anche alla fonte. Quindi, è chiaro che questa giurisprudenza
della Corte, in pratica, tende sempre, a mio avviso, a far sì che la
legislazione statale abbia un peso ed un contenuto diverso rispetto a
quella regionale.
Mi rendo conto di fare dichiarazioni che, espresse in tale modo, possono
apparire alquanto gravi; ma voglio sostenere questa tesi in quanto mi
convince scientificamente. Vi è tutta una giurisprudenza della Corte -
le sentenze sono citate nel lavoro - in cui la Consulta, praticamente,
fa esprimere all'articolo 117, quarto comma, esattamente il contrario
del suo significato letterale. Ovvero, la Corte dichiara che la
circostanza che una materia non sia nominata non significa che essa
appartenga alla potestà esclusiva della regione. Quindi, sulla base di
questo assunto, che esprime l'esatto contrario di quanto letteralmente
dichiara l'articolo 117, comma quarto, la Corte riconduce alla potestà
concorrente (ed in alcuni casi addirittura alla potestà esclusiva
statale), materie importanti che la dottrina assegnava pacificamente
alla potestà esclusiva delle regioni perché non erano previste
dall'articolo 117, né al secondo né al terzo comma. Si pensi alla
materia urbanistica, che la Corte riconduce al governo del territorio; a
quella dell'edilizia; a quella dei lavori pubblici. Vi è, inoltre, una
sentenza ulteriormente significativa in tema di mobbing; al
riguardo, l'argomento della regione era il seguente.
Trattandosi, secondo quanto sostenuto
dalla maggioranza della dottrina, di un fenomeno socialmente nuovo, come
tutte le materie nuove esso avrebbe dovuto rientrare nell'elenco delle
competenze esclusive regionali. La Corte dichiara che ciò non è
assolutamente scontato; anzi, pur riconoscendolo come fenomeno
socialmente nuovo, il giudice delle leggi riconduce il tema del
mobbing ad una competenza statale già esistente. Dunque, pur essendo
anch'io molto scettica circa la scelta di nominare alcune materie
nell'articolo 117, quarto comma, tuttavia, alla luce di questa
giurisprudenza costituzionale, nominare queste materie potrebbe
significare, intanto, la necessità di sottrarle ad ulteriori
interpretazioni riduttive da parte del giudice costituzionale. Comunque,
si tratta, a mio avviso, di materie - l'assistenza scolastica,
l'organizzazione sanitaria, la polizia locale - in cui gli aspetti di
disciplina più minuti devono trovare una corrispondenza con i bisogni
dei cittadini; materie che forse, nella storia della legislazione
italiana, sono state anche eccessivamente centralizzate. Già più
problematica, però, è la questione della polizia locale; anche in questo
caso, tuttavia, esistono Stati federali in cui queste materie sono
pacificamente assegnate a livello locale.
Non ritengo, però, che sia né corretto né
possibile sostenere che la semplice introduzione esplicita di queste
materie nell'articolo 117 provochi di per sé la sottrazione ai vincoli
generali, cui tutte le maniere di competenza esclusiva regionale devono
essere soggette. In particolare, trattandosi di materie che riguardano
diritti sociali per eccellenza, è chiaro che l'istruzione e la sanità
sono sicuramente soggette all'applicazione generale dei livelli minimi
essenziali garantiti dall'articolo 117, secondo comma, lettera m).
Naturalmente, come ha già sottolineato il
professore Caravita dianzi, l'introduzione esplicita di una potestà
esclusiva delle regioni non può sovvertire l'assetto a più livelli che
ognuna di queste materie contiene; dunque, a mio avviso, non è né
fondato né possibile sostenere che, semplicemente nominando la materia
istruzione al quarto comma, vengano meno il secondo ed il terzo comma
dell'articolo 117. Si tratterà di ripartire le materie tra le diverse
competenze; del resto, il fatto che una stessa materia possa essere
frazionata tra legislazione esclusiva statale, legislazione concorrente
e legislazione esclusiva regionale è un dato pacifico della
giurisprudenza costituzionale. È proprio su tale campo che la
giurisprudenza della Consulta si sta esercitando, soprattutto per quanto
riguarda l'interpretazione del nuovo titolo V della Costituzione. Non
condivido, in tale senso, le critiche in base alle quali si dichiara che
si farebbe confusione. Invero, la confusione che si è verificata in
questi ultimi due anni, alimentata anche dai conflitti costituzionali,
non ha confronti nel passato. Quindi, non mi pare sussista tale
problema.
Però, mi sembra, invece, importante lasciare alle regioni un nucleo
minimo ma essenziale di materie, nucleo che potrebbe qualificare la
regione come ente politico rispetto ai suoi cittadini, anziché come ente
soltanto amministrativo. A tale riguardo penso all'esperienza di alcuni
Stati federali; ad esempio, all'esperienza della Repubblica tedesca.
Nella Repubblica tedesca la competenza esclusiva dei Länder in
tema di istruzione è un dato pacifico ed è ammirabile una recente
sentenza in cui il Bundesverfassuggericht - il giudice delle
leggi tedesco - sostiene che, con riguardo al problema del velo nelle
scuole, ogni singolo Land, in quanto comunità politica, deve fare
una scelta, eventualmente anche drastica, tale da imporre poi precisi
obblighi agli alunni e agli insegnanti; si dichiara, però, che è una
scelta politica. Il giudice costituzionale tedesco ritiene perciò che vi
siano certe scelte politiche - anche su temi importanti sui quali si
misura il carattere stesso del pluralismo - che devono essere fatte
dalle comunità territoriali. Quindi, questa è la lettura che ho dato
della disposizione.
MARCO BOATO. Si prenda tempo per
respirare, professoressa; non è un minuto in più o in meno che inciderà
sull'economia dei lavori della Commissione.
MARIA ELISA D'AMICO, Professore
straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di
giurisprudenza dell'Università dell'Insubria. Sono abituata a
parlare velocemente; in tal senso, sono forse rimasta influenzata dal
mio maestro, il professore Onida; infatti, a lezione noi studenti, non
capendo, gli chiedevamo a volte di fermarsi.
Vengo ora all'articolo 127; la disposizione del progetto di riforma
reintroduce il limite dell'interesse nazionale ma lo reintroduce
affidando questo potere al Governo il quale, appunto, può provocare una
decisione del Senato federale ed il Senato federale, a sua volta, può
rinviare la legge al Consiglio regionale.
Se il consiglio regionale non si adegua
alle osservazioni del Senato, quest'ultimo può, come sappiamo, rinviare
la legge al Presidente della Repubblica, il quale, in base al disposto
della norma, può annullarla. Chiaramente questa norma è molto
problematica anche perché è sintomo di un disagio. Sembra effettivamente
che nel riparto fra le competenze legislative statali e regionali,
manchi una disposizione, ad esempio come quella tedesca, che consente
allo Stato di intervenire sempre con legge a tutela degli interessi
generali e unitari dello Stato medesimo.
Questo tipo di introduzione, a mo' di
sanzione, comunque preclude allo Stato un intervento attivo. Si tratta
semplicemente di intervento in risposta, cioè si ha paura della regione
che, tutto sommato, segue la sua strada e che questa legislazione possa
essere bloccata. Con una norma di questo tipo, però, si preclude appunto
un intervento unitario di cui lo Stato in alcune materie potrebbe avere
bisogno.
Poi naturalmente, è anche molto
problematica, come detto da più parti, l'introduzione di una forma di
controllo politico affidato in parte al Governo e in parte al Senato
delle regioni, il quale potrebbe avere interessi contrari, e che alla
fine destina una forma di annullamento al Presidente della Repubblica.
Tra l'altro osservavo due aspetti tecnici
che forse varrebbe la pena migliorare. Anzitutto nel testo della norma
si fa spesso ricorso al termine «può». È allora chiaro che con tale
formulazione ognuno di questi organi, il Governo, il Senato federale e
il Presidente della Repubblica, dispone di una quota di potere
discrezionale e, in teoria, potrebbe bloccare in qualche modo la
decisione dell'altro. È poi chiaro che nel testo si potrebbe specificare
meglio a chi spetta la titolarità effettiva del potere; in effetti il
rischio è di una serie di veti reciproci.
Vi è poi il problema di un contropotere del Senato rispetto ad una
decisione del Governo il quale, però, potrebbe avere un interesse
fondamentale all'annullamento di quella legge proprio per riuscire a
concretizzare il proprio indirizzo politico. Ne potrebbe anche scaturire
un momento di attrito, uno dei tanti individuabili fra Senato federale e
Governo.
Un altro aspetto da evidenziare è l'impugnazione che può essere fatta
entro 30 giorni dalla pubblicazione della legge. Potrebbe quindi sorgere
un problema di coordinamento fra questo tipo di giudizio, cioè un
annullamento da parte del presidente della Repubblica, ed un eventuale
giudizio di costituzionalità. La norma non si pone questo problema,
forse dovrebbe porselo la dottrina, ma a quel punto cosa potrebbe
succedere? Tra l'altro, potrebbe il Governo, contestualmente, da una
parte chiedere di annullare la legge per interesse e dall'altra
impugnarla perché è incostituzionale? Oppure una delle due azioni
potrebbe bloccare l'altra?
A questo punto è chiaro che l'azione di
richiesta dell'annullamento potrebbe bloccare l'altra. Sappiamo infatti
che il termine per proporre giudizio di incostituzionalità è di 60
giorni dal momento della pubblicazione; oppure si potrebbe pensare ad
una sospensione dei termini; ma se il Presidente della Repubblica non
procede all'annullamento, il Governo potrebbe sempre ricorrere alla
Corte costituzionale? Questo problema va approfondito, anche perché tale
norma potrebbe rivelarsi un boomerang per gli interessi nazionali nel
momento in cui il Governo non avesse una possibile sponda qualora una
norma sia contraria all'interesse nazionale e sia anche
incostituzionale.
In alcuni contributi della dottrina, con
cui non concordo, si sostiene che, tutto sommato, questa norma è utile
perché così si impedisce alla Corte di creare strumenti, tipo quello
della sussidiarietà, con cui fare emergere e dare voce alle istanze
unitarie, che devono essere sempre presenti. Intanto alcuni strumenti
creati dalla Corte sono discutibili, come quello appunto in tema di
sussidiarietà, poi mi sembra che in questo caso il rimedio sia peggiore
del male.
Sono d'accordo anch'io che questo Senato
avrebbe potuto essere più federale, prevedendo almeno la presenza dei
presidenti delle giunte regionali. Emerge poi il grande problema delle
competenze del Senato, che sono vastissime. Al riguardo però il difetto
sta nel manico, è cioè vastissimo l'elenco contenuto nell'articolo 117,
comma 3, della Costituzione, recante tutte le materie di potestà
concorrente. In linea di principio è giusto che le materie riservate
alla potestà concorrente di Stato e regioni (le leggi quadro, le leggi
cornice) siano realizzate dalla Camera rappresentativa del territorio.
Ciò in teoria è giustissimo, il problema è che materie come la
distribuzione dell'energia, i porti e gli aeroporti, le grandi reti di
comunicazione, sono materie problematicamente assegnate dall'articolo
117, comma 3, della Costituzione, alla potestà concorrente.
Non sono d'accordo con chi in fondo
criticando tutti i poteri assegnati al Senato federale, ritiene però che
sia giusto che questi poteri vi siano. Una parte della dottrina molto
autorevole considera la trasformazione della forma di Governo come
qualcosa di molto pericoloso e ritiene che la figura del Presidente del
Consiglio abbia troppi poteri. Al tempo stesso, pur criticando che
alcuni poteri siano dati al Senato, li si vuole mantenere in forma di
contro poteri.
Allora, se si vogliono creare altri tipi
di garanzie di bilanciamento bisogna seguire strade diverse. Ad esempio
in Svizzera, uno degli Stati federali cui facciamo riferimento, il
referendum è utilizzato in senso ampio, e rappresenta uno strumento
importante per equilibrare il rapporto fra Governo centrale e governi
dei territori. Ultimamente i Länder svizzeri hanno bloccato una
legge federale in tema di sgravi fiscali, che aveva un significato
importantissimo per il Governo centrale, e lo hanno fatto attraverso lo
strumento del referendum. Ad esempio, allora perché non guardare ad
altri strumenti e non concentrare invece tali poteri sul Senato. Perché
a quel punto davvero si rischia sia di costruire male la forma di Stato
e sia che questa abbia una ricaduta sulle forme di Governo la quale non
raggiungerebbe i risultati prefissati.
PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi
che intendano intervenire.
CARLO LEONI. Se ho ben compreso, lei ha
affermato, in materia di devoluzione, che nominare in quanto esclusive,
una serie di materie, può essere utile al fine di evitare che la
giurisprudenza della Corte finisca per non considerare alcuni ambiti
come effettivamente esclusivi delle regioni. Ma se fosse così, allora
bisognerebbe nominarne molte di più, e non limitarsi a quelle elencate.
Non credo sia effettivamente questa la ratio che ha portato a
prendere questa decisione politica.
CARLO TAORMINA. Ho notato che la sua
relazione è incentrata particolarmente sull'articolo 117 della
Costituzione ed i suoi raccordi con la devolution. Le chiedo
allora se ha approfondito o se può farlo (anche per iscritto) il tema
della polizia locale che credo nel nostro dibattito diventerà un tema
centrale. Mi riferisco in particolare sia all'individuazione di ciò che
deve essere inquadrato nella polizia locale - il Senato al riguardo è
stato abbastanza fumoso - sia per quello che riguarda i raccordi tra la
polizia locale e quella dello Stato centrale.
MARCO BOATO. Ringrazio la nostra ospite
sia per la sua introduzione sia per il testo che ci ha consegnato.
Mi pare che non condivida l'ampliamento
del numero dei giudici costituzionali di nomina politica, né condivida
l'esclusione della Camera dei deputati da questa nomina, al riguardo
chiedo conferma.
Mi pare che la professoressa non abbia
affrontato la questione della modifica ipotizzata dell'articolo 138
della Costituzione, che così come è configurata potrebbe addirittura
portare in futuro all'impossibilità di operare nuove riforme
costituzionali, perché l'ipotesi prevista di introdurre un quorum per il
referendum oppositivo comporterebbe, qualunque fosse la volontà dei
cittadini, la non promulgazione della ipotetica futura riforma
costituzionale.
Un'altra questione riguarda l'esclusione, diversamente da quanto
previsto nel testo originario del Governo, di qualunque ipotesi di
scioglimento del Senato; mi interesserebbe conoscere il parere della
professoressa D'Amico. Cosa ne pensa dell'ipotesi di introdurre questa
possibilità in capo ad altri soggetti istituzionali? Allo stato attuale,
infatti, la cosiddetta impossibilità di funzionamento del Senato
potrebbe non avere alcun tipo di rimedio, pur avendo al tempo stesso un
potere molto forte anche in materie che competono l'indirizzo politico
del Governo.
L'attuale comma 4 dell'articolo 117 della
Costituzione stabilisce che spetta alle regioni la potestà legislativa
in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato. Nel testo costituzionale e anche in dottrina
non viene comunemente utilizzato il termine «esclusivo». In dottrina si
preferisce utilizzare il concetto di competenza «residuale». Il nuovo
comma 4, che ingloba ed innova il testo già approvato in prima lettura
da Camera e Senato sulla cosiddetta «devolution», parla di
competenza «esclusiva», termine che la professoressa ha correttamente
utilizzato nella sua relazione odierna. Come tutti sanno il termine
«federale» non compare nell'attuale costituzione, anche se nel dibattito
preparatorio è noto che io e molti altri colleghi lo abbiamo chiamato in
causa per definire la riforma. Dal suo punto di vista, prescindendo
dalla recente giurisprudenza costituzionale, quale è la differenza tra
il vigente comma 4 dell'articolo 117 della Costituzione e quello che si
vorrebbe introdurre, che utilizza il termine «esclusiva» in riferimento
alle materie regolate?
PRESIDENTE. Do ora la parola alla
professoressa D'Amico per la replica.
MARIA ELISA D'AMICO, Professoressa
straordinaria di diritto costituzionale presso la facoltà di
giurisprudenza dell'Università dell'Insubria. Mi riservo di
approfondire le questioni affrontate oggi e di fare avere alla
Commissione un ulteriore testo scritto. Vorrei approfondire in
particolare il problema della polizia locale, sollevato dall'onorevole
Taormina, anche perché mi sto occupando da tempo della mancanza da parte
delle regioni di competenze penali. Indubbiamente, se si decide di
creare una polizia locale occorre trasformare la natura di alcuni reati
e illeciti.
L'onorevole Leoni giustamente fa presente
che bisognerebbe nominare anche altre competenze regionali; dato il
trend giurisprudenziale della Corte costituzionale, in alcuni casi
attualmente questo sarebbe opportuno, poiché in tante decisioni, che
riguardano anche competenze esclusive statali o competenze concorrenti,
le competenze regionali residuali vengono assorbite. In questo caso,
essendoci già un livello generale di istruzione e una competenza
concorrente, può accadere che alle regioni non residui neanche
l'organizzazione scolastica. Stesso discorso vale per la sanità e per la
tutela della salute. Nominare queste competenze regionali significa
comunque mantenere questo aspetto circoscritto.
È vero che la modifica dell'articolo 117 della Costituzione parla di
potestà legislativa esclusiva e, quindi, è chiaro che nell'intento
originario queste materie di potestà regionale siano sottratte a vincoli
generali derivanti o dalle materie statali di competenza esclusiva o,
addirittura, dall'intersecazione con materie di competenza concorrenti.
A mio avviso questa interpretazione potrebbe fondarsi su un aspetto
letterale, tuttavia bisogna considerare anche il concreto assetto ed il
rapporto fra le materie, su cui non possiamo più ragionare in astratto,
perché esiste una giurisprudenza che ha creato un reticolo pesante e
rassicurante per chi non vuole che attraverso questo articolo ogni
regione possa fare ciò che vuole, ignorando anche i livelli minimi
essenziali, non essendoci formule di raccordo. Bisogna tenere conto di
questa giurisprudenza costituzionale, in quanto consente una lettura più
riduttiva e non eversiva, ma anche più condivisibile di questo tipo di
riforma. Tutto sommato se leggiamo l'intera giurisprudenza
costituzionale possiamo vedere che la riforma del Titolo V non ha
cambiato molto l'ordinamento. Se poi pensiamo che le regioni su molte
materie non si sono attivate autonomamente, senza considerare tutta la
vicenda statutaria. È chiaro che questa giurisprudenza, se può,
interpreta la legislazione partendo da quello che esisteva prima; in
questo modo costruisce un reticolo da cui è difficile sottrarsi
semplicemente perché si introduce il termine «esclusiva». Naturalmente
la futura giurisprudenza costituzionale potrebbe anche smentirmi.
La modifica dell'articolo 138 della
Costituzione mi lascia perplessa, ma anche su questo punto vorrei
tornare in maniera approfondita nel testo scritto che invierò
successivamente.
Sul problema dello scioglimento del Senato, sottrarre quest'ultimo dal
circuito della fiducia è, ovviamente, il modo chiaro per attribuirgli la
natura di seconda Camera come nei vari Stati federali. Comunque, non si
può accettare la subordinazione totale della politica locale nei
confronti di quella nazionale, cioè il fatto che, comunque, nel momento
in cui venga sciolto un consiglio regionale, non ci sia un contestuale
rinnovo parziale del Senato. La possibilità di reintrodurre ipotesi di
scioglimento, a mio avviso, sotto certi aspetti potrebbe essere
auspicabile ma potrebbe creare anche molti problemi perché, comunque,
introdurrebbe un nuovo sistema ibrido.
Ritengo che - come ha già detto il
professor Caravita - la composizione della Corte sia molto equilibrata e
passare da cinque a sette, forse, non creerebbe troppi problemi.
Comunque, bisognerebbe ragionare approfonditamente sul fatto che da
questa decisione sia esclusa totalmente la Camera politica. Credo
sarebbe molto più equilibrato, soprattutto se i giudici di nomina
parlamentare rimanessero 7, che fosse il Parlamento in seduta comune ad
eleggere i giudici della Corte costituzionale, come avviene attualmente.
MARCO OLIVETTI, Professore
straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di
giurisprudenza dell'Università di Foggia. Ringrazio il presidente e
la Commissione tutta per l'opportunità che mi viene offerta con questa
audizione. L'oggetto del quale mi occuperò sarà essenzialmente il tema
della forma di Governo, anche perché sulla forma di Stato e sulla
cosiddetta devolution ho avuto già il piacere di intervenire in
questa stessa sede un anno fa; quindi, poiché quel progetto di riforma è
stato trasfuso quasi intatto in una parte del disegno di legge
attualmente sottoposto al vostro esame, si potrà rinviare a quelle
considerazioni, benché si possa registrare qualche modesto progresso
nello scenario complessivo. Nel complesso, comunque, ritengo ancora
valida gran parte delle considerazioni proposte allora.
Quanto alla forma di Governo, vorrei
precisare il punto di vista assunto: la professione che io e il collega
Antonini svolgiamo, quella di professori di diritto costituzionale, ci
porta ad assumere alcune posizioni di partenza, che quasi sempre
prendono avvio dalle teorie del nostro grande padre fondatore, cioè il
barone di Montesquieu; pertanto, vi chiedo di perdonarmi la pedanteria,
se muoverò da una sua brevissima citazione per anticipare quanto tenterò
di spiegare.
Scrive Montesquieu nello Spirito delle
leggi, capitolo quarto, libro undicesimo: «La libertà politica non
si trova che nei governi moderati, ma essa non è presente sempre, in
tutti gli Stati moderati: essa esiste solo laddove non si abusi del
potere. Ma è un'esperienza eterna che ogni uomo che ha del potere è
portato ad abusarne; egli si spinge fino a dove incontra limiti. Perché
non si possa abusare del potere, occorre che, per la disposizione delle
cose, il potere arresti il potere» ovvero - per usare l'espressione in
lingua originale - «le pouvoir arrê te le pouvoir», forse la
frase più famosa della storia del diritto costituzionale. Questo
presupposto rimarrà il riferimento di fondo nel corso dell'esposizione
che vi proporrò.
L'altro punto di riferimento essenziale sarà rappresentato dalla
transizione costituzionale in corso, che tutti, e sicuramente voi meglio
di me, conosciamo. Tale transizione rende tuttora necessario apportare
alla nostra forma di Governo alcune modifiche che, appunto, consentano,
come dice il titolo di un volume recentissimo, curato dai colleghi
Stefano Ceccanti e Salvatore Vassallo, «chiudere la transizione»
apertasi tra il 1992 ed il 1993. Il disegno di legge costituzionale di
cui voi vi occuperete, e sul quale noi esprimeremo un parere, si muove,
appunto, nell'ottica di chiudere la transizione dal regime parlamentare
proporzionalistico e multipartitico ad un sistema - forse non più
parlamentare - maggioritario e bipolare.
Mi sembra si debba muovere da una
constatazione, dal mio punto di vista positiva, consistente
nell'abbandono delle prospettive presidenziali e semipresidenziali che
hanno dominato lo scenario della XIII legislatura. Ritengo che ciò sia
positivo non solo perché questi sistemi sono estranei alla tradizione
costituzionale italiana, ma anche perché si porrebbero in contraddizione
con l'obiettivo di completare la transizione, la quale si sinora
dislocata nella direzione del rafforzamento del Presidente del
Consiglio, non del Presidente della Repubblica. Il disegno di legge si
pone in questo alveo e quindi deve essere verificato rispetto
all'obiettivo che si pone, ovvero occorrerà verificare se le misure che
esso propone siano adeguate al completamento della transizione
menzionata, e se siano proporzionali all'obiettivo (cioè necessarie e
sufficienti, ma non superiori alla misura, per conseguire lo scopo,
anche alla luce di quanto la comparazione costituzionale ci insegna).
Chiedo scusa per essermi dilungato in questa premessa e passo subito a
svolgere alcune considerazioni che potrebbero apparire eccessivamente
tecniche, ma mi sembra sia questo l'approccio che mi viene richiesto in
questa sede. Del resto, i rappresentanti della sovranità popolare siete
voi e voi avete la competenza politica a valutare l'opportunità politica
di una o di un'altra soluzione istituzionale. Le mie considerazioni
tecniche muovono, ovviamente, dai criteri di valore che ho espresso
prima.
Il primo problema da esaminare è relativo
alla formazione del Governo: dal disegno di legge approvato dal Senato
emerge che il Presidente del Consiglio, ovvero il Primo ministro, non
viene eletto direttamente dal corpo elettorale. Anche questo mi pare un
aspetto positivo, che inserisce il modello proposto nella transizione.
D'altro canto, pur essendo collegati alla maggioranza parlamentare, il
Governo e il Presidente del Consiglio avrebbero con essa un rapporto più
complesso di quello delineato dall'attuale Costituzione; in particolare,
si introdurrebbe nell'articolo 92, secondo comma, la formalizzazione
della candidatura alla carica di Primo ministro. Si tratta della
cosiddetta «indicazione» del Primo Ministro. Da questo punto di vista,
non vi sono innovazioni sostanziali, ma semplicemente un consolidamento
di una situazione costituzionale realizzatasi dopo le riforme elettorali
dell'inizio degli anni novanta.
Ciò che mi chiedo, invece, è se sia
necessaria ed opportuna una simile scrivere tale regola, perché, alla
luce del diritto comparato, in nessun Paese europeo, neanche in quelli
ove dal risultato elettorale scaturisce di norma una maggioranza
parlamentare e l'indicazione di un Primo Ministro chiamato a guidarla
(si pensi al caso della Spagna ed alle elezioni del 14 marzo), le
rispettive Carte costituzionali contemplano tale meccanismo di
indicazione, affidandosi, invece, ad uno strumento più noto alla nostra
esperienza, il voto di fiducia parlamentare che segue la nomina da parte
del Presidente della Repubblica, non vincolata (almeno formalmente)
all'indicazione di una candidatura sulla scheda elettorale.
Si possono qui ravvisare, pertanto, alcuni elementi di rigidità ed
eccessi di «razionalizzazione» (per usare categorie note al diritto
costituzionale della prima metà del novecento) che caratterizzano il
disegno di legge costituzionale approvato dal Senato, e che rischiano di
essere controproducenti in un testo costituzionale, il quale, se entrerà
in vigore, dovrebbe avere almeno l'aspirazione di durare per un periodo
considerevole, e non essere troppo connessa alle circostanze in cui ha
visto la luce.
Quanto alla nomina e alla revoca dei
ministri, si è compiuta una scelta assolutamente necessaria e
condivisibile quando è stato previsto quel potere di revoca che la
nostra Costituzione è una delle poche dell'Europa occidentale a non
contemplare (e in proposito, mi sembra vi sia un consenso totale, sia
nel mondo politico, sia in dottrina); ciò che invece può destare qualche
perplessità è, anche in questo caso, un'apparente dettaglio. In primo
luogo, mi riferisco al fatto che la nomina e la revoca siano rimesse
totalmente nelle mani del Presidente del Consiglio. Certamente, ritengo
che nessuno possa ragionevolmente desiderare che questo potere sia
effettivamente condiviso con il Presidente della Repubblica, come anche
il potere di nomina dei ministri, il quale ultimo, nell'attuale
Costituzione, benché formalmente spettante al Presidente della
Repubblica, sostanzialmente rientra nelle attribuzioni del Presidente
del Consiglio.
Ciò che però alcuni hanno sottolineato
(così anche il professor Amato, in base alla sua esperienza, non tanto
di professore di diritto costituzionale, quanto piuttosto di ex
Presidente del Consiglio) è l'utilità della camera di compensazione
rappresentata dalla nomina formale da parte del Capo dello Stato, che
può consentire allo stesso Presidente del Consiglio dei margini di
manovra in più. Apparentemente, quindi, si tratterebbe di una
deminutio ma, nella sostanza, è un'ulteriore margine di manovra
rispetto alla coalizione dalla quale egli proviene. D'altra parte, si
tratta di un check (Montesquieu e Madison ritornano), di un
elemento di controllo che potrebbe risultare utile.
Lo stesso dicasi per la revoca. Ritengo che tale previsione senza un
passaggio in Consiglio dei ministri, fosse anche semplicemente di
comunicazione (con la conseguenza, magari un po' comica, che i colleghi
del Presidente del Consiglio potrebbero apprendere di una revoca
eventuale dai giornali), e senza un controllo del Capo dello Stato, si
tradurrebbe in una mancanza di cautela.
Naturalmente, stiamo ragionando di aspetti
di dettaglio e tuttavia la mia analisi muove proprio da simili dettagli
e lo scenario viene fuori dall'insieme di tutti questi. Dietro queste
modifiche dell'articolo 92 vi è ovviamente l'idea che il Primo ministro
determini la politica del Governo (così come recita l'articolo 95,
secondo comma). Il termine «determina» significa che la sede di
determinazione si sposta nell'organo Primo ministro, il quale diventa
una specie di organo monocratico, anche se, formalmente, il Governo
resta un organo collegiale, per cui non si va verso un assetto di tipo
presidenziale puro.
Per quanto riguarda il terzo punto, cioè l'illustrazione del programma,
così come già accade oggi, dopo la formazione del Governo, il Primo
ministro si presenta alle Camere per la sua illustrazione. Questo atto è
configurato dal disegno di legge di riforma come giuridicamente
obbligatorio, come accade nella situazione attuale, ma la differenza
rispetto ad oggi è che non vi sarebbe più un voto di fiducia iniziale, e
che si adotterebbe il meccanismo della cosiddetta fiducia presunta,
proprio perché il Primo Ministro verrebbe indicato dal corpo elettorale
sulla base delle candidature a tale carica nell'ambito del procedimento
per l'elezione della Camera dei deputati.
A questo proposito, mi permetto di
sottolineare un'ipotesi che forse non è stata evidenziata finora.
L'articolo 92 del disegno di legge di riforma muove dall'idea che la
legge elettorale favorisca la formazione di una maggioranza: «la legge
disciplina l'elezione dei deputati in modo da favorire la formazione di
una maggioranza collegata al candidato alla carica di Primo ministro».
Questo «favorire» la formazione di una maggioranza può esser un
obiettivo già raggiunto dall'attuale legge elettorale, magari
perfezionata da una riforma della stessa; tuttavia, «favorire» non è
«garantire». Del resto, per immaginare leggi elettorali che assicurino
la formazione di una maggioranza, o si adotta un sistema del tipo di
quello in vigore per i comuni o per le regioni (che però è nettamente
diverso rispetto a quello previsto attualmente per il Parlamento) oppure
la certezza del risultato non c'è. Anche nel notissimo sistema inglese,
identico al nostro ma senza la quota proporzionale,
ci sono stati casi in cui nessun partito
ha conquistato la maggioranza in Parlamento, soprattutto nell'Ottocento,
ma anche in tempi relativamente recenti: da ultimo, nel febbraio del
1974, le elezioni in Inghilterra partorirono quello che, tecnicamente,
viene chiamato un hung Parliament, un Parlamento appeso, proprio
perché privo di maggioranza.
Allora, la questione che dobbiamo porci è che cosa succeda in questo
caso. In altre parole, se la legge elettorale non assicura, non
determina, la formazione di una maggioranza e non c'è più il voto di
fiducia iniziale, ne segue che - è la soluzione implicita nel sistema -
il Presidente della Repubblica nominerà un Primo ministro di minoranza.
A questo punto, però, si ha un paradosso, perché questo Premier
di minoranza sarebbe protetto dalle stesse clausole di garanzia del
Governo che proteggono un Premier avente dietro di sé una
maggioranza. Anzi, costui risulterebbe più protetto perché non vi
sarebbe la possibilità di sostituirlo in caso di utilizzo del potere di
scioglimento ai sensi dell'articolo 88, perché per la sostituzione del
Primo Ministro tale disposizione richiede una mozione di sfiducia
firmata dalla maggioranza dei deputati che sostengono il Governo. Poiché
tale maggioranza non vi sarebbe, perché le elezioni non l'hanno
prodotta, il Premier di minoranza sarebbe protetto di più di uno
maggioritario.
Questa è una mia ipotesi di lettura e può
darsi che abbia interpretato male il testo, ma la ritengo una
contraddizione di cui bisognerebbe farsi carico.
Un ulteriore punto, a mio avviso
particolarmente delicato (uno di quei dettagli apparenti con cui il
disegno di legge introduce disposizioni fortemente problematiche)
riguarda la questione di fiducia.
Come sapete, si tratta di uno strumento
noto alla prassi parlamentare e previsto dai regolamenti di Camera e
Senato. Ben diversa, però, sarebbe la questione di fiducia prevista
dall'articolo 94, secondo comma, di questo disegno di legge perché qui
si combinerebbe il voto di fiducia - la questione di fiducia, appunto -
e il voto bloccato.
Si potrebbe obiettare che ciò accade già
oggi. Quando, infatti, il Governo pone la questione di fiducia,
l'oggetto di tale questione è bloccato: l'articolo viene votato così
com'è, decadono gli emendamenti e su di esso si vota prima che su
qualsiasi altra proposta.
Però, oggi, questa possibilità è limitata esclusivamente ad un articolo,
ad un emendamento, ad una mozione o ordine del giorno, ad una
risoluzione, mentre non è possibile porre (almeno allo stato della
prassi e fatte salve evoluzioni recentissime di cui non sono a
conoscenza) la questione di fiducia sull'intero disegno di legge.
Inoltre, alcuni disegni di legge sono esplicitamente o implicitamente
esclusi da questa previsione. Per esempio, ciò vale per le leggi
costituzionali. Tale ipotesi è stata sollevata proprio nel corso di
questa legislatura, ma mi sembra prevalente l'idea di escluderla, posto
che la ratio stessa della legge di revisione costituzionale
dovrebbe portare ad escludere la questione di fiducia su di essa.
Inoltre, attualmente, la decisione di porre la questione di fiducia
viene presa dal Presidente del Consiglio il quale, però, propone tale
decisione al Consiglio dei ministri, che esprime un assenso, secondo la
legge n. 400 del 1988.
Invece, in questo caso, avremmo una
questione di fiducia decisa esclusivamente dal Primo ministro: non c'è
nessun riferimento al Consiglio dei ministri. In astratto, potrebbe
riguardare qualsiasi oggetto: una legge costituzionale, la verifica
delle elezioni, l'autorizzazione a procedere (magari, di un deputato
dell'opposizione). In altre parole, se non ci sono oggetti esclusi, la
questione di fiducia si potrebbe applicare ad ogni caso.
Si potrebbe rispondere che limiti potrebbero essere previsti dai
regolamenti parlamentari, ma mi permetto di obiettare che, una volta
prevista la suddetta ipotesi in Costituzione, risulterebbe più difficile
circoscriverla nei regolamenti parlamentari. Resterebbe, inoltre, la
novità della questione di fiducia su un intero disegno di legge); è vero
che, attualmente, si usano degli escamotages, come i
maxiemendamenti, ma, a parte il fatto che si tratta di deviazioni che,
forse, prima o poi, bisognerebbe decidersi a definire incostituzionali,
si tratta sempre di escamotages particolarmente complessi, che
comunque vengono usati, in genere, una volta ogni due o tre anni (il più
delle volte nel corso dell'esame della legge finanziaria).
Ad ogni modo, in caso di voto contrario, così come recita l'articolo 94,
secondo comma, il Governo si dimette e può chiedere lo scioglimento
della Camera al Presidente della Repubblica. Qui abbiamo veramente
qualcosa che è ignoto al diritto comparato perché dalla minaccia di
dimissioni (questo è, in sostanza, la questione di fiducia, posto che o
si approva una certa misura o il governo si dimette) si passa alla
minaccia di scioglimento.
Quindi, siamo oltre il meccanismo analogo della Costituzione della
Quinta Repubblica e, forse, oltre la stessa prassi parlamentare inglese.
È vero che il Senato, rispetto al testo governativo, ha modificato
leggermente questa formulazione. Nella versione originaria, infatti, si
diceva che - in caso di voto contrario - la Camera avrebbe dovuto essere
automaticamente sciolta: è stato quindi apportato un correttivo che va
apprezzato, pur restando dal mio punto di vista eccessivo l'intero
meccanismo; si prevede che, nel caso di voto contrario sulla questione
di fiducia, il Primo ministro possa chiedere lo scioglimento (che,
quindi, non è automatico). In realtà, il Primo ministro potrebbe
rendersi conto di essere, al limite, non ricandidabile nella sua stessa
coalizione e, quindi, rinunciare a chiedere lo scioglimento. Si
applicherebbe, allora, il famoso articolo 88, secondo comma, cioè, la
scelta di un nuovo Primo ministro da parte della maggioranza uscente. Le
condizioni di realizzabilità della sostituzione in corso del Primo
ministro rimangono, comunque, molto gravi. Anche in questo caso, si
mette in moto un automatismo da cui è poi difficile tornare indietro.
Sottolineo anche che la questione di
fiducia è un'arma rivolta più contro i dissidenti interni alla
maggioranza che contro l'opposizione. Questo mi sembra abbastanza
evidente ed è stato così anche prima del 1988, quando essa serviva per
fare venire allo scoperto i franchi tiratori.
C'è anche una pseudo-questione di fiducia, prevista al Senato, cui
accenno senza entrare nel merito, dove si intravede, tra l'altro, la
difficoltà di coordinare questa forza del governo alla Camera con la
forza di resistenza che ha il Senato (so che di questo punto si occuperà
specificamente il collega Antonini e non vado oltre questo cenno).
Qualche parola vorrei però spenderla anche
sul potere di scioglimento della Camera dei deputati, che ha già fatto
capolino nel meccanismo che ho appena citato. Viene introdotta
dall'articolo 88, primo comma, la proposta di scioglimento da parte del
Primo ministro sotto la sua esclusiva responsabilità. Si introduce così
una formulazione che è presente nell'articolo 115 della Costituzione
spagnola del 1978. Si prevede però la possibilità di bloccare la
richiesta di scioglimento con la presentazione di una mozione di
sfiducia costruttiva, che però non viene chiamata così perché questo è
uno dei meccanismi che generano panico in buona parte della classe
politica - non so il perché - e in tanti miei colleghi. Personalmente,
invece, appartengo a quel gruppo di pochi «indiani» superstiti che
considerano questo meccanismo la chiave della razionalizzazione del
Governo parlamentare.
Si tratta, però, di una sostanziale sfiducia costruttiva, molto diversa
da quella spagnola e tedesca; infatti, quando in Spagna il Primo
ministro (lì denominato Presidente del Governo) chiede al Re lo
scioglimento delle Cortes, se l'opposizione ha già presentato una
mozione di sfiducia costruttiva il potere di scioglimento risulta
paralizzato, ma solo nel caso in cui venga eletto successivamente un
nuovo Governo. Quindi, il risultato sostanziale del meccanismo spagnolo
(e, ancor più, di quello tedesco) prevede che nella contesa tra sfiducia
costruttiva e scioglimento, in qualche modo prevalga la prima. In questo
caso, invece il potere di scioglimento del Primo ministro può essere
bloccato soltanto con il famoso meccanismo previsto dall'articolo 88,
secondo comma, già citato in precedenza.
Vi è qui il fenomeno delle cosiddette norme antiribaltone, una
peculiarità italica che si spiega con quello che il professor Elia ha in
passato chiamato horror ribaltonis. Si tratta di uno dei dati
ricorrenti del costituzionalismo italiano degli anni Novanta, la cui
ratio è sicuramente condivisibile. Penso sia un'acquisizione della
nostra cultura costituzionale dell'ultimo decennio far sì che i governi
coprano un'intera legislatura. Al riguardo, il problema è rappresentato
dal costo che si è disposti a pagare per raggiungere questo obiettivo,
l'eccesso di rigidità che talora si introduce per raggiungerlo e, forse,
la lesione dell'articolo 67 della Costituzione; quest'ultimo, certo, può
vedere ridefinito il proprio significato da una legge di revisione
costituzionale, ma c'è da chiedersi se talune forme di irrigidimento
della rappresentanza politica non finiscano per porsi in tensione con il
principio supremo della democrazia rappresentativa, il quale rappresenta
forse un limite alla stessa revisione costituzionale.
La mobilità dei parlamentari e di parti
delle coalizioni certamente è da considerarsi un'anomalia che dovrebbe
essere ricondotta entro limiti più ridotti rispetto a quelli che abbiamo
conosciuto negli anni novanta. Si tratta però di un fenomeno che non può
essere eliminato in radice. Il caso più noto di transfuga parlamentare
del Novecento è quello di Winston Churchill che da membro del partito
conservatore passò con i liberali. In seguito egli tornò a far parte
dello schieramento d'origine, divenne Primo ministro e guidò il suo
paese verso il raggiungimento di risultati non marginali.
Passando alla mozione di sfiducia,
prevista dall'articolo 94, essa, ove approvata, produrrebbe in primo
luogo l'obbligo di dimissioni del Governo e, in secondo luogo, lo
scioglimento automatico della Camera. In questo caso si nota, a mio
avviso, questa particolare passione per gli automatismi costituzionali -
che nello scorso decennio ha segnato anche altre riforme come, ad
esempio, la riforma di governo regionale - che, probabilmente, porta il
sistema delineato nel disegno di legge costituzionale sottoposto al
vostro esame fuori dal calco del Governo parlamentare, poiché in questo
caso il Parlamento viene privato in radice della possibilità di
esprimere un nuovo Esecutivo. Neanche in Inghilterra, del resto, la
sfiducia produce automaticamente lo scioglimento anche se, di solito,
quest'ultimo è l'effetto più ricorrente.
Per quanto riguarda il Senato federale vi
sono due possibili letture: si può trattare di un rafforzamento
ulteriore del Primo ministro - poiché non vi è più il bicameralismo
perfetto -, oppure - poiché il Senato è potenzialmente sottratto
all'indirizzo di maggioranza - di un vero e proprio freno.
In questo caso, aleggia un equivoco molto
diffuso, rappresentato dal «Senato di garanzia» che si intreccia con il
modello del Senato rappresentativo delle entità territoriali. Non è
chiaro quale sarà il volto di questo Senato, non vi sono meccanismi
evidenti affinché si possa trattare di un Senato rappresentativo delle
regioni, e ciò perché l'unico meccanismo finalizzato a fare del Senato
la Camera delle Regioni (la contestualità tra l'elezione dei consigli
regionali e l'elezione del Senato) può produrre due opposti effetti: la
regionalizzazione del Senato o, al contrario, la «nazionalizzazione»
delle elezioni regionali, che si è verificata ad esempio nelle elezioni
regionali francesi dello scorso aprile. In quest'ultimo caso, il fatto
che le elezioni di tutti i Consigli regionali abbiano avuto luogo nella
medesima data, ha prodotto una dinamica politica di tipo nazionale, che
ha sanzionato il Governo in carica. Nel caso italiano, si verificherebbe
una doppia omogeneizzazione: dei risultati delle elezioni dei diversi
Consigli regionali fra loro e del risultato delle elezioni senatoriali.
A questo punto del discorso vorrei proporre un raffronto tra il disegno
di legge di riforma costituzionale e il testo A dell'articolato Salvi
che, a mio avviso, avrebbe meritato miglior sorte nella scorsa
legislatura. Com'è noto, nell'ambito della Commissione bicamerale
presieduta dall'on. D'Alema furono presentati dal relatore sulla forma
di governo, on. Salvi due testi alternativi: il testo A, che prevedeva
un modello paragonabile a quello attuale, ed il testo B che descriveva
un modello semipresidenziale. Tra i due prevalse il secondo, in
circostanze un po' rocambolesche che molti ricorderanno.
Nel testo A dell'articolato Salvi,
effettivamente, sono presenti forti analogie con il testo che in questi
mesi state esaminando: la nomina e la revoca dei ministri da parte del
solo Primo ministro, la proposta di scioglimento e la candidatura alla
carica di Premier. Vi sono però anche alcune differenze, tutt'altro
che marginali; in primo luogo, non era prevista la questione di fiducia,
ma veniva semplicemente contemplato il potere di chiedere di votare un
provvedimento entro una data determinata. Tra l'altro, non vi era lo
scioglimento automatico in caso di sfiducia, mentre era prevista la
sfiducia costruttiva che avrebbe paralizzato il potere di scioglimento:
dunque, si tratta di due scenari ben diversi.
Il testo A dell'articolato Salvi ci avrebbe portato ad un regime
parlamentare europeo (Spagna, Germania, Svezia), mentre il testo di cui
discutiamo oggi ci porta ad esplorare una terra sconosciuta nell'ambito
del diritto costituzionale.
Se facciamo riferimento ad altre forme di
governo, avremo un Premier più forte del Presidente americano -
naturalmente facendo i dovuti rapporti tra le dimensioni e l'importanza
dei due Paesi (e tenendo conto, in particolare, del fatto che negli
Stati Uniti il potere del Presidente si dispiega soprattutto in politica
estera, settore che lì ha molta più importanza che da noi) - sia, per
alcuni aspetti, del Presidente francese. Tra l'altro, nel caso della
Francia sono previsti alcuni checks che da noi mancano, come, ad
esempio, il ricorso delle minoranze alla Corte costituzionale.
Per quanto riguarda Israele - dove il
Primo ministro, tra il 1996 e il 2001, veniva eletto direttamente - vi
erano una serie di casi in cui non si prevedeva l'automatismo dello
scioglimento, ma soprattutto vi era un sistema proporzionale puro con
uno sbarramento all'1,5 per cento il quale impediva che il Primo
ministro avesse una maggioranza organica disposta a sostenerlo. Dunque
il Premier delineato nel disegno di legge di riforma sarebbe più forte
anche del Premier elettivo israeliano.
L'unico parallelo possibile è quello con
il sistema britannico, ma anche in questo caso, a mio avviso, vi è una
differenza fondamentale. In Inghilterra, infatti, vi è un check,
un sistema di controllo fortissimo, sia nei confronti del Primo ministro
sia nei confronti del capo dell'opposizione, rappresentato dal partito
al quale il Premier (o il leader dell'opposizione) appartiene. Il
partito è di solito lo strumento principale che dà forza al Primo
Ministro e che lo sostiene lealmente in Parlamento, consentendogli di
realizzare il programma politico sulla base del quale il Premier e il
suo partito hanno vinto le elezioni parlamentari. Ma il partito è anche
la principale sede di controllo del potere del Primo Ministro, in quanto
è qui che talora naufragano le scelte politiche più impopolari (che
rischierebbero di far perdere al partito di maggioranza le elezioni
successive, o anche la sua identità politico-programmatica). E si
possono ricordare molti casi, più o meno recenti, dalla caduta - nel
1990 - della signora Thatcher per l'impopolarità della poll tax
da essa voluta alla fine degli anni ottanta, sino alle recenti
resistenze incontrate dal governo di Tony Blair su questioni-chiave come
l'intervento in Irak e la riforma del sistema educativo, oppure, se si
vuole guardare al capo dell'opposizione, alla sfiducia del gruppo
parlamentare che nell'ottobre scorso ha travolto il leader conservatore
Iain Duncan Smith. Tutti episodi che dimostrano una forza del partito
rispetto al Premier che manca nel nostro Paese, ove semmai la resistenza
principale viene dalla struttura delle coalizioni (che non a caso
verrebbe colpita duramente con la questione di fiducia prevista in
questo progetto).
Vorrei concludere il mio intervento ponendomi una domanda un po'
provocatoria e, se volete, un po' paradossale. È chiaro che il progetto
di riforma sottoposto al vostro esame prevede un notevolissimo
rafforzamento del Primo ministro.
Mi chiedo se questa non sia l'unica
risposta alla grande domanda che, forse, tutti dovremmo porci.
Sconfinando leggermente dal mio campo, vorrei accennare al processo di
declino del nostro Paese, in vari campi, dall'economia, alla società, in
particolare dal punto di vista demografico. È evidente che non si tratta
di un declino legato, almeno nei suoi effetti decisivi, ad una concreta
maggioranza parlamentare, ma esso impone di porci altre domande, ben più
radicali. Il nostro sistema democratico (e in particolare le regole
sulla formazione della rappresentanza) è idoneo a far fronte a questo
declino e a ridare al Paese capacità di futuro? L'unica risposta può
essere davvero il potere personale forte del Primo ministro?
Ricordo che le ACLI recentemente hanno lanciato la proposta, che ha
destato una certa eco, di attribuire il voto dalla nascita, facendo
votare, per delega, fino ai diciotto anni, le madri in nome dei figli.
La finalità è quella di orientare la competizione politica soprattutto
su questioni che interessino le famiglie con figli e le giovani
generazioni e che diano pertanto apertura al futuro, in una società
soggetta a rapido invecchiamento. Mi chiedo se questo non sia un
segnale, insieme a tanti altri, dell'esigenza di trasformare le
strutture della rappresentanza per rendere la nostra democrazia idonea
ad affrontare le sfide e se non sia semplicistica una risposta basata
solo su Primo ministro molto forte (forse, troppo).
PRESIDENTE. Ringraziando il professor
Olivetti, do ora la parola al professor Antonini.
LUCA ANTONINI, Professore straordinario
di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Padova. Signor Presidente, onorevoli deputati,
ringraziando per questo invito, ricordo che questa è la terza volta, nel
giro di due anni, che vengo ascoltato presso questa Commissione sui
medesimi temi. Rinviando, perciò, a quanto già rilevato in precedenti
audizioni su questioni come, ad esempio, la devolution, vorrei
lanciare una provocazione.
Leggendo una rivista giuridica della fine
degli anni '80, ci troveremo, sicuramente, la sconsolata, tranquilla
certezza che nulla sarebbe cambiato. I costituzionalisti, già allora,
scrivevano che era tempo di riforme per adeguarsi ad un contesto
profondamente cambiato, ma avevano la certezza che nulla sarebbe stato
portato a termine nei prossimi anni.
Gli anni '90, invece, sgretolano un assetto che, fino a poco prima,
sembrava incrollabile: la democrazia italiana viveva nel limbo disegnato
nel 1947 e la nostra Costituzione risultava di fatto blindata, non
essendovi stato mai alcun suo mutamento, a differenza dell'esempio
costituzionale tedesco, che, in particolare, riguardo al rapporto tra
Länder e Stato centrale, ha subito più di venti cambiamenti.
In quegli anni, appunto, parte il
movimento di riforma; tra le tante scintille, quella principale è
rappresentata dalla vicenda «Tangentopoli», scintilla patologica,
quindi, non certo fisiologica. Questo è un dato che merita di essere
preso nella dovuta considerazione, perché spesso ha rischiato di
favorire la deriva verso il cosiddetto decisionismo, dimostrata, ad
esempio, dalla risicatissima maggioranza con la quale è stata approvata
la riforma del titolo V della Costituzione.
Si prescinde dalla capacità di tenuta del
sistema, come si può constatare dalla mancata adozione definitiva dello
statuto da parte delle regioni, dopo cinque anni dall'approvazione della
riforma ad essi relativa.
Assistiamo a fenomeni come la sentenza n.
265 del 2003 della Corte costituzionale che mette fuori campo tutti i
regolamenti delle giunte regionali, nonostante ci siano state
dichiarazioni degli organi statali che creavano un legittimo affidamento
in relazione a quei regolamenti.
A mio avviso, il contrappasso di questo decisionismo è evidente: c'è una
distanza tra paese reale e paese legale, testimoniata dalla scarsissima
partecipazione popolare al primo referendum costituzionale della storia
della Repubblica italiana, quello del 7 ottobre 2001 relativo alla
riforma del titolo V della Costituzione cui, infatti, partecipano
pochissimi italiani, sebbene riguardi una trasformazione epocale del
nostro ordinamento.
Questo test ha dimostrato che il gap tra paese reale e paese
legale non si risolve semplicemente con le alchimie dell'ingegneria
costituzionale, in quanto la questione attiene non tanto al rapporto tra
le istituzioni quanto a quello tra le stesse e i cittadini.
Vorrei focalizzare quali sono le contingenze che caratterizzano questo
progetto. Già subito dopo l'approvazione della riforma del titolo V, si
parla di riforma della riforma. L'esigenza viene quindi immediatamente
manifestata e arriva a concretizzarsi in due tentativi diversi,
approvati dal Consiglio dei ministri: la riforma costituzionale La
Loggia ed il disegno di legge costituzionale sulla devolution, la
prima superata dal progetto in discussione ed il secondo in esso
inglobato.
Guardando alle caratteristiche della
contingenza storica del progetto oggi in discussione, si constatano dati
davvero interessanti: anzitutto, non è, come qualcuno crede, il frutto
di una pensata estiva, perché rappresenta la sintesi di proposte
avanzate in più occasioni sia dalla maggioranza dall'opposizione; cade
poi in un momento in cui, in Parlamento, c'è una maggioranza in grado di
decidere, la quale non sa, però, almeno stando ai sondaggi, se sarà tale
nella prossima legislatura, per cui le regole che verranno poste adesso
potrebbero andare a vantaggio di quella che oggi è la minoranza.
C'è quindi una condizione ambientale, da
un certo punto di vista, ideale al lavoro su questi aspetti della
Costituzione. In particolare, i capitoli interessati attengono al
premierato, al Senato federale, all'interesse nazionale, e alla
devolution.
Riguardo alla forma di Governo, il
professor Olivetti si è già soffermato con attenzione facendo
riferimento all'esigenza di un Premier indicato e di un rapporto
non più semplicemente di elezione ma di determinazione dell'indirizzo
politico e di sovraordinazione rispetto ai ministri.
Ritengo che, nel progetto iniziale,
probabilmente, era troppo sacrificato all'altare della stabilità il
ruolo della Camera dei deputati ed il rischio di una deriva verso una
democrazia plebiscitaria era effettivamente alto.
A mio avviso, si poteva parlare
dell'oltranzismo del «tutti a casa», in quanto il meccanismo per il
quale dalla posizione della fiducia da parte del Premier
conseguiva lo scioglimento automatico effettivamente sembrava ridurre il
Parlamento - come qualcuno ha detto - ad «una caserma agli ordini del
Primo ministro». Reputo, quindi, opportuni i temperamenti introdotti nel
passaggio al Senato.
C'è da dire che la giustificazione al
rafforzamento di quel principio simul stabunt simul cadent così
forte è stata ravvisata nell'esigenza di rispettare nell'elezione del
vertice dell'Esecutivo, quella sovra rappresentazione analoga alle
elezioni tipiche delle forme di governo di transizione, ove vi è un
premio in seggi per la maggioranza. Credo però che questo sia un
argomento che prova troppo; in fondo, anche ogni parlamentare è eletto
direttamente.
Mi sembra, quindi, che la sintesi di
bilanciamento tra l'esigenza della stabilità e quella della
democraticità sia stata opportuna, pur con i limiti che ha messo in
evidenza il collega Olivetti.
Evidentemente il modello del 1947 sacrificava la capacità decisionale
rispetto all'esigenza di garantire la massima democraticità ad un paese
che usciva da una esperienza totalitaria. Oggi le richieste sono
diverse, dobbiamo fronteggiare un'evoluzione che richiede decisioni
veloci che sono difficili da garantire con mille parlamentari che
deliberano una legge; quindi, occorre un nuovo punto di equilibrio.
Secondo me, però - e qui torno alla
considerazione iniziale sul rapporto tra ai cittadini con le istituzioni
- il rafforzamento dei poteri del Premier deve essere bilanciato
- per far fronte alle sfide che vengono da un contesto che è cambiato e
non è più quello del 1947 - da una rete di salvataggio; altrimenti, il
rischio della personalizzazione del potere è forte. Occorre quindi
ridare protagonismo alla sovranità popolare, che non si esaurisce
semplicemente nel voto, ma si esprime anche in altre forme; come
dicevano già Crisafulli ed Esposito «non basta votare per essere
liberi».
A tal proposito penso alla modifica che è
stata fatta al Senato all'articolo 118, al principio di sussidiarietà
orizzontale che ritengo molto importante. Il testo vigente prevedeva una
«larva» di sussidiarietà orizzontale quando recita: «Stato, regioni,
città metropolitane, province e comuni favoriscono l'autonoma iniziativa
dei cittadini». Nel testo approvato dal Senato, invece, il potere
pubblico riconosce e valorizza l'autonoma iniziativa dei cittadini;
quindi, la «larva» diventa «farfalla», perché si usa lo stesso predicato
che viene utilizzato nell'articolo 2 della Costituzione, quando si parla
dei diritti inviolabili dell'uomo e delle formazioni sociali, cioè c'è
riferimento a qualcosa che preesiste, come è giusto che sia. Non si
tratta più della gentile e graziosa concessione del potere a favore
dell'autonoma iniziativa dei cittadini, ma del rispetto di qualcosa che
viene prima.
Questa, penso, sia un'evoluzione
importante che rende giustizia - almeno più di prima - alla tradizione
di welfare society che è stata una delle migliori caratteristiche
della storia italiana e implementa la rete di salvataggio che è data,
appunto, dal protagonismo della società civile che diventa qualcosa di
indispensabile in un sistema bipolare, dove governa un Premier
rafforzato; altrimenti, ci sarà sempre, di fronte a questa tendenza alla
personalizzazione del potere, il rischio di una distanza tra paese
legale e paese reale.
Su tale punto sarebbero ancora auspicabili passi in avanti per combinare
sempre più strettamente sussidiarietà verticale ed orizzontale. La
sussidiarietà è importante anche perché dà una nuova tutela alle
autonomie funzionali, di cui alcune - come le Camere di commercio -
erano rimaste «orfane» di protezione costituzionale; ciò non era in
sintonia con un'idea di federalismo moderno, come si è cominciato a
configurare negli ultimi anni, parlando di decentramento polifunzionale,
quindi del trasferimento delle funzioni statali, non solo agli enti
territoriali, ma anche alle autonomie funzionali. Quindi, la tutela
costituzionale delle autonomie funzionali è, assolutamente, in linea con
un'ottica di federalismo moderno che sappia coniugare libertà ed
efficienza.
Mi propongo adesso di affrontare il punto più delicato che è quello
riguardante il Senato federale, su cui le opinioni sono tante e, per la
maggior parte, critiche anche all'interno della dottrina. Io ritengo,
invece, che era difficile fare meglio su questo punto. Già Mortati nel
1947 diceva che il sistema regionale italiano (parlava delle poche
competenze che le regioni allora avevano) necessitava di una
rappresentanza a livello nazionale. In un discorso all'Assemblea
costituente affermava: «La riforma regionale non sarebbe completa, essa
anzi sarebbe frustrata nei motivi e negli intendimenti che hanno
informato l'istituzione, sarebbe deviata dalle finalità politiche che
l'hanno promossa, se non trovasse il suo svolgimento e la sua
collocazione nell'ordinamento del Parlamento (...). Donde la necessità
di dare alle regioni una voce specifica in Parlamento...». È necessario
rendersi conto che il bicameralismo paritario italiano, già allora, era
una anomalia rispetto a tutti gli altri sistemi; nasceva, infatti, per
garantire la massima democraticità ad un paese che usciva da un
esperienza totalitaria.
La mancanza di una Camera territoriale è
la più grande lacuna del titolo V della Costituzione, che lo rende
realmente ingestibile; infatti, il sistema delle conferenze andava bene
in un modello di federalismo solo amministrativo, mentre in un contesto
di federalismo legislativo i poteri limitati concessi a tali organi non
sono più adeguati.
Tale assenza rende ingestibile la riforma del titolo V della
Costituzione e ciò è dimostrato dall'enorme e spaventoso contenzioso
costituzionale che si è sviluppato nel giro di pochissimo tempo.
Credo che la Bicameralina possa essere
ritenuto un palliativo assolutamente inadeguato; infatti, ogni disegno
di legge riguardante le materie regionali avrebbe dovuto essere
esaminato in cinque sedi: Conferenza dei presidenti delle regioni,
Conferenza unificata, Bicameralina, Camera dei deputati e Senato della
Repubblica, con navette, ogni qual volta che veniva introdotta
una modifica. Tutto ciò complicava e rendeva ingestibile il procedimento
legislativo, in un contesto che richiede decisioni rapide.
La necessità di revisione del
bicameralismo paritario, tuttavia, si è sempre scontrata con l'enorme
difficoltà politica del costringere i riformatori a riformare se stessi,
ad un vero e proprio «suicidio». Questa morsa politica ha fatto sì che
in Italia il progetto di revisione del modello bicamerale del 1948 non
sia mai riuscito a decollare.
Dal 1991 sono stati presentati alle Camere
43 progetti: da quello elaborato in quell'anno da questa stessa
Commissione fino all'ultimo presentato dai Democratici di sinistra nel
2001; tra i tantissimi si ricordano progetti importanti come quello del
Comitato Speroni o della Bicamerale.
La sede opportuna sarebbe stata, ovviamente, la riforma del titolo V
della Costituzione, cogliendo l'occasione per legare la «rivoluzione»
sul federalismo legislativo agli strumenti idonei per permetterne una
efficace gestione; però, persa quell'occasione, la difficoltà politica
si è ingigantita e questa considerazione ha giocato un ruolo non
indifferente nel guidare la proposta di Lorenzago.
Entrando nello specifico del progetto
riguardante il Senato federale, si prevede che sia composto da 200
componenti; le elezioni siano contestuali con quelle dei rispettivi
consigli regionali; l'elettorato passivo, rispetto all'ipotesi
originaria, sia esteso anche a chi ha la residenza nella regione; sia
mantenuta una riserva di 6 seggi per la circoscrizione estera. Credo che
quest'ultima sia una scelta discutibile perché poco coerente con la
rappresentanza territoriale.
Nel complesso si tratta dell'opzione per
un modello «similamericano», che non garantisce, ovviamente, allo stesso
modo di una Camera territoriale vera e propria, come il Bundesrat,
la rappresentanza degli interessi regionali; tuttavia, sembra evidente
l'intenzione di rendere «digeribile» la riforma ai riformatori, una
volta che stata mancata l'occasione più naturale che era quella della
riforma del titolo V della Costituzione.
È chiaro che un modello tipo Bundesrat rappresenterebbe la
soluzioni ideale per un contesto di federalismo legislativo, come quello
che è configurato dal titolo V della Costituzione; non mi soffermo,
però, sul modo in cui funziona il Bundesrat, riservandomi di dare
alcune indicazioni nella mia relazione.
Mi soffermo, invece, su un altro punto
dove, probabilmente, è opportuno anche qualche intervento tecnico che
riguarda sostanzialmente la differenziazione dei procedimenti
legislativi, cioè il procedimento legislativo assimmetrico (in alcuni
casi i due rami del Parlamento intervengono in posizione di parità,
mentre altre volte ci sono leggi monocamerali della Camera con il
richiamo del Senato e viceversa).
L'ambito delle leggi bicamerali è stato enormemente aumentato e su
questo bisogna soffermarsi attentamente; infatti, vi rientrano non
soltanto i disegni di legge concernenti la perequazione delle risorse
finanziarie, le funzioni fondamentali degli enti locali, il sistema
elettorale della Camera dei deputati, ma ora, anche, i disegni di legge
annuali concernenti la perequazione delle risorse finanziarie e - state
bene attenti a questo passaggio - le materie di cui all'articolo 119
della Costituzione, nonché i casi in cui la Costituzione rinvia
espressamente la legge dello Stato o alla legge della Repubblica ( qui
vengono citati moltissimi articoli, tra cui, da ultimo, gli articoli da
13 a 21 in materia di diritti fondamentali).
A tal proposito, ritengo, che il numero delle materie sia troppo esteso
e che in un sistema del genere - considerando la possibilità che si
formino maggioranze diverse tra Camera e Senato, che quest'ultimo non è
legato al Governo da un rapporto fiduciario, che è stata soppressa anche
la possibilità per il Presidente della Repubblica di sciogliere
anticipatamente il Senato per impossibilità di funzionamento - il
rischio di stallo non sia lontano.
Si possono ipotizzare diverse soluzioni - che tra un momento presenterò
- ma prima vorrei richiamare l'attenzione su ciò che accadrà nella
materia finanziaria, sia quando la riforma sarà a regime, sia nel
periodo transitorio, dal momento che il disegno di legge costituzionale
reca una apposita disposizione relativa al periodo transitorio.
In riferimento al regime ordinario previsto dalla riforma, il testo non
è chiaro quanto alla legge finanziaria. A mio avviso, l'interpretazione
che si deve imporre è che la competenza sulla legge finanziaria sia
trascinata dalla competenza sulla legge di bilancio: chi avrà competenza
su quest'ultima, avrà competenza anche sulla legge finanziaria. Siccome
la competenza sulla legge di bilancio continua a essere della Camera,
rimarrebbe alla Camera anche la competenza sulla legge finanziaria.
Rispetto ad essa, tuttavia, bisogna scorporare alcuni capitoli che
adesso, normalmente, rientrano nella legge finanziaria e che
diventerebbero di competenza bicamerale. Ad esempio, mi riferisco al
coordinamento della finanza pubblica. Questa è materia che rientra
nell'articolo 117, terzo comma, ma anche nell'articolo 119 della
Costituzione. Siccome la disposizione che stabilisce che le materie di
cui all'articolo 119 della Costituzione sono di competenza bicamerale ha
carattere speciale, rispetto all'altra, si deve ritenere che il
coordinamento della finanza pubblica si è trasformato da materia di
competenza monocamerale, del Senato, in materia di competenza
bicamerale.
Un primo rilievo, quindi, è che la disposizione transitoria prevista nel
disegno di legge costituzionale in esame ha poco senso proprio dal punto
di vista tecnico e giuridico. Questa
recita: «Fino alla data di entrata in
vigore delle leggi che, in piena attuazione dell'articolo 119, secondo e
terzo comma della Costituzione, individuano i principi di coordinamento
della finanza pubblica del sistema tributario ed istituiscono un fondo
perequativo, i disegni di legge attinenti ai bilanci ed al rendiconto
consuntivo dello Stato sono esaminati secondo il procedimento di cui al
terzo comma dell'articolo 70 della Costituzione...». Si tratta, cioè,
del procedimento bicamerale. Il periodo transitorio è assolutamente
indeterminato perché si protrarrà fino alla piena attuazione
dell'articolo 119; non sappiamo quanto durerà. Fino alla fine di questo
indeterminato periodo transitorio, la legge di bilancio, il rendiconto
consuntivo e, quindi, anche la legge finanziaria diventano di competenza
bicamerale. Però, siccome nel testo approvato le materie di cui
all'articolo 119 della Costituzione - la perequazione, il coordinamento
ed anche la tutela della concorrenza - sono già di competenza
bicamerale, questa disposizione sul periodo transitorio avrebbe
semplicemente l'effetto di aggiungere alla competenza bicamerale - cioè
alla competenza del Senato - aspetti della legge di bilancio che non
concernono il federalismo. Questa è la conseguenza. L'effetto della
disposizione transitoria, in altri termini, sarebbe quello di prevedere
una competenza del Senato su aspetti generali della legge finanziaria
che non riguardano il federalismo fiscale. Non se ne capisce il
significato.
Mettendo da parte il periodo transitorio
(probabilmente, la relativa disposizione dovrà essere rivista), torniamo
ad esaminare il regime ordinario e tentiamo un esercizio applicativo.
Esaminiamo l'ultima legge finanziaria approvata e vediamo che cosa
accadrebbe se fosse a regime questo sistema di bicameralismo. Ad
esempio, la disposizione contenuta nell'articolo 3, commi da 16 a 21,
dell'ultima legge finanziaria approvata ha dettato disposizioni
attuative della cosiddetta golden rule, limitando l'indebitamento
delle regioni: le regioni, cioè, possono ricorrere all'indebitamento in
casi molto limitati. Questo servirà a garantire il coordinamento della
finanza pubblica e il rispetto del patto di stabilità. Una tale misura
diventerebbe di competenza bicamerale. Quanto alla norma relativa alle
quote di compartecipazione, una volta attuato il federalismo fiscale si
dovrà stabilire che la compartecipazione dalle regioni all'IVA sarà in
una determinata percentuale. La decisione volta a stabilire se la misura
di tale compartecipazione sarà del 60, 70 o 80 per cento è diventata di
competenza bicamerale. La fissazione dei principi che ordineranno i
poteri impositivi delle regioni, come anche degli enti locali, di
conseguenza, diventa di competenza bicamerale. Quindi, la legge
finanziaria di competenza esclusiva della Camera deve essere scorporata
e tutto il capitolo relativo al patto di stabilità interna ed ai momenti
in cui la finanza statale si incrocia con la finanza decentrata dovrà
rientrare in una legge a parte, una legge bicamerale; la finanziaria,
invece, continua ad essere una legge monocamerale. Comprendete, perciò,
che sarà necessario approvare due leggi, la legge finanziaria vera e
propria e quella che attiene all'incrocio della finanza nazionale con la
finanza degli enti subregionali. Quindi, sono necessari poteri molto
forti in materia politica.
Esaminiamo che cosa prevedono, a questo proposito, altri ordinamenti. Ad
esempio, nel caso della Germania, la competenza in materia di bilancio
spetta al Bundestag (si consideri che il Bundesrat, la
Camera rappresentativa delle regioni, ha una cifra rappresentativa molto
più forte del Senato previsto dal disegno di legge). La decisione è
assunta solo dal Bundestag, quindi solo dalla Camera dei
deputati, ed il Bundesrat, dopo un passaggio in una Commissione
apposita, può chiedere solo una nuova deliberazione. Analogamente
avviene in Austria: soltanto il Consiglio nazionale approva la legge
finanziaria, che contiene, in allegato, anche la legge di bilancio,
senza che sia necessaria la approvazione da parte del Consiglio
federale. In Belgio, il Senato è costituito da una Camera territoriale
simile a quella che stiamo per configurare in Italia; differentemente,
quindi, dal modello del Bundesrat. Anche in questo caso, la
approvazione della legge di bilancio e della legge finanziaria spetta
soltanto dalla Camera dei deputati. In Spagna, esistono clausole che
rimettono l'ultima parola al Congresso, cioè alla Camera dei deputati.
Ad esempio, l'articolo 90 della Costituzione spagnola prevede che, una
volta che il Congresso abbia approvato un progetto di legge, il Senato
può emendarlo oppure apporre un veto, che può essere superato dal
Congresso a maggioranza assoluta. C'è qualcuno, quindi, che ha l'ultima
parola nella fase di impasse. In altri casi, si prevede un
tentativo di conciliazione; alla fine, decide il Congresso, cioè la
Camera dei deputati, a maggioranza assoluta. L'articolo 74 della
Costituzione spagnola potrebbe rappresentare una formulazione utile
anche per il nostro caso. Tale norma prevede che la Commissione che
effettua il tentativo di conciliazione presenti un testo, che sarà
votato dalle due Camere; se non sarà approvato, deciderà il Congresso, a
maggioranza assoluta.
Torniamo a considerare il Senato federale,
nel suo complesso. C'è un duplice problema: sembra difettare di capacità
rappresentativa delle regioni - quindi, non ha la capacità
rappresentativa del Bundesrat - ed ha poteri molto più forti
delle Camere territoriali previste da altri ordinamenti. In merito, sono
state avanzate diverse riserve, soprattutto sulla competenza relativa
alle leggi quadro, che determinerebbero una eccessiva regionalizzazione
dell'indirizzo politico in materie importanti.
Credo che queste osservazioni siano state
formulate già nel corso delle audizioni dei colleghi che mi hanno
preceduto. Ad esempio, i costituzionalisti di Magna Carta, nel
mettere in evidenza questo dato, affermano: «Stupiscono le competenze di
questo Senato federale, tanto debole politicamente per via del flebile
raccordo con le regioni e per via della mancanza del vincolo fiduciario
con il Governo, quanto forte per la quantità di materie su cui ha la
parola decisiva. Il Senato non riesce a esprimere una autentica voce
delle regioni e non può perciò svolgere quel ruolo strategico di
mediazione e incontro tra istanze centrali e istanze del territorio,
però ha la decisione finale su tutte le materie concorrenti
dell'articolo 117, terzo comma (materie molto importanti, tra cui
l'istruzione), nonché sulla tutela della concorrenza, sulla legge
finanziaria e sulle leggi che toccano l'esercizio dei diritti
fondamentali. Il Senato federale, dunque, è titolare di moltissimi
poteri decisionali che investono l'indirizzo politico del Governo e
l'esito di questo complicato intreccio è il seguente: o il Governo
soggiace ad una negoziazione politica, caso per caso, con il Senato
federale, in nome di equilibri e interessi che non è dato conoscere e
che, comunque, di certo possono sfuggire alle linee di un indirizzo
politico basato sul consenso elettorale, senza però neppure coincidere
con quelle regioni; o si immagina un sistema piuttosto fantasioso nel
quale l'azione di governo si svolge bypassando il Parlamento e senza
bisogno della legge; oppure si accetta l'idea della possibile paralisi
del sistema».
Condivido abbastanza queste osservazioni, anche se, probabilmente, la
competenza del Senato è stata prevista per recuperare una
rappresentatività regionale per funzioni. In
altre parole, la rappresentatività
regionale non si è potuta dare tramite una rappresentanza diretta come
nel Bundesrat, cioè la nomina da parte degli esecutivi, ma si è
recuperata tramite la funzione. Quindi, specializziamo il Senato su
materie che riguardano l'interesse regionale, in modo da evitare che il
senatore italiano, come quello degli Stati Uniti, non rappresenti più lo
Stato che lo ha eletto.
Quindi, con una competenza relativa alle
materie che interessano la regione si è creata una rappresentatività per
funzione, con un recupero indiretto di rappresentatività. Tuttavia, è
importante che il Senato federale si interessi solo di questioni che
riguardano le materie regionali e, quindi, è improprio estendere la
competenza bicamerale a tutte le altre materie.
Un'altra questione riguarda l'introduzione del temperamento. Il testo in
esame prevede che se il Governo dichiara che le modifiche proposte dalla
Camera dei deputati ad un progetto di legge relativo alle materie della
potestà concorrente (quelle di cui all'articolo 117, terzo comma, della
Costituzione) sono essenziali per l'attuazione del suo programma e tali
modifiche siano approvate ai sensi del novellato articolo 94, secondo
comma, al disegno di legge si applicherà la procedura prevista dagli
ultimi due periodi del terzo comma del nuovo articolo 70. Quindi, se un
disegno di legge non è approvato dalle due Camere nel medesimo testo
dopo una lettura da parte di ciascuna Camera, i Presidenti delle due
Camere convocano, d'intesa tra di loro, una commissione mista paritetica
incaricata di proporre un testo sulle disposizioni su cui permane il
disaccordo tra le due Camere. Il testo proposto dalla commissione mista
paritetica è sottoposto all'approvazione delle due Assemblee e su di
esso non sono ammessi emendamenti. Questo meccanismo diventa una specie
di tentativo di conciliazione ma si rischia che molte questioni
finiscano al suo interno. Allora, questo organismo di conciliazione è in
grado di rappresentare effettivamente la complessità del panorama
politico dei due rami del Parlamento?
In secondo luogo, questa misura non è
risolutiva perché può esserci una situazione di stallo. Se le due Camere
non approvano una legge o se non si prendono provvedimenti, per esempio,
in materia di istruzione, che cosa succede?
Le soluzioni potrebbero essere diverse.
Innanzitutto sarebbe utile prevedere il ricorso alla procedura di
conciliazione non solo delle leggi a competenza monocamerale del Senato,
cioè le materie concorrenti, ma per quelle dell'articolo 119 della
Costituzione: ad esempio, se non si raggiunge l'accordo sul
coordinamento della finanza pubblica, cioè quando la finanza statale si
incrocia con quella regionale, è importante che si possa applicare
questo meccanismo.
In secondo luogo, si dovrebbe prevedere l'ipotesi della prevalenza della
Camera dei deputati, con un voto a maggioranza assoluta, qualora la
situazione entri in una fase di impasse, cioè prevedere che
qualcuno possa prendere la decisione, rafforzando la maggioranza e
ricalcando così il modello spagnolo. Questa ipotesi dovrebbe essere
prevista per tutte le materie della competenza concorrente, (articolo
117, terzo comma, della Costituzione) perché appunto, sono estremamente
importanti per il paese e perché è in gioco anche l'indirizzo politico
del Governo. A mio avviso, questa ipotesi potrebbe essere esclusa per
alcune materie dell'articolo 119 della Costituzione più strettamente
inerenti al federalismo fiscale. Se si volesse dare un potere forte e
responsabilizzare le realtà regionali, allora su certe materie - ad
esempio, la compartecipazione all'IVA - occorrerebbe favorire un
principio di correlazione tra cosa
tassata e cosa amministrata. Ad esempio,
il Bundesrat, la Camera territoriale tedesca, su queste materie
ha un potere di veto che non può essere superato. Quindi, se vogliamo
responsabilizzarle, dobbiamo dargli un forte potere decisionale su certe
materie che ineriscono al federalismo fiscale, aspetto molto legato alla
realtà regionale.
Quindi, si tratterebbe di bilanciare i punti: sicuramente la Camera
dovrebbe prevalere sulle materie dell'articolo 117, terzo comma, della
Costituzione, perché interessano l'indirizzo governativo e su alcune
materie dell'articolo 119 della Costituzione. Probabilmente non dovrebbe
prevalere su altre materie, in cui il federalismo fiscale è strettamente
legato alle esigenze di responsabilizzare le regioni, perché in quel
caso - come succede in altre ordinamenti, ad esempio, quello tedesco -
si potrebbe arrivare ad un accordo. È chiaro che in questo modo abbiamo
tolto dei poteri al Senato federale.
Un altro correttivo sarebbe quello di
prevedere che i presidenti delle regioni partecipino al Senato federale
perché, se togliamo poteri, è anche giusto che questo ultimo possa
effettivamente essere integrato in maniera stabile, dandogli quella
rappresentatività di cui sembra difettare. Tale questione è stata
evidenziata dai costituzionalisti di Magna Carta: «L'assenza dal
Parlamento nazionale di coloro che rappresentano le regioni secondo la
Costituzione, vale a dire i presidenti delle giunte regionali, fa
mancare la voce diretta del territorio e pone al di fuori del tavolo di
negoziazione uno degli irrinunciabili negoziatori. Essi devono invece
essere protagonisti del Senato federale come luogo della mediazione».
L'altra questione riguarda l'interesse regionale. A mio avviso, nel
testo approvato dal Senato, tutto sommato, si prevede una configurazione
dell'interesse nazionale migliore rispetto a quella delineata
nell'ambito della riforma costituzionale La Loggia, effettivamente poco
accettabile in quanto diventava una clausola potenzialmente onnivora
delle competenze regionali; viceversa, nel disegno di legge in esame si
raggiunge un punto di equilibrio accettabile. In conclusione, la
soluzione di questo Senato federale non merita scomuniche ma qualche
correttivo. Per quanto riguarda la devolution rimando alle
argomentazioni esposte nell'audizione precedente ma vorrei fare solo una
considerazione. Con le sentenze n. 303 del 2003 e n. 6 del 2004 la Corte
costituzionale ha, di fatto, con un funambolico ragionamento, permesso
allo Stato di riappropriarsi di alcune materie nell'ambito delle grandi
reti di trasporto e di comunicazione (nella sentenza n. 303 del 2003
della competenza concorrente e nella n. 6 del 2004, addirittura, della
competenza esclusiva regionale). Allora, se la Corte costituzionale è
intervenuta con queste sentenze che aprono una falla potenzialmente
enorme nell'ordinamento, parlare di incubo e di disgregazione sulla
devolution mi sembra una cosa al di fuori del contesto di cui stiamo
parlando.
La volta precedente ho espresso un parere
favorevole alla devolution e alla responsabilizzazione delle
realtà regionali, anche in considerazione dei modelli di welfare
society che sono stati realizzati a livello regionale. Mi sembra che
la maggior parte delle obiezioni che vengono sollevate - soprattutto
dopo le sentenze della Corte costituzionale, che permettono allo Stato
centrale di riappropriarsi delle materie - spazzino il campo a possibili
obiezioni.
PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi
che intendano porre domande o formulare richieste di chiarimento.
GIANCLAUDIO BRESSA. Non farò alcuna
domanda al professor Olivetti, in quanto condivido la sua impostazione;
invece, sarebbero molte quelle che vorrei fare al professor Antonini ma
ne rivolgerò soltanto una per una questione di autocensura.
Il professor Antonini, molto giustamente,
sostiene che il rafforzamento dei poteri del premier deve essere
bilanciato da una rete di salvataggio, dopodiché indica come unico
antidoto la modifica dell'articolo 118 della Costituzione, modifica
assolutamente condivisibile che, tuttavia, appare come una pallida rete
di salvataggio. Vorrei sapere se può indicarci altri strumenti più
efficaci.
Riprendendo un argomento affrontato dal
professor Olivetti, devo dire che il secondo comma dell'articolo 94
della Costituzione così come previsto dal disegno di legge, oltre a non
essere riscontrabile nell'ambito del diritto comparato, finisce in
qualche modo con il far saltare la differenziazione dei poteri: di fatto
si attribuisce al premier il controllo sul potere legislativo
della Camera. Se, infatti, viene inviata alla Camera una proposta
condizionata dalla somma del voto bloccato e di quello di fiducia, si
espropria la funzione legislativa; paradossalmente si potrebbero
determinare anche gli ordini del giorno dei lavori della Camera. Di
fronte ad una previsione del genere mi pare che la pur lodevolissima
modifica dell'articolo 118 della Costituzione rappresenti una rete di
salvataggio a maglie estremamente larghe.
KARL ZELLER. Vorrei porre due domande al
professor Antonini sul tema dell'interesse nazionale, che a suo parere,
con la soluzione ora proposta non comporta menomazioni significative dei
poteri regionali. Ritiene che il principio di sussidiarietà, come
interpretato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 303 del 2003,
sia sufficiente per delineare gli ambiti di competenza tra Stato e
regioni? L'interesse nazionale non potrebbe rappresentare un
grimaldello, non solo per annullare leggi regionali ritenute in
contrasto con l'interesse nazionale, ma anche per consentire interventi
positivi simili alla funzione di indirizzo e coordinamento del Governo?
MARCO BOATO. Ringrazio i nostri due
interlocutori e faccio loro alcune domande. In particolare dal professor
Olivetti, che ha affrontato la questione della forma di Governo, vorrei
un parere su quanto è previsto dalla forma anomala di sfiducia
costruttiva indicata dal secondo comma dell'articolo 88 della
Costituzione, come modificato dal disegno di legge. In base a quanto
previsto da questo articolo non ci sarebbe alcun voto da parte del
Parlamento, ci sarebbe invece una raccolta di firme, forse verificate
dagli uffici della Camera, che farebbe riferimento al risultato delle
elezioni e null'altro dal punto vista parlamentare.
Nessuno dei due professori ha toccato l'argomento della ipotizzata
modifica dell'articolo 138 della Costituzione. A me pare che, così come
è configurata, potrebbe prospettare l'eventualità, se non la quasi
certezza, visti gli andamenti elettorali dell'ultimo decennio, che una
volta entrata in vigore diventerebbe impossibile qualunque riforma della
Costituzione; infatti, una riforma potrebbe essere approvata dal
Parlamento ma non trovare riscontro nel consenso degli elettorali,
essendo introdotto il quorum obbligatorio della maggioranza degli
aventi diritto. Vorrei sapere cosa pensano al riguardo i due professori.
Anche se si tratta di un argomento
politico e storico piuttosto che costituzionale, devo confessare che ho
una idea diversa da quella del professor Antonini sull'origine del
processo di riforma. Tangentopoli, a mio parere, è soltanto
l'epifenomeno di tutta la vicenda, in realtà la causa scatenante è la
fine della guerra fredda con il cambio dello scenario geo-politico in
cui si colloca il sistema democratico italiano, che non a caso a partire
dagli anni novanta non blocca più l'alternanza.
Alcune considerazioni del professor
Antonini sono in gran parte condivisibili; al riguardo vorrei
comprendere meglio il rapporto fra la seconda parte della sua puntuale
relazione con l'assunto di partenza. All'inizio del suo ragionamento sul
Senato federale il professor Antonini ha affermato che sarebbe stato
difficile fare di meglio per dare una voce alle regioni all'interno del
Parlamento. Sono d'accordo con il professore che la principale
difficoltà politica è legata al fatto che è in questione una istituzione
che deve autoriformarsi; è questo il paradosso delle riforme che
Zagrebelsky indicava in un contributo contenuto nel libro «Studi in
onore di Crisafulli» degli inizi degli anni novanta. Tuttavia, mi pare
che l'assunto di base del professore Antonini nel proseguo della sua
relazione venga smentito. Poiché ha parlato di Senato federale, vorrei
sapere in che cosa consista questo carattere federale, perché l'unico
aspetto che lega in qualche modo questo Senato al sistema delle
autonomie è la cosiddetta contestualità affievolita, ma è introdotta in
modo tale da subordinare le regioni al Senato e non, semmai, la
rappresentanza del Senato alle regioni. Infatti, tutto è condizionato ai
meccanismi elettorali del Senato, anche lo scioglimento dei consigli
regionali; ad esempio, se intervenisse uno scioglimento, al quarto anno,
del Consiglio regionale, nella regione si dovrebbe avere una legislatura
regionale che duri un solo anno.
A mio avviso, la contestualità delle
elezioni costituisce l'unico, pallido, elemento di federalismo presente
nella configurazione del Senato; giustamente, è stato rilevato dai
nostri ospiti come tale elemento federale, tuttavia, si contamini con la
configurazione di un Senato delle garanzie. In tal senso, non si
comprende perché proprio questo Senato federale debba nominare i giudici
costituzionali ed i membri laici della CSM; chiederei, anzi, ai nostri
ospiti il loro parere circa tale potere di nomina. Con riferimento ai
componenti della Corte costituzionale, vorrei conoscere la loro opinione
sia sul numero (sette) sia sul potere di nomina, che mette capo
esclusivamente al Senato federale.
Il professore Antonini ad un certo punto -
ma chiedo venia se ricordo male - ha dichiarato che il rischio di uno
stallo non è lontano da un sistema del genere; è anche la mia opinione.
Però, da tale punto di vista, mi pare sia difficile trovare una
soluzione se restano tali la configurazione del Senato da una parte e,
dall'altra, quella dei poteri del Primo ministro. Poteri, questi ultimi,
che sono da un lato molto irrigiditi (sia pure in capo al Primo ministro
piuttosto che al Governo) e, dall'altro, rischiano di essere paralizzati
da un Senato che, quanto a poteri conferiti, deve dirsi ipertrofico.
Quindi, abbiamo il paradosso, da una
parte, di un eccesso di rigidità della forma di governo, rigidità che,
come si è messo in evidenza precedentemente, potrebbe essere corretta
accettando il modello del Primo ministro (modello che io personalmente
ho condiviso anche nella scorsa legislatura, in Bicamerale); dall'altra
parte, di un Senato che non può essere sciolto e che assume di fatto,
sia nella fase a regime sia, ancor più, nella fase transitoria,
competenze su materie che sono tipicamente oggetto dell'indirizzo di
Governo. Ciò è stato ben messo in evidenza dal professore, che ha
suggerito anche dei correttivi; chiunque sia al Governo in quel momento,
si tratta di materie legate al rapporto fiduciario.
Ebbene, cosa pensa il professore Antonini della mancata previsione
dell'ipotesi di scioglimento del Senato per mancato funzionamento
(certo, non per sfiducia, atteso che non sussiste un rapporto
fiduciario)?
Chiederei, inoltre, al professore Antonini
un parere rispetto ad un rischio prospettato dal professore Olivetti; mi
riferisco alla possibilità che Primo ministro e Governo entrino in
carica sulla base di risultati elettorali che non gli consentano di
avere la maggioranza assoluta garantita. Si tratta, del resto, di
favorire il formarsi di una tale maggioranza, non di garantirla.
Ebbene, alcuni dei meccanismi suggeriti dal professore Antonini - ad
esempio, per superare situazioni di impasse o di stallo tra
Camera e Senato, si è proposto che alla fine decida la Camera con
maggioranza assoluta - costituiscono, a mio parere, ipotesi
condivisibili, adatte al sistema. Però, tali ipotesi devono scontare la
circostanza che, appunto, potrebbe verificarsi il paradosso di una
maggioranza politica che governa e che però non ha la maggioranza
assoluta dei componenti la Camera, essendo stata la fiducia solo
presunta, non espressa dal voto dell'Assemblea.
MARCELLO PACINI. Vorrei rivolgere una
domanda molto puntuale al professor Antonini.
La scarsa rappresentanza territoriale del Senato deriva dal modo con il
quale verranno eletti i senatori e deriva, altresì, dalla volontà di
rispettare il divieto di mandato imperativo dei singoli rappresentanti.
È noto che in Germania la situazione è del tutto diversa in quanto, a
mo' di mandato imperativo, si devono tutelare gli interessi del
territorio.
La mia domanda prende lo spunto dalla sua ipotesi circa la
partecipazione dei Presidenti delle regioni ai lavori del Senato; certo,
se il Senato dovesse avere gli attuali ritmi di
lavoro, è augurabile che i governatori non
siano presenti tutti i giorni (sarebbe veramente la fine delle
regioni!). A suo avviso, professore, è possibile ipotizzare un Senato
composto di senatori liberi da vincoli di mandato imperativo, e,
altresì, di una quota di rappresentanti delle regioni - nella
fattispecie, i governatori o loro delegati - con un mandato imperativo a
tutelare gli interessi della regione elaborati e statuiti dagli organi
competenti?
NUCCIO CARRARA. Vorrei rivolgere una
domanda ad entrambi i professori, anche perché ho ascoltato due tesi
speculari; peraltro, in questa sede vogliamo approfondire per
comprendere meglio le questioni.
Il professore Marco Olivetti ha valutato
positivamente l'abbandono del presidenzialismo, l'abbandono del
semipresidenzialismo e, infine, il fatto che il Primo ministro non sia
eletto direttamente.
Poi, a tale proposito, ha definito rigida la riforma che si sta
elaborando ed ha espresso perplessità sul potere di nomina e di revoca
dei ministri. Tutto sarebbe - a suo avviso - nelle mani del Primo
ministro; sostanzialmente, il professore ha sostenuto che avremmo un
Primo ministro troppo forte e ciò in quanto, nel meccanismo che si sta
elaborando, si cerca di prevenire in ogni modo il cosiddetto ribaltone.
Il meccanismo rivelerebbe il cosiddetto horror ribaltonis,
nonostante le misure che attenuano il principio del simul stabunt
simul cadent.
Il professore Antonini ha, inoltre, dichiarato che siamo di fronte
ad un Senato federale che, in realtà, «farebbe politica», intrecciando
fortemente la propria attività con quella di governo; qualora si
registrasse al Senato una maggioranza diversa da quella della Camera,
tale circostanza impedirebbe al Governo di attuare la propria politica
ed il proprio
programma. Quindi, in questa ipotesi,
avremmo un Primo ministro debolissimo, incapace di potere rispondere al
proprio elettorato che, ovviamente, gli ha dato mandato appunto per
governare attuando un programma.
Per il professor Olivetti, invece, nel
tentativo di uscire dalla transizione, avremmo un ministro troppo forte.
Non sono riuscito a capire se, secondo l'analisi del professore Olivetti,
si potrebbe uscire dalla transizione solo tornando indietro o, invece,
andando avanti. E, in quest'ultimo caso, come?
Il professor Antonini osserva che dobbiamo
evitare lo stallo delle istituzioni. Forse, lei, professore, ha
suggerito qualcosa al riguardo; vorrei che, però, focalizzasse meglio la
sua attenzione su tale aspetto. Mi pare di avere capito che lei avrebbe
fatto la seguente osservazione. Qualora, ad esempio, il Governo ponesse
la questione prioritaria su una legge di competenza del Senato, in quel
momento scatterebbe il meccanismo bicamerale, ma non si avrebbe un
organo decisore alla fine. Lei pensa che alla fine, in questo meccanismo
bicamerale, si possa affidare alla Camera la possibilità di dire
l'ultima parola per argomenti decisivi per l'attuazione del programma?
PRESIDENTE. Prima di dare la parola ai
professori Olivetti e Antonini, mi corre l'obbligo di segnalare che
saremo costretti a contenere i tempi della nostra audizione, atteso che
alle ore 12 riprenderanno i lavori in Assemblea con immediate votazioni.
A tale riguardo, inviterei i nostri ospiti - cui, comunque, darò la
parola per una breve replica - a consegnare alla Commissione la loro
relazione ed eventuale documentazione di carattere integrativo.
Do dunque la parola ai nostri ospiti per le repliche.
MARCO OLIVETTI, Professore
straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di
giurisprudenza dell'Università di Foggia. Cercherò di essere molto
rapido; desidero comunque ringraziare i deputati per le domande che mi
sono state rivolte.
Risponderò dapprima all'ultima questione proposta; vengo, perciò, alle
mie considerazioni circa i poteri troppo forti attribuiti al Premier.
Certamente, la mia proposta era nel senso non di tornare indietro ma di
prendere atto che, comunque, un cammino di strada è già stato compiuto:
riforma del sistema elettorale, dei regolamenti parlamentari, nuove
convenzioni costituzionali. La nostra forma di Governo, già oggi, non è
più quella degli anni Ottanta. In questo scenario, occorre apportare
alcuni ritocchi di chiusura.
Vorrei, ora precisare cosa intendevo nel
criticare il potere di nomina e di revoca. Quelle considerazioni erano
tese non già a criticare l'ipotesi di prevedere che il Presidente della
Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, possa revocare i
ministri, rispetto a cui mi sono pronunciato (come del resto
sottolineavo precedentemente), quanto ad evidenziare la presenza di
talune rigidità del progetto. Prevedere che il potere di nomina e revoca
non sia esercitato in forma solitaria dal Primo Ministro, ma che questi
debba «passare» dal Presidente della Repubblica (il quale avrebbe quindi
a disposizione uno strumento di controllo formale) costituirebbe a mio
avviso una risorsa in più per il sistema costituzionale, vantaggiosa per
lo stesso Primo Ministro. In generale, comunque, le mie obiezioni in
materia di forma di governo non sono rivolte tanto contro questo o quel
meccanismo, tra quelli inseriti nel progetto di riforma, quanto contro
la loro combinazione. Non sono i singoli ingredienti, è il cocktail
finale che rischia di uccidere il malato.
Ciò che sottolineava il professor Antonini, del resto, non è altro che
l'altra faccia della medaglia, di quanto appena osservato. Si corre il
rischio di porre in essere un sistema
schizofrenico, nel quale la Camera diventa
una sede di registrazione di scelte governative, e il Senato, invece, il
luogo in cui tutto si blocca. Quindi, occorrerebbe, forse, ripensare
proprio questo aspetto, come viene anche sostenuto dai costituzionalisti
di Magna Carta, dei quali non condivido le valutazioni sulla forma di
Governo ma accolgo, invece, le considerazioni sul Senato federale.
Vengo, infine, agli altri quesiti
sollevati dall'onorevole Boato. Riguardo all'articolo 88, secondo comma,
l'aspetto che lei indicava, onorevole, personalmente mi preoccupa meno
rispetto al meccanismo nel suo complesso. Probabilmente, l'autore di
quella disposizione ha letto l'articolo 49, terzo comma, della
Costituzione francese, relativo alla questione di fiducia (il cui tenore
è simile, tra l'altro, alla formula che verrebbe introdotta all'articolo
94, secondo comma, del provvedimento in esame). Anche da quella norma è
richiesta la raccolta delle firme dei contrari - in questo caso alla
questione (e non allo scioglimento) - senza dover procedere a votazione
alcuna. Si tratta, peraltro, di un meccanismo notevolmente discusso,
anche nell'ordinamento francese. In effetti, la votazione potrebbe
essere la soluzione più lineare da adottare; non mi sembra, comunque,
questo il passaggio più criticabile dell'articolo 88, secondo comma.
Quanto all'articolo 138, con la riforma
verrebbe rafforzata la rigidità costituzionale, ma il rafforzamento
interverrebbe solo dopo aver modificato la Costituzione, sarebbe quasi
come chiudere la stalla dopo la fuga dei buoi. Trattandosi, però, di una
critica di natura politica, che a me non compete muovere, non procederò
oltre riguardo a questo specifico aspetto. Proseguendo, invece, nel
giudizio tecnico, ai sensi del progetto di riforma, con il meccanismo
introdotto viene soppresso il terzo comma dell'articolo 138, e quindi il
referendum potrà essere richiesto in ogni caso. Attualmente,
invece, sappiamo che la possibilità di richiederlo viene esclusa
allorché la legge sia approvata con la maggioranza dei due terzi dei
suoi componenti; in sintesi spicciola, il messaggio lanciato dalla
vigente Costituzione alla maggioranza parlamentare è quello di
un'alternativa secca tra l'ipotesi di un accordo con l'opposizione,
necessario a conseguire il quorum previsto dei due terzi, e - in
assenza di intesa - la necessità di affrontare la via referendaria e
quindi ottenere il consenso del corpo elettorale. Con il nuovo
meccanismo, invece, si interviene rendendo il referendum sempre
necessario.
MARCO BOATO. Non sempre necessario, sempre
possibile, piuttosto.
MARCO OLIVETTI, Professore
straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di
giurisprudenza dell'Università di Foggia. Sì, sempre possibile.
Esattamente. Cioè sarà possibile sempre richiederlo; però, se ciò che ho
compreso è corretto (la norma, così come formulata, appare infatti
singolare), per il caso in cui la legge fosse approvata a maggioranza
dei due terzi, come avviene attualmente, non è previsto alcun quorum,
che verrebbe invece richiesto nell'ipotesi in cui la legge fosse
approvata a maggioranza assoluta. Anche in questo caso, dunque, è
possibile accertare un certo irrigidimento di cui, peraltro, mi sfugge
la ratio complessiva. Sarebbe più coerente prevedere sempre il
quorum dei due terzi, allorché si volesse veramente irrigidire nel
suo complesso la procedura di revisione costituzionale.
Quanto, infine, al fatto che i sette
giudici costituzionali siano nominati dal Senato, su questo, la mia
personale perplessità, in dissenso con molti autorevoli colleghi ed
amici, non è fortissima. Il problema non sta nel fatto che il Senato
nomini sette giudici costituzionali, quanto, semmai, nel fatto che
rappresenti malamente le regioni: è una rappresentanza potenzialmente
debole. Diversamente, in un sistema fortemente decentrato, che l'arbitro
sia scelto anche dalle regioni mi sembrerebbe una soluzione, in linea di
principio, condivisibile; perché ciò avvenga, però, occorre che alla sua
designazione concorra una Camera ove siano presenti, in maniera forte,
gli enti regionali, come avviene nel modello tedesco.
Probabilmente, in questo caso, sarebbe più funzionale la proposta
formulata dal collega Roberto Bin, il quale ha suggerito di distinguere
la Corte costituzionale in due «sezioni» o «senati», uno dei quali
chiamato ad occuparsi del rapporto Stato-regioni e l'altro di tutto il
resto; il primo potrebbe allora essere eletto paritariamente dalla
Camera delle regioni e da quella politica. Invece, i sette giudici
costituzionali eletti dal Senato delle regioni andrebbero a decidere,
nel sistema delineato nel progetto di riforma, anche tutte le altre
questioni di legittimità costituzionale, e questo è un elemento più
discutibile.
LUCA ANTONINI, Professore straordinario
di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Padova. Rispetto a quanto sottolineava
l'onorevole Bressa a proposito dell'antidoto rappresentato dalla rete di
salvataggio della sussidiarietà, ritengo che non sia debole, allorché si
intenda il meccanismo in un contesto complessivo. Non esiste solo tale
strumento, vi è una rete di salvataggio di carattere più generale nel
federalismo. Occorre ad ogni modo sottolineare che, quando si parla di
sussidiarietà, la si intende tanto nella sua espressione verticale che
orizzontale. Sono questi gli
strumenti, soprattutto quello del
federalismo, che - ripeto - stiamo tentando di mettere insieme per
bilanciare il rafforzamento dei poteri.
Per quanto riguarda l'interesse nazionale,
è certamente vero che in passato, nato per legittimare il controllo di
merito esercitato dal Parlamento, in quella forma non trovò mai
applicazione: la Corte costituzionale ne spostò l'ambito di riferimento,
per cui da parametro di controllo di merito divenne parametro del
controllo di legittimità. Quanto ai più recenti sviluppi interpretativi
in proposito, ritengo che questi siano contenuti nella sentenza n. 303
del 2003, con cui la Consulta si è spinta molto in avanti in materia:
ritengo che oltre quel punto sia molto difficile proseguire.
Reputo, in ogni caso, estremamente
difficile ipotizzare di poter ancora una volta, come è accaduto in
passato, dar vita ad un escamotage, che consenta di servirsi
delle disposizioni sull'interesse nazionale, a partire dalla
formulazione datane dal provvedimento; giuridicamente è molto
improbabile.
Quanto alle domande sollevate
dall'onorevole Boato, è difficile apportare ulteriori miglioramenti al
testo, rispetto ad un modello di riferimento Bundesrat che
appariva ed appare arduo trasporre nel nostro ordinamento. Alla luce di
tali valutazioni, quindi, l'elezione diretta dei senatori, come esiste
in Spagna, appare inevitabile. Diversamente, si sarebbe verificata una
sorta di «suicidio» del Senato; così facendo, invece, si è data la
possibilità a questo di ricoprire un ruolo rivisitato e - mi sia
consentita l'espressione - di «riciclarsi». Per quanto riguarda il
difetto di rappresentatività, individuo un correttivo nel ruolo dei
presidenti delle giunte regionali, necessari a recuperare quel raccordo
che altrimenti risulterebbe pallido.
Sarei invece concorde con la previsione dello scioglimento anticipato in
caso di impossibilità di funzionamento, a meno che non si prevedesse una
clausola in cui, per tale fattispecie, venisse riconosciuta alla Camera
politica la possibilità di prevalere. Verrebbero, ovviamente, esclusi i
soli casi in cui necessitasse una responsabilizzazione politica forte
del Senato federale, come, ad esempio, quei provvedimenti tesi a
definire la misura della compartecipazione ai tributi, allorché la quota
regionale divenisse molto alta. Si pensi solo al caso dell'IVA: se
questo diventasse un tributo la cui compartecipazione fosse tale per cui
la quota regionale risultasse rilevantissima, sarebbe giusto che vi
fosse anche un organo, il Senato federale, appunto, che avesse l'ultima
parola sulla misura delle aliquote. Questa è la mia preoccupazione. Sul
resto, occorre invece che sia la Camera a prevalere. Quanto alla
questione sottolineata dall'onorevole Pacini, mi trovo sostanzialmente
concorde, anzi lo ringrazio per la sua specificazione. Se in luogo dei
presidenti di regione vi fossero i delegati, sarebbe opportuno, a mio
avviso, togliere - per questa quota di rappresentanza - il divieto di
mandato imperativo. Altrimenti non vi sarebbe più senso nella
previsione. Il correttivo indicato, invece, consentirebbe di recuperare
quella rappresentatività che sembra difettare.
|