INDAGINE CONOSCITIVA SULLE TEMATICHE RIGUARDANTI LA MODIFICA DELLA PARTE SECONDA DELLA COSTITUZIONE AUDIZIONI SVOLTESI PRESSO LA COMMISSIONE I DELLA CAMERA DEI DEPUTATI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INDAGINE CONOSCITIVA

SULLE TEMATICHE RIGUARDANTI LA MODIFICA DELLA PARTE SECONDA DELLA COSTITUZIONE

 

 

 

 

AUDIZIONI SVOLTESI PRESSO LA COMMISSIONE I

DELLA CAMERA DEI DEPUTATI

 

 

 

 

MAGGIO 2004

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Segreteria della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome

 


 

 

INDICE

 

SEDUTA DEL 18 MAGGIO 2004. 3

Giulio Salerno, professore straordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la facoltà di economia dell'Università di Macerata. 3

Vincenzo Cerulli Irelli, professore ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università «La Sapienza» di Roma. 11

Nicolò Zanon, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Milano. 20

Stefano Ceccanti, professore straordinario di diritto pubblico comparato presso la facoltà di scienze politiche dell'Università «La Sapienza» di Roma. 32

Giovanni Pitruzzella, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Palermo. 41

SEDUTA DEL 20 MAGGIO 2004. 48

Pietro Ciarlo, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Cagliari. 48

Andrea Giorgis, professore straordinario di garanzie dei diritti fondamentali presso la facoltà di giurisprudenza dell'università di Torino. 51

SEDUTA DEL 21 MAGGIO 2004. 55

Umberto Allegretti, professore ordinario di diritto pubblico presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Firenze. 55

Giovanni Guzzetta, professore straordinario di diritto pubblico presso la facoltà di sociologia dell'Università di Trento. 64

professor Leopoldo Elia, Presidente emerito della Corte costituzionale. 75

Audizione di Francesco Pizzetti, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Torino. 83

Aldo Loiodice, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Bari. 99

Maria Elisa D'Amico, professore straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università dell'Insubria. 104

SEDUTA DEL 25 MAGGIO 2004. 111

Marco Olivetti, professore straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Foggia e di 111

Luca Antonini, professore straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Padova. 111


 

SEDUTA DEL 18 MAGGIO 2004

Giulio Salerno, professore straordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la facoltà di economia dell'Università di Macerata.

 

GIULIO SALERNO, Professore straordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la facoltà di economia dell'Università di Macerata. Signor presidente, desidero preliminarmente fornire il quadro del mio intervento. All'inizio affronterò tre questioni di metodo e, successivamente, svolgerò un'analisi un po' più sistematica del disegno di legge di revisione costituzionale approvato dal Senato ed ora all'esame della Camera dei deputati; in modo particolare, mi occuperò della tematica relativa al nuovo Senato federale.

La prima questione di metodo è relativa all'opportunità di una riforma costituzionale che tocchi la parte istituzionale della nostra Costituzione.

La seconda questione di metodo riguarda la necessità di affrontare - dato questo nuovo assetto costituzionale - il tema relativo alle istituzioni rappresentative. Si contempla, quindi, la necessità di una riforma costituzionale che leghi la struttura istituzionale rappresentativa del paese alle istanze del territorio.

Infine, la terza questione di metodo concerne la necessità che la riforma - nel tentare di assicurare un coordinamento tra le istanze territoriali e le decisioni a livello nazionale - assicuri un sistema efficiente.

Per quanto riguarda l'opportunità di una riforma costituzionale in materia istituzionale dobbiamo dire che nell'ambito della dottrina costituzionalistica vi sono opinioni discordi. Soprattutto negli ultimi tempi si sono levate voci volte ad evidenziare come si sia passati dal mito della Costituzione - vista come un qualcosa di assolutamente intangibile - al mito delle riforme costituzionali (intese come oggetto di una possibile panacea), che possono consentire di risolvere ogni tipo di problema dell'ordinamento e della convivenza collettiva. Effettivamente, a mio avviso, non si deve mitizzare l'uso dello strumento della riforma costituzionale; d'altro canto, l'esperienza di tutti gli Stati a Costituzione democratica e liberale ci insegna che tanto più le Costituzioni hanno dimostrato la capacità di essere flessibili e di adeguarsi ai cambiamenti e ai mutamenti delle circostanze, tanto più i valori ed i principi costituzionali incarnati da questi testi costituzionali sono rimasti saldi nel corso del tempo.

Quindi, non è vero che la riforma costituzionale di per sé rappresenti uno strumento in grado di scardinare i principi ed i valori essenziali dell'ordinamento; al contrario, la possibilità di riformare l'ordinamento nei suoi aspetti istituzionali è proprio il fattore che assicura alle Costituzioni di vivere nella realtà dei nostri comportamenti. Riguardo la necessità di creare un sistema istituzionale nel quale siano rappresentate - essenzialmente al livello della formazione delle leggi - le istanze del territorio penso che non vi siano dubbi. Si tratta di una posizione piuttosto comune, ormai consolidata ed assolutamente da analizzare perché necessaria.

Tale posizione è necessaria perché l'ultima riforma costituzionale ha convinto tutti relativamente all'esistenza di un intreccio tra le competenze legislative dello Stato e degli enti regionali. Si abbisogna quindi di una struttura statale nella quale possano essere effettivamente coordinate le istanze territoriali. D'altronde, è noto che le funzioni legislative esclusive dello Stato - così come definite dall'attuale Costituzione - hanno un carattere trasversale.

La Corte costituzionale ci ha insegnato che, pur esistendo una ripartizione delle competenze, le funzioni legislative esclusive dello Stato non possono non riflettersi nell'ambito delle competenze regionali. Quindi, è necessario che la struttura delle competenze legislative dello Stato tenga conto delle competenze regionali.

D'altro canto, le competenze concorrenti regionali vivono nell'ambito dei principi fondamentali stabiliti dalla legge dello Stato. Quindi, è necessario che nella definizione di questi principi fondamentali della legge dello Stato si tenga conto delle istanze del territorio.
D'altronde, penso sia corretta la soluzione scelta per il progetto di legge di riforma costituzionale in corso di approvazione, laddove si è mantenuta ferma la dizione di potestà legislativa concorrente, così come conosciuta nell'ordinamento dal 1948. Tale soluzione è corretta, anche se molti costituzionalisti ritenevano più opportuna la scelta tedesca che vede lo Stato intervenire ogni qual volta non vi è una legge regionale. Obiettivamente, la scelta tedesca appare difficile da trasfondere nel nostro ordinamento. In primo luogo, ciò comporterebbe un arretramento - che penso nessuno auspichi - rispetto alla soluzione alla quale siamo giunti oggi. Inoltre, ormai nella nostra tradizione di interpretazione ci siamo abituati a ragionare abbastanza correttamente per ciò che concerne la distinzione tra i principi fondamentali che spettano allo Stato e la legislazione che, invece, spetta agli enti regionali. Quindi, mi sembra che questa impostazione possa essere considerata corretta.
Riguardo alla necessità di una riforma che assicuri un funzionamento efficiente delle istituzioni rappresentative a livello statale - mi riferisco soprattutto a quelle istituzioni che producono leggi - mi sembra un principio di buonsenso, ormai affermato anche dalla Corte costituzionale. Quando la Corte costituzionale procede all'interpretazione e all'applicazione delle stesse norme costituzionali intende far sì che queste ultime agiscano e funzionino secondo un criterio di efficienza che assicuri il buon funzionamento di tutte le istituzioni. Quindi, penso che proprio gli organi preposti alla modifica della Costituzione debbano tener conto di come concretamente le norme possano funzionare.

D'altronde, è davanti ai nostri occhi l'esempio dato dall'articolo 119 della Costituzione concernente la materia fiscale e finanziaria. Si tratta di un articolo da considerarsi quasi una sorta di utopia perché concretamente non funziona, anche se la Corte costituzionale ne ha assicurato una sorta di attuazione parziale e ritardata sostenendo che non si possono approvare leggi innovative contrastanti con i principi in esso contemplati. Quindi, anche la stessa Corte nel momento in cui si debbono applicare norme di difficile implementazione del sistema cerca strumenti che assicurino efficienza e buon andamento.

Il Senato federale della Repubblica è stato costruito all'interno di una forma rinnovata di Governo modificando il bicameralismo paritario e perfetto che oggi conosciamo. Più esattamente, il Senato federale si presenta come un organo politico-rappresentativo dello Stato non particolarmente dissimile dalla Camera dei deputati, sia dal punto di vista della composizione sia dal punto di vista delle attribuzioni relative alla produzione normativa.
Sul versante della composizione il Senato risulterebbe formato sulla base del principio del suffragio universale e diretto, parzialmente corretto dalla cosiddetta base regionale che vivrebbe nelle limitazioni delle norme sull'elettorato passivo.

Per quanto riguarda il versante relativo all'esercizio della funzione di produzione delle leggi, il Senato federale concorrerebbe con la Camera dei deputati sulla base di una ripartizione delle competenze. Per quanto riguarda il rapporto con il Governo, il Senato si troverebbe svincolato dal rapporto fiduciario e sottratto all'eventualità dello scioglimento anticipato da parte del Capo dello Stato. È quindi venuta meno anche quella possibilità di carattere residuale che consentiva al Presidente della Repubblica di procedere, secondo il progetto originario, allo scioglimento anticipato in caso di prolungata impossibilità di funzionamento del Senato. Il potere di scioglimento della Camera viene attribuito alla volontà preminente del Primo ministro o si prevede il suo automatico determinarsi allorché si verificano determinate condizioni, ossia il venir meno dell'accordo di maggioranza affermatesi nell'elezione della Camera stessa, salvo che non segua, entro termini molto ristretti, l'indicazione di un nuovo Presidente del Consiglio legato al medesimo programma e alla medesima maggioranza di deputati. Sono note le critiche di chi ha sottolineato lo sbilanciamento di un tale tipo di bicameralismo. Come si potrebbe assicurare la stabilità e l'efficacia dell'indirizzo politico nazionale tracciato dal Governo sulla base del programma presentato al corpo elettorale, se non sussistano meccanismi idonei attinenti sia ai momenti costitutivo e risolutivo del Senato federale sia allo svolgimento delle attribuzioni legislative del Senato medesimo, capace di assicurare una tendenziale uniformità tra la volontà della maggioranza della Camera e quella presente nel Senato? Non si prospetterebbe una sorta di impasse che sarebbe pericoloso per il buon funzionamento delle istituzioni, non risolvibile neppure con l'intervento del Capo dello Stato, ma solo con lo scioglimento della Camera, quando non si formi al suo interno una maggioranza coerente con quella esistente al Senato?
La domanda potrebbe essere posta anche in altri termini: le ragioni del federalismo, che sono la base della volontà di abbandonare l'attuale bicameralismo paritario e perfetto, sono tradotte in un nuovo e diverso sistema bicamerale che assicuri, in via tendenziale, l'efficienza necessaria al procedimento di formazione dell'indirizzo politico nazionale?

A mio avviso, bisognerebbe pensare a correzioni del testo al fine di perseguire un riequilibrio che appare opportuno, non tanto al fine di ristabilire una «parità delle armi» tra le assemblee, quanto per assicurare al circuito rappresentativo dello Stato, complessivamente inteso, una sufficiente unità di intenti e di azione.

A tal fine, si potrebbe agire sul complesso degli aspetti della questione, intervenendo sia sul versante della composizione del Senato, sia su quello della distribuzione e dell'esercizio delle competenze di produzione delle leggi, giacché è evidente che un solo aspetto non sarebbe sufficiente e che, comunque, entrambi devono essere coerenti tra di loro.

Insieme ad autorevoli colleghi, ho sostenuto che una soluzione ottimale sarebbe stata quella della composizione del Bundesrat che era stata gradita anche da parte di alcune forze politiche. È una soluzione che, con una grande esperienza alle spalle, è stata adottata in un ordinamento che, per molti aspetti, assomiglia al nostro, per vicinanza di cultura e per storia costituzionale, soprattutto negli ultimi tempi. Sappiamo, però, che le resistenze al riguardo sono molto forti e ci sono problemi di realizzazione pratica.

Se questa soluzione non si è voluta scegliere, devo dire, allora, che concordo con la scelta di principio effettuata, vale a dire di evitare che nel Senato siano presenti rappresentanze di diverse articolazioni territoriali. La contemporanea presenza all'interno del Senato di esponenti rappresentativi di diverse articolazioni territoriali, a mio avviso, sarebbe stata non solo molto difficile da escogitare con un complesso coerente ed omogeneo di norme, ma soprattutto avrebbe introdotto nel Senato stesso tali elementi di frizione, da renderlo davvero assemblea ingovernabile. A questo punto, la scelta per un sistema di suffragio diretto, scartando la soluzione del Bundesrat, con il collegamento immediato con i governi regionali, mi sembra una soluzione accettabile.

D'altronde, vorrei ricordare che Kelsen ci insegna che una democrazia è tale tanto più la rappresentanza viene formata in modo unitario. L'unitarietà del modo di formazione della rappresentanza è un carattere di un sistema democratico. Se frazioniamo la rappresentanza all'interno dello stesso organo, corriamo il rischio di perdere alcuni connotati della democraticità del sistema; bisogna fare molta attenzione ad inserire diverse rappresentanze di articolazioni territoriali differenti all'interno dello stesso organo, perché si corre il rischio di perdere la democraticità complessiva del sistema.

La questione merita qualche cenno ulteriore soprattutto in relazione alla sottrazione del Senato dal circuito fiduciario e dallo scioglimento anticipato. La soluzione che viene adottata sembra configurare il Senato come luogo istituzionale dove possa manifestarsi una sorta di contropotere permanente, sempre potenzialmente collegato con gli organi rappresentativi regionali, cui spetterebbe una funzione di garanzia, largamente intesa, delle istanze del territorio, e, dunque, eventualmente sia di freno, sia di prospettazione di posizioni alternative e diverse rispetto alla volontà decisionale che, guidata dal Governo, si afferma nella maggioranza della Camera dei deputati.

Tuttavia, questa interpretazione, che può essere corretta in un sistema nel quale vogliamo assicurare un bilanciamento tra i poteri e quindi la creazione di pesi e contrappesi, appare indebolita perché, nel processo di approvazione del testo, è stato eliminato il criterio proporzionale come criterio di composizione del Senato federale. Quindi, la legge elettorale per il Senato non sarà più guidata necessariamente dal criterio proporzionale, che è il criterio che assicurerebbe in modo migliore rispetto agli altri il fatto che il Senato sia organo di garanzia di tutti i soggetti e di tutte le forze politiche presenti nel paese.
Spetterà quindi alla legge elettorale, ora genericamente vincolata a garantire la rappresentanza territoriale da parte dei senatori, determinare le effettive modalità di composizione del Senato e stabilire attraverso quali forme si debba assicurare, in un modo più o meno tendenziale, la divaricazione o, al contrario, la corrispondenza tra i rapporti di forza presenti in un'assemblea e quelli rappresentati nell'altra.

È evidente che, se si intende dare al Senato federale un volto costituzionalmente preciso come contrappeso istituzionale, anche al fine di evitare una duplicazione rispetto alla Camera dei deputati, sarebbe forse auspicabile indicare con maggiore precisione quali principi di rango costituzionale debbano guidare la relativa legge elettorale e, soprattutto, intervenire nelle norme che disciplinano il procedimento di formazione delle leggi, al fine di evitare che la contrapposizione tra le due assemblee conduca ad una situazione di stallo e, quindi, di impossibilità di decisione.

Al riguardo, devo considerare senz'altro positiva la modifica apportata al testo che prevede il mutamento della tipologia del procedimento legislativo - dal procedimento «a preferenza» del Senato al procedimento bicamerale - nel caso in cui il Governo dichiari l'essenzialità delle modifiche da apportare al provvedimento legislativo in atto. Se il Senato si oppone ad eventuali cambiamenti che il Governo vuole introdurre, ciò non determina uno stallo completo ma il procedimento tornerà ad essere quello vigente.

È anche apprezzabile lo sforzo che è stato fatto per risolvere il conflitto di competenza fra le due Camere mediante il procedimento delle intese tra i Presidenti delle Assemblee che, eventualmente, possono attribuire questo compito, in seconda istanza, ad un comitato misto.
Su questo aspetto specifico riguardante i problemi relativi ad eventuali conflitti di competenza tra la Camera e il Senato, occorre però prestare molta cautela poiché tali contrasti sono capaci di ripercuotersi sugli ambiti di esercizio dell'iniziativa legislativa dei parlamentari, i quali, inevitabilmente, all'interno di ciascuna Assemblea, potrebbero proporre leggi soltanto in materie di competenza dell'Assemblea stessa. Per risolvere questo problema - ai fini dell'ammissibilità del provvedimento -, in sede di applicazione del regolamento parlamentare, si potrebbe allora ipotizzare un'intesa dei Presidenti di Assemblea che sia preliminare al momento di presentazione del testo del disegno di legge, evitando un conflitto di competenza alla fine del procedimento.

Le medesime considerazioni valgono anche per la distinzione tra la competenza legislativa di una Camera e l'altra. Ad una di esse, infatti, vengono attribuite materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato e all'altra materie di competenza concorrente. Sul punto, la dottrina tutta si è sforzata, nei due anni decorsi dall'entrata in vigore dell'ultima legge di riforma costituzionale, di segnalare certi profili critici della legge costituzionale n. 3 del 2001, con particolare riferimento alla definizione esatta delle materie specifiche. In tal senso, ritengo che precisare in modo più puntuale e chiaro le materie di competenza dello Stato e quelle di competenza concorrente sarebbe di giovamento per tutti. Ovviamente, comprendo bene che si tratta di problemi estremamente complessi, come lo sono le questioni toccate da queste disposizioni. Vorrei, in ogni caso, rilevare come la scelta effettuata dalla Camera e dal Senato nell'approvazione del disegno di legge in esame - tesa a favorire una maggiore attività di coordinamento della legge statale rispetto a materie di competenza amministrativa regionale - si inserisce in una logica attualmente prevalente anche in seno alla Corte costituzionale, il cui indirizzo interpretativo sembra preferire, nella dinamica dei rapporti reciproci, più che una rigida separazione di competenze (ex articolo 117 della Costituzione), il principio del coordinamento (per cui al legislatore statale compete coordinare l'esercizio delle funzioni amministrative regionali, ex articolo 118).
Da ultimo, mi limiterò ad un velocissimo accenno all'approvazione dei testi di legge in materia finanziaria, rispetto a cui è stato disegnato un sistema piuttosto intricato di competenze tra le due Assemblee: ritengo che qualche precisazione sul punto potrebbe rivelarsi utile.

 

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Salerno per la sua chiarezza e cedo la parola ai colleghi per eventuali interventi.

 

GIANCLAUDIO BRESSA. Sono con lei, professor Salerno, quando sostiene che il modello migliore per una Camera federale sia rappresentato dal Bundesrat tedesco ed ugualmente concordo con lei sulle difficoltà di tipo politico a realizzare questa soluzione; ciò che, però, mi è sembrato non conseguente è la serie di argomentazioni che lei ha usato per dichiarare di essere soddisfatto dal modello partorito dal Senato. Sarò conciso: la rappresentanza federale in quel modello mi pare estremamente labile nella sostanza. Lei sarà perfettamente in grado di comprendere, senza che io mi dilunghi oltre, il motivo delle mie argomentazioni. Si tratta, infatti, di una Camera in cui la rappresentanza politica prevale su tutto il resto senza mostrare alcunché di realmente federale.
Ma non è su questo che vorrei porle la mia domanda. Lei, precedentemente, e molto opportunamente, faceva rilevare come la riforma del Titolo V porti con sé degli elementi di complessità che meriterebbero di essere sciolti. Convengo con lei sul fatto che questa debba costituire l'occasione per apportare modifiche migliorative all'articolo 117 della Costituzione, posto che, d'altra parte, il Senato non lo ha fatto. Lei si è riferito, inoltre, alla non immediata applicabilità dell'articolo 119, lanciando l'allarme che io condivido. Le chiedo, però, se sia davvero convinto che il modello, così com'è stato concepito sinora, funzioni, o non si siano poste le premesse, piuttosto, dal punto di vista della complessità nel procedimento di formazione delle leggi, per dar vita ad una sorta di articolo 119 all'ennesima potenza, creando un meccanismo destinato a paralizzare il processo legislativo. Ometterò qualsiasi osservazione e considerazione sulla questione della fiducia, soffermandomi invece su un'altra richiesta di chiarimento; se lei fosse in grado di illuminarmi circa le sue opinioni riguardo alla possibilità che il Senato - così come attualmente definito - funzioni o meno, le sarei grato.

 

MARCO BOATO. Domando scusa per non aver potuto seguire la prima parte del suo intervento che, tuttavia, mi sarà possibile esaminare leggendo la relazione in distribuzione. Nel suo intervento, lei ha parlato di aggiustamenti necessari rispetto alla composizione del Senato e alla distribuzione delle competenze legislative. Ha avuto modo di approfondire entrambi gli aspetti, per poi parlare di unitarietà del modo di formazione della rappresentanza: a questo riguardo, le chiedo di manifestare il suo pensiero a proposito dei senatori eletti nella circoscrizione estero, alla luce del ruolo della seconda Camera in qualità di «Senato federale ». Ancora, lei ha parlato della sottrazione del Senato dal circuito fiduciario, evidenziando, dunque, a tal proposito, la previsione di una sorta di potere permanente; apprezzerei molto, a questo punto, conoscere la sua posizione rispetto alla competenza che il Senato può assumere anche in materia di legge finanziaria e di bilancio, espressioni tipiche del rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento.

 

LUIGI OLIVIERI. Signor presidente, sarò brevissimo. Ringrazio anch'io il professor Salerno per la sua relazione. Lei parte da una affermazione che mi sento di condividere, ovvero la tesi kelseniana della democrazia concepita come qualcosa di unitario. Sempre seguendo tale logica, lei deduce l'impossibilità che il Senato sia formato in modo diverso, ovvero possa esprimere una rappresentanza territoriale articolata - oltre che a livello regionale -, anche, eventualmente, su ulteriori livelli indicati all'articolo 114 della Costituzione. Non riesco pienamente a cogliere la consequenzialità di queste affermazioni, perché, mio avviso, risulterebbe democratico e fortemente unitario anche un altro tipo di concezione. Inoltre, vorrei porle una seconda domanda, tesa a comprendere in cosa lei possa individuare la caratteristica federale di questo Senato, perché il modello, come sottolineava giustamente il collega Bressa, così come è costruito, di federale sembrerebbe avere solo l'aggettivo e quasi niente altro.

 

MARCO BOATO. Vorrei integrare il mio intervento con un'ulteriore richiesta di chiarificazione, a proposito dell'istituto fiduciario. Il professore ha fatto riferimento al fatto che nel disegno originario si prevedeva la possibilità di scioglimento anche del Senato per prolungata impossibilità di funzionamento: vorrei sapere se è favorevole alla reintroduzione di questa ipotesi.

 

MICHELE SAPONARA. Ringrazio anch'io il professore per la chiarezza della sua relazione e, soprattutto, per la neutralità dimostrata nel commentare il disegno al nostro esame. In sostanza, il professor Salerno non si scandalizza di fronte a questo testo, sebbene rilevi l'opportunità di apportarvi adeguate correzioni e ci spieghi in quale parte la modifica dovrebbe intervenire. In proposito, apprezzeremmo sue indicazioni per affrontare i profili critici evidenziati.

Aggiungo, infine, che la legge costituzionale n. 3 del 2001 di modifica del Titolo V della Costituzione presenta evidenti lacune, note a tutti, compresi coloro da cui fu sostenuta sino all'ultimo minuto (ricordo le dichiarazioni di voto in Aula): si pensava però, sin dalla sua approvazione, però, che quelle carenze sarebbero state colmate. Alla luce di ciò, mi domando, quindi, fino a che punto questa nostra riforma riesca a sanare le mancanze presenti.

 

CARLO LEONI. Signor presidente, intervengo molto brevemente poiché non riprenderò le considerazioni già svolte da altri colleghi e con le quali concordo.

Professor Salerno, lei sostiene che per una più efficace composizione del Senato sarebbe stato meglio mantenere - a proposito della legge elettorale - il principio proporzionale, mentre tra le possibili correzioni indica l'estensione dei principi di rango costituzionale che debbono guidare la relativa legge elettorale.

Ha sostenuto che il sistema proporzionale è più adatto per la composizione di organismi di garanzia. Indubbiamente, ciò è vero anche se non necessariamente si deve far riferimento ad organismi di garanzia territoriale. Se possibile desidererei che ella approfondisse meglio quest'ultima questione.

Le chiedo quale principio proporzionale e quale meccanismo elettorale può, secondo lei, configurare un'Assemblea di rappresentanza territoriale.

 

PRESIDENTE. Do ora la parola al professor Giulio Salerno per la replica.

 

GIULIO SALERNO, Professore straordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la facoltà di economia dell'Università di Macerata. L'onorevole Bressa sosteneva che la rappresentanza prefigurata nel disegno di legge è politica e non federale.

Vi sono però ordinamenti federali in cui la rappresentanza all'interno del Senato è pienamente politica e determinata da una sistema elettorale attraverso cui viene eletto un egual numero di parlamentari per ogni Stato, per ogni soggetto presente all'interno della federazione.
All'interno di questo progetto vi è il tentativo di ridurre lo scarto nell'ambito della rappresentanza territoriale delle regioni, al fine di assicurare una rappresentanza diretta ed universale maggiormente livellata fra le regioni; in tal modo, si darebbe a questa rappresentanza un maggiore connotato federalistico. Certo che se vi fosse stata una spinta ulteriore in questo senso - un numero pari di rappresentanti per ogni regione -, ciò per il federalismo sarebbe stato il massimo. In ogni caso, sono cosciente del fatto che, effettivamente, una spinta in tal senso sarebbe difficilmente praticabile nel nostro ordinamento.
Mi è stato anche domandato se sono convinto del fatto che il Senato possa funzionare concretamente e se questo sistema non introduca complicazioni. In questo caso, dobbiamo metterci d'accordo poiché è chiaro che il federalismo complica la situazione: non esistono infatti sistemi federali semplici. Il sistema federale impone la complicazione, anche se ciò che auspico è che in questa sede si possono apportare quelle correzioni utili a ridurre i problemi.
Rispetto al sistema odierno, sicuramente verranno a crearsi dei problemi che obbligheranno i funzionari e tutti noi a lavorare molto di più, anche se per i professori di diritto costituzionale ciò costituirà un gran vantaggio poiché avranno parecchio da scrivere e da pubblicare!
Anche la Corte costituzionale rappresenta un organo di garanzia nato nell'ambito dei sistemi federali, ad esempio, dell'Austria e della Germania.

 

GIANCLAUDIO BRESSA. Io non avevo chiesto se complica, ma se funziona.

 

GIULIO SALERNO, Professore straordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la facoltà di economia dell'Università di Macerata. Ciò, al momento non posso prevederlo. Circa l'impossibilità di funzionamento del nuovo sistema, in realtà sono contrario ad uno scioglimento anticipato del Senato. Se la logica è quella di stabilire un organo di garanzia permanentemente presente nel sistema lo scioglimento deve rappresentare l'ultima risorsa. A mio avviso una soluzione abbastanza interessante sarebbe quella di rendere il Senato un organo a formazione ripartita, così come accade negli Stati Uniti d'America. In ogni caso, sappiamo che ciò innescherebbe delle critiche di altra natura, quindi si tratta di un rimedio difficile da sostenere.

L'onorevole Boato, molto cortesemente mi aveva posto una domanda circa l'unitarietà e i senatori della circoscrizione estero. Effettivamente, si tratta di un problema molto delicato da risolvere attraverso una decisione politica; non credo, infatti, che un giurista possa dare un'opinione al riguardo. Se infatti prendiamo in esame la mera coerenza formale del disegno di legge in questione debbo riconoscere, ad esempio, che non dovrebbero neanche più essere previsti i senatori a vita.

Per quanto concerne il rapporto fiduciario e le leggi di bilancio si tratta di una questione che ho già sollevato. Il Senato deve ricoprire un ruolo nei confronti di leggi che trattano della finanza relativa agli enti territoriali: ruolo ricoperto, ad esempio, dal Bundesrat.

L'onorevole Olivieri non comprendeva come mai potessi essere contrario ad articolazioni territoriali plurime, in quanto anch'esse corrispondono ad un principio democratico.

È vero che qualsiasi rappresentanza risponde ad un principio democratico, però bisognerebbe anche domandarsi verso quale principio democratico si debba andare. Personalmente auspicherei un principio democratico coerente e logico, quindi mi sembrava che il sistema di elezione proporzionale fosse quello che maggiormente vi rispondesse essendo distribuito in modo omogeneo sul territorio.

Si sta parlando della rappresentanza dei comuni, delle province, delle città metropolitane; da questo punto di vista, ritengo che se il Senato non si fosse occupato della produzione delle leggi la presenza di articolazioni territoriali differenziate sarebbe stata ammissibile. Comunque, poiché il Senato produce leggi, mi sembra piuttosto complesso far partecipare alla loro formazione soggetti che non hanno competenza legislativa in senso stretto.

Debbo dire che il federalismo del Senato dovrebbe nascere soprattutto nel momento dell'attuazione della legge elettorale che determina esattamente i criteri di elezione del Senato stesso.

In questa sede mi sembra piuttosto complesso proporre un meccanismo proporzionale in senso specifico. Come sappiamo di meccanismi proporzionali ne possono esistere a migliaia, in ogni caso mi sembra che la proporzionalità del meccanismo elettorale, creata secondo le diverse formulazioni immaginabili, possa costituire un principio guida che il legislatore deve osservare. A tutt'oggi, viceversa, mi sembra che la rappresentanza territoriale venga lasciata con una certa eccessiva libertà al legislatore stesso.

L'onorevole Saponara mi aveva chiesto se questo disegno di legge, in sostanza, tende effettivamente a correggere la legge costituzionale n. 3 del 2001. Senz'altro esso tende a colmare la lacuna fondamentale del sistema; si vuole creare cioè un organo istituzionale rappresentativo dello Stato nell'ambito del quale, in via di tendenza, si possano rappresentare le articolazioni territoriali.

Naturalmente non mi esprimo sulla forma di Governo poiché si tratta di una questione che oggi non ho preso in considerazione e, tra l'altro, penso che i miei colleghi possano dare al riguardo il loro contributo.


 

Vincenzo Cerulli Irelli, professore ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università «La Sapienza» di Roma.

 

VINCENZO CERULLI IRELLI, Professore ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università «La Sapienza» di Roma. Ringrazio il presidente per il cortese invito e chiedo scusa per la mia relazione alla quale ho apportato alcune correzioni.

Come da richiesta mi soffermerò esclusivamente sulle norme di modifica del titolo V della Costituzione che rappresentano una parte del disegno di legge al vostro esame.

In via preliminare, constato due cose; in primo luogo, il titolo V della Costituzione in gran parte viene mantenuto e questo, per quanto mi riguarda, è motivo di una qualche soddisfazione. In ogni caso, debbo dire che, forse, qualche modifica ulteriore andrebbe introdotta.

Per ciò che concerne la questione delle materie, credo che qualche errore sia stato commesso, forse anche un po' per la fretta con cui nella scorsa legislatura dovemmo procedere.

Nei rapporti tra terzo e secondo comma dell'articolo 117 qualche spostamento sarebbe opportuno; nel dire questo penso alla politica dell'energia e, in genere, alla politica delle grandi reti di telecomunicazione. Personalmente, inserirei queste due materie nel secondo comma tra quelle di competenza esclusiva dello Stato, anche se, tutto sommato, si tratta di una piccola notazione.

Per quanto riguarda il Senato, sia la maggioranza sia l'opposizione di allora notarono che il testo prodotto era monco poiché non prevedeva la costituzione di una Camera o di un Senato delle regioni. Tale manchevolezza non fu dovuta alla volontà delle forze politiche ma a difficoltà e contingenze obiettive di portare avanti il processo di trasformazione.
Per fare in modo che un Senato o una Camera delle regioni possa svolgere il suo ruolo di composizione e di concertazione di interessi - facendo in modo che le rappresentanze dei governi regionali e locali vengano fatte parte delle grandi scelte nazionali (soprattutto quelle di politica legislativa) - occorre che le regioni, direttamente o indirettamente, siano presenti nel Parlamento nazionale. Le modalità tecniche di questa presenza possono essere studiate, in ogni caso debbono essere presenti a questi fini.

Il Senato, così come previsto dal testo del disegno di legge di riforma, ha però diverse caratteristiche delle quali si può discutere positivamente o negativamente. Esso è composto da membri eletti dal popolo italiano su base regionale, così come oggi. La stessa presenza dei presidenti delle regioni è prevista - se non ricordo male - esclusivamente per l'elezione dei membri del Consiglio superiore della magistratura: francamente è troppo poco.

Per quanto concerne il complesso delle modifiche vi è il problema di Roma. Non si tratta del problema principale; in ogni caso il testo approvato dal Senato, a mio giudizio, risulta difficilmente comprensibile.

Nella scorsa legislatura fu presa la decisione di affidare l'ordinamento della città di Roma - in quanto capitale della Repubblica - alla legge dello Stato, svincolandola dalla modellistica rappresentata da comuni, province e città metropolitane. Quindi, il Parlamento avrebbe costruito l'ordinamento della città senza particolari vincoli, e ciò perché Roma ha particolari esigenze. Naturalmente, questa ipotesi presenta il limite della potestà legislativa. La città di Roma, infatti, tutto può avere tranne che la potestà legislativa, e ciò perché un'altra norma costituzionale afferma che tale potestà spetta esclusivamente allo Stato ed alle regioni. Quindi, una volta stabilito questo limite sulla parte restante la legge dello Stato può avere piena capacità inventiva.

Adesso il nuovo testo, da una parte conferma questa scelta - si stabilisce infatti che la legge dello Stato disciplina l'ordinamento della capitale -, ma dall'altra affida allo statuto della regione Lazio l'individuazione di forme e condizioni particolari di autonomia - anche normativa - nelle materie di competenza regionale. Francamente, anche sul piano tecnico, non si capisce cosa ciò possa significare. Ovviamente, infatti la regione Lazio potrà attribuire alla città di Roma con propria legge - e, se possibile, anche attraverso lo statuto - quello che vuole; comunque, l'ordinamento particolare della città di Roma è stabilito dalla legge dello Stato.

Quando si usano i termini «condizioni particolari di autonomia, anche normativa», se con ciò si intende prendere in considerazione il potere regolamentare la cosa allora è pacifica, ma di contro non credo sia possibile che tali parole possano riguardare il potere legislativo perché, in tal caso, bisognerebbe modificare la norma costituzionale che distribuisce la potestà legislativa tra lo Stato e le regioni.

Passando ad un'altra questione, sinceramente non comprendo il motivo per cui il Senato ha voluto sopprimere il terzo comma dell'articolo 116 della Costituzione con il quale si consente a regioni - principalmente a quelle del nord d'Italia come, ad esempio, la Lombardia ed il Veneto - dotate di maggiori capacità di Governo e di maggiore solidità istituzionale e finanziaria di negoziare con il Governo nazionale (con l'approvazione del Parlamento) un ampio modello di autonomia che investe più materie e necessita di maggiori mezzi.

Questa scelta è non vincolante ma libera: è il Parlamento che dispone, dopo la proposta della regione e la negoziazione del Governo. Dato che, quindi, la norma in questione non fa che eliminare un'opportunità e non un vincolo, non capisco perché il Parlamento ed il Governo si vogliano togliere questa possibilità e ritengo, invece, che andrebbe conservata una tale ricchezza di intervento da parte del Parlamento, del Governo e delle regioni, contenuta nell'articolo 116, terzo comma.

L'articolo 117, così come è stato riformulato, comporta una serie di problematiche. Nel testo approvato dal Senato, è stato riscritto il quarto comma del suddetto articolo, il quale individua le materie nelle quali le regioni hanno potestà legislativa esclusiva, ossia non limitata dai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, di cui al terzo comma.
Nella passata legislatura, quando fu redatto il testo in vigore, non fu inserito l'aggettivo «esclusivo» riferito alla potestà legislativa delle regioni: si intese, infatti, che la competenza legislativa regionale fosse esclusiva nei limiti stabiliti dai principi fondamentali delle leggi dello Stato, ma non lo nel medesimo significato con il quale si intende quella esclusiva statale, di cui al secondo comma. Per esempio, una materia come l'agricoltura, è certamente di competenza legislativa regionale, ma i contratti agrari sono di competenza esclusiva dello Stato; nello stesso senso, si pensi ancora all'organizzazione sanitaria, vincolata dai livelli essenziali delle prestazioni stabiliti dalle leggi dello Stato o, ancora, al commercio, limitato dalla legislazione statale sulla tutela della concorrenza.
Occorre quindi intendersi su cosa significhi la nozione «esclusiva» riferita alla potestà legislativa regionale: se voglia intendersi come potestà non limitata dai principi fondamentali delle leggi dello Stato, così come nel testo attuale, oppure se essa implichi una deroga al secondo comma dello stesso articolo e, in tal caso, comporti che, nelle materie ivi indicate, non operi la legislazione esclusiva dello Stato. Dalle dichiarazioni del ministro Bossi e dall'incontro con il ministro La Loggia, si è appreso che la nozione «esclusiva» non vuole essere intesa in senso espansivo. Mi permetto di osservare, come modesto cultore del diritto, che, comunque, un tale aggettivo, inserito nella Costituzione, potrebbe dar luogo a conflitti interpretativi.

Per quanto riguarda le materie espressamente elencate nel quarto comma dell'articolo 117, mostro perplessità sulla polizia locale: non rappresenterebbe una grande novità, se con essa si intendesse la vecchia polizia urbana e rurale, di cui all'articolo 117 nel precedente testo, ma comporterebbe una modifica sostanziale all'assetto complessivo del settore interessato se, invece, per polizia locale si intenda l'ordine e la sicurezza pubblica di carattere locale. A mio avviso, tale questione necessiterebbe qualche riflessione in più da parte del Parlamento. Voglio però essere chiaro: si può pure fare come in Catalogna, ove opera esclusivamente la polizia catalana e non quella del Regno di Spagna, ma ritengo opportuno che il Parlamento abbia consapevolezza di una tale inequivocabile modifica e di ciò che ne consegue.

Mi permetto anche di consigliare qualche aggiustamento delle materie indicate nel quarto comma dell'articolo 117. È possibile tecnicamente attribuire una competenza che si autodenomina esclusiva alle regioni in materia di organizzazione scolastica, quando, al terzo comma, è prevista sull'istruzione - esclusa l'autonomia delle istituzione scolastiche - la competenza legislativa concorrente di Stato e regioni, ed ancora, al secondo comma, le norme generali sull'istruzione vengono assegnate alla competenza statale esclusiva? Insomma, si pone qualche difficoltà interpretativa, essendovi tre menzioni della stessa materia contenute nello stesso articolo, che daranno certamente luogo ad un contenzioso costituzionale più intenso e ricco di quello attuale, che è già preoccupante.
Riguardo alla questione relativa alle intese tra regioni, di cui all'articolo 117, ottavo comma, ritengo che il Senato abbia giustamente indicato che tali intese siano volte al miglior esercizio delle funzioni amministrative regionali. Ciò è assolutamente evidente e lo credevo scontato, comunque l'averlo specificato non dà luogo ad equivoci.
Tuttavia, richiamo la vostra attenzione sul fatto che la suddetta norma convive con la modifica apportata all'articolo 72, che prevede che il Senato è organizzato in commissioni, anche con riferimento proprio a quanto previsto dall'articolo 117, ottavo comma. Si potrebbe desumere che le commissioni senatoriali possano essere organizzate regionalmente, inserendo quindi in esse anche membri designati dalle regioni che, a loro volta, sono membri di organi comuni tra le stesse. Rilevata qualche perplessità sulla formazione di articolazioni regionali del Senato (si pensi al Senato della Padania o a quello della Sicilia), sarebbe opportuno ovviare all'ambiguità che comporta l'aver specificato, nel nuovo testo, che gli organi comuni delle regioni hanno esclusivamente funzioni amministrative, quando le Commissioni permanenti svolgono compiti legislativi.
Vorrei anche accennare alla questione relativa all'interesse nazionale. Ricordo che tale nozione, presente nel testo della Commissione bicamerale presieduta dall'onorevole D'Alema, venne espunta dal titolo V della Costituzione sia per non dar luogo ad ulteriori ambiguità nel riparto di competenze tra Stato e regioni, sia per ragioni di difesa regionalistica; infatti, attorno a tale concetto, la Corte costituzionale aveva costituito una vera barriera alla competenza legislativa regionale.

D'altra parte, si ritenne - e lo ritengo tuttora - che l'interesse nazionale fosse abbondantemente presente nel testo attuale: tutte le competenze indicate nel secondo comma dell'articolo 127, che investono largamente la capacità di governo delle regioni, si esercitano in funzione dell'interesse nazionale.

Ora, nel testo approvato dal Senato, si è voluto reinserire questa nozione, laddove si attribuisce al Governo il potere di impugnare davanti al Senato federale le leggi regionali che non si ritengano compatibili con le esigenze di interesse nazionale. Viene così affidato ad un organo politico, esclusivamente statale - in tale sede, il Senato opera senza la presenza dei rappresentanti regionali - il giudizio sulla violazione da parte di una legge regionale delle esigenze di interesse nazionale. Ciò rappresenta, quindi, una forte limitazione dell'autonomia regionale e si tratta di una scelta politica che ha un certo peso.
A mio avviso, è poi assolutamente impensabile affidare la decisione definitiva sulla questione sollevata al Presidente della Repubblica, il quale non è organo politico ma di garanzia. Una tale decisione, comportando una scelta eminentemente politica, potrebbe porlo in conflitto sia con il Senato sia con il Governo che ha avuto la fiducia della Camera dei deputati. Ha un senso invece - pur essendo discutibile - affidare tale competenza al Senato che è un organo politico (in tal caso, tra l'altro, suggerirei l'inserimento di rappresentanti delle regioni).

Da ultimo, vorrei fare un'osservazione assolutamente positiva sulla modifica operata all'articolo 118, ultimo comma, laddove si inseriscono gli enti di autonomia funzionale nella protezione della norma, come già era stato inteso dall'attività interpretativa e dalla Corte costituzionale.

 

PRESIDENTE. Ringrazio il professore per la relazione testé svolta e do la parola ai colleghi che intendono intervenire.

 

MARCO BOATO. Anche io ringrazio il professor Cerulli Irelli per la sua partecipazione e per la relazione che ci ha consegnato.

Condivido molte delle affermazioni del professor Cerulli Irelli, compresa anche quella incidentale, su cui avevamo già discusso all'epoca del dibattito sulla revisione costituzionale, in materia di devoluzione.

Vorrei chiedere al professore un approfondimento sul secondo punto che ha affrontato nella relazione sulle caratteristiche politico-istituzionali del Senato. Avendo rilevato che, così come è configurato, tale organo non ha una rappresentanza del sistema regionale in quanto si prevede una forma di elezione del tutto analoga a quella attuale, vorrei sapere se aveva suggerimenti da rivolgere alla Commissione al riguardo.

Altro approfondimento merita la questione del rapporto fra l'articolo 117, ottavo comma, e l'articolo 72, quinto comma, nel testo approvato dal Senato.

Non ritengo che tale testo - da me non condiviso - faccia riferimento alla partecipazione di rappresentanti regionali a queste Commissioni. Mi sembra di poter ricavare, piuttosto, dalle disposizioni contenute nel provvedimento la possibilità di costituire Commissioni parlamentari per il Senato di tipo territoriale, cioè non relative a ripartizioni per materia, bensì legate al territorio, ipotesi che, come noi sappiamo, ci è stata più volte prospettata da parte di alcuni settori politici della maggioranza. Condivido, dunque, le riserve manifestate ma ritengo comunque che dal testo in esame non sia desumibile un'ipotesi di partecipazione diretta dei rappresentanti regionali.

Da ultimo, farò cenno ad un problema di redazione normativa, di drafting, che io pongo perché potrebbe rivelarsi utile un approfondimento a riguardo, condotto in questa sede.

Lei si è dichiarato concorde sull'opportunità di riconoscere - tra i soggetti richiamati all'articolo 118, ultimo comma - anche gli enti di autonomia funzionale, così come previsto dall'articolo 35 del disegno di legge in discussione. Però, mi chiedo - e un eguale domanda pongo a lei - se sia necessario aggiungere un periodo aggiuntivo all'ultimo comma di quella disposizione.
Fra l'altro, ricordo che il testo vigente della norma suddetta venne approvato, all'epoca, in Assemblea e non in Commissione, se ben ricordo (fui io, peraltro, a firmare l'emendamento), e pressoché all'unanimità della Camera, da maggioranza e opposizione. Per ottenere l'effetto voluto, occorrerebbe semplicemente aggiungere all'attuale ultimo comma dell'articolo, dopo le parole «Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni, riconoscono e favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati» le parole : «e degli enti di autonomia funzionale» (il resto del testo proseguirebbe poi inalterato nella sua versione nota: «per lo svolgimento di attività di interesse generale sulla base del principio di sussidiarietà».

Invece, il testo che ci proviene dal Senato ha compiuto diversa operazione, aggiungendo dopo il quarto comma, questo periodo: « Essi riconoscono e favoriscono altresì l'autonoma iniziativa degli enti di autonomia funzionale per le medesime attività e sulla base del medesimo principio» con evidenti ripetizioni, certamente censurabili dal punto di vista della redazione legislativa, anche perché inserita nel corpo della Carta costituzionale.

Ripeto, invece, che sarebbe sufficiente ad ottenere il medesimo risultato, ma con maggiore chiarezza e correttezza formale, l'operazione che all'inizio suggerivo. È una questione apparentemente soltanto di drafting, che però, avendo a che fare con la Costituzione della Repubblica italiana, il cui testo ha una propria unità stilistica generale, acquista un certo significato; alla luce di ciò, apprezzerei molto il suo parere.

 

LUIGI OLIVIERI. Signor presidente, sarò molto breve. Ringrazio il professore per il suo contributo e soprattutto per la capacità - dovuta anche alla sua esperienza di legislatore - di calarsi nel merito. La mia domanda sarà molto rapida e precisa. Lei si è soffermato, in modo che condivido, sulla questione dell'interesse nazionale, criticando poi la composizione del Senato, come configurata dal disegno di legge approvato dall'altro ramo del Parlamento; ha, quindi, sottolineato la valenza politica dell'organo parlamentare definito dal provvedimento in discussione. È sicuramente vero che, in ogni Costituzione, soprattutto in quella «federale», vi è la necessità di una norma di chiusura. Tuttavia, così come è costruita, tale norma sembra assolutamente inaccettabile, rischiando di divenire uno strumento attraverso il quale il Parlamento nazionale, nella fattispecie il Senato, servendosi della potenziale versatilità interpretativa dell'interesse nazionale, la cui individuazione è oggetto di una valutazione politica, potrebbe riappropriarsi di tutto, e dunque le stesse competenze cosiddette esclusive ben riuscirebbero a rientrare dalla finestra. Qual è il suo suggerimento in proposito, dato che la definizione di interesse nazionale è generale e generica? Quale sarebbe il suo suggerimento, per la norma di chiusura? Forse quello di mutuare l'esperienza della Costituzione tedesca, oppure ha qualche altro suggerimento da fornirci?

 

MICHELE SAPONARA. Signor presidente, anch'io la ringrazio, professor Cerulli Irelli, per la sua relazione chiarissima e onestissima. Dico onestissima essendo noto a tutti che la formulazione e redazione della legge costituzionale n. 3 del 2001 è dovuta, in gran parte, alla sua opera ed al suo impegno. Tutti voi dell'allora maggioranza avete sostenuto che quella legge fosse blindata, di fatto, e comunque ne avete riconosciuto l'incompletezza unitamente alla necessità di un successivo intervento per colmare i vuoti presenti. Le domando, pertanto: fino a che punto la proposta di legge approvata dal Senato ha risposto, secondo lei, alle esigenze che voi evidenziavate, in che misura è riuscita a sanare le carenze da voi lamentate e contestate?

 

PIETRO FONTANINI. Il professor Cerulli Irelli ha sostanzialmente definito la seconda Camera - come prevista dal disegno di legge in esame - uno pseudo Senato federale, per il modo in cui è stata configurata; volevo, però, sottolineare, professore, come nell'articolo 4 del testo siano contenuti alcuni requisiti innovativi per quanto riguarda l'elettorato passivo, come la residenza o l'aver ricoperto cariche pubbliche elettive presso gli enti territoriali locali. Questi elementi, secondo lei, sono insufficienti a qualificare il nuovo Senato «federale»? E se lei preferisce un Senato federale, qual è la sua ipotesi, quella tedesca del Bundesrat?

 

VINCENZO CERULLI IRELLI, Professore ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università «La Sapienza» di Roma. In primo luogo, rendo nota la mia disponibilità a trasmettere a questa Commissione un eventuale documento per illustrare le mie posizioni attorno ai problemi appena delineati, qualora il presidente fosse così cortese da richiederemi un intervento scritto. In ogni caso, risponderò anche immediatamente e in modo sintetico alle domande che mi sono state poste nel corso della seduta odierna.

Innanzitutto, mi soffermerò sul Senato, vero punto chiave dell'intera la riforma. Mi permetto anche di osservare - lo faccio in questa sede a ragion veduta -, che il Senato, così come concepito, è un po' troppo forte perché il sistema possa correttamente funzionare, e questo a prescindere dalla questione squisitamente federalistica. Un Senato che non dà la fiducia al Governo e quindi non può subire gli effetti - di converso - di una eventuale questione di fiducia posta dal Governo, un Senato che non può esser sciolto e ha competenza esclusiva - cioè di ultima istanza - su tutte le materie dell'articolo 117, terzo comma, cioè sulla gran parte delle materie oggetto del programma di Governo (politica dell'energia, delle infrastrutture, delle reti), sembra scontrarsi, almeno in parte, con l'esigenza di governabilità.

Lo dico a latere delle vostre osservazioni e dell'oggetto della mia conversazione. Certamente, che la Camera dei deputati possa approvare un testo, il quale vede la stessa Camera ridotta a svolgere una funzione servente rispetto al Governo, mentre il Senato, viceversa, è dotato di una forza politica insuperabile, sembra difficilmente realizzabile. Trovo, cioè, improbabile che la Camera dei deputati possa approvare, sul punto, una scelta che per essa stessa sia di così evidente diminutio.

Vengo, ora, alle osservazioni più specifiche. Il problema è che il Senato, ai fini del Titolo V e della riforma federalista, deve essere rappresentativo delle regioni e degli enti del governo territoriale, o almeno «anche» rappresentativo di questi soggetti. Ritengo che, in tal senso, quanto contenuto nell'articolo 4 non introduca alcunché di decisivo, perché il fatto che i senatori debbano essere stati consiglieri comunali o debbano risultare residenti nella regione non introduce in realtà qualcosa di significativamente nuovo rispetto ai requisiti già posseduti dai componenti del Senato: chi di voi non ha mai ricoperto una carica elettorale presso i consigli regionali, almeno una volta? Chi di voi non è residente nel territorio di una determinata regione? Queste condizioni si realizzano già adesso. Credo che, invece, l'elemento più significativo sia rappresentato dall'elezione contestuale a quella dei consigli regionali, ai sensi dell'articolo 57 secondo comma, che introduce effettivamente principio idoneo a configurare la rappresentanza senatoriale come «regionalizzata». Tuttavia, anche in tale caso, occorrerebbe esplicitare ciò che appare sotteso alla disposizione. Cosa significa contestuale? Forse che, in caso di scioglimento del consiglio regionale decadono anche i senatori? Il testo è silente in proposito, ma se fosse effettivamente questo ciò che si intende affermare, quando si scrive «contestuale», allora ne sarebbe necessaria un'esplicitazione. Da quanto ho potuto evincere dalle discussioni in Senato, questa conseguenza logica e interpretativa è stata esclusa, almeno nelle dichiarazioni rese dai parlamentari.

 

MARCO BOATO. No, lo si evince anche dal testo.

 

VINCENZO CERULLI IRELLI, Professore ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università «La Sapienza» di Roma. Questo non lo so, almeno non ho avuto modo di notarlo. Sicuramente sarà come lei sostiene, onorevole. In ogni caso, si tratta di un elemento importante che occorre tener presente. Ritengo, comunque, che la contestualità delle elezioni, per quanto significativa, non sia un presupposto sufficiente per fare in modo che le regioni si sentano rappresentate. La mia è una valutazione quantitativa.

In sintesi, il problema che pongo è il seguente: una volta che il Senato abbia assunto delle scelte, le regioni si sentiranno coinvolte e rappresentate, o invece le decisioni compiute saranno percepite come espressione di un potere diverso, cioè dello Stato, cui queste non partecipano? Il problema attuale è, dunque, quello di coinvolgere le regioni nelle scelte da compiere. In tal senso, un risultato certamente positivo è stato ottenuto in sede di Conferenza Stato-regioni, il cui peso, originariamente modesto, sta crescendo progressivamente; la Conferenza, infatti, è ormai divenuta un tavolo di negoziazione ove Governo e regioni pervengono congiuntamente a conclusioni politicamente condivise.

Alla luce di ciò, quel tavolo sta acquistando una rilevanza piuttosto considerevole nell'assetto complessivo del governo del paese. Il Senato così come è, però, a mio giudizio, è privo di queste caratteristiche. Capisco le difficoltà esistenti, le conosco benissimo, e so pure che il Senato è ostile a modificare se stesso. Anche all'epoca della precedente modifica del testo costituzionale incontrammo grandi difficoltà che il legislatore affronterà anche questa volta. Il Senato, certamente, non accetterà modifiche di un certo tipo. Ma questa è una difficoltà politica di cui dobbiamo tener conto.

Se volete, invece, una osservazione di carattere tecnico-istituzionale, allora mi sento di poter dire che il Senato, così come concepito, non sia rappresentativo delle regioni, essendo inidoneo a garantirne il pieno coinvolgimento nelle grandi scelte del paese. Un correttivo al testo attuale potrebbe essere rappresentato - e di ciò si è ampiamente discusso, a quanto mi risulta, in Senato -, dal coinvolgimento di rappresentanti delle regioni non soltanto nella umiliante funzione di eleggere i componenti del CSM - iniziativa a cui le regioni dovrebbero risultare estranee, come estranee sono alla materia della giustizia -, ma, lo ripeto, nell'adozione delle rilevanti decisioni nazionali, come nel caso della valutazione dell'interesse nazionale. In tali processi decisionali avrebbero dovuto essere coinvolti i presidenti delle regioni, come pure in alcune delle scelte legislative che riguardano l'articolo 119, cioè la distribuzione delle risorse, e l'articolo 117, terzo comma della Costituzione. Se voi riusciste, mantenendo il Senato così com'è, ad inserire, in alcuni momenti determinanti della politica legislativa, i rappresentanti delle regioni, allora potrebbe cambiare la situazione. Occorrerebbe, dunque, individuare alcuni snodi dell'attività senatoriale, importanti ai fini degli interessi regionali e in quelli inserire rappresentanti delle regioni. Questa potrebbe essere una soluzione, una via d'uscita.

È chiaro che io penso al modello tedesco, l'ho sempre pensato, e nella scorsa legislatura ne proposi l'adozione, ma so bene che quel modello da noi non avrebbe fortuna politica, pertanto non mi dilungherò troppo a discuterne, non essendovi la possibilità di una sua accettazione. In alternativa, come correttivo del sistema attuale, ripeto, mi permetto di suggerire agli onorevoli commissari quanto appena detto, cioè un più ampio e più forte inserimento dei rappresentanti delle regioni nei momenti deliberativi importanti del Senato. Quanto alle intese, può essere che l'onorevole Boato abbia ragione. Se la sua fosse l'interpretazione corretta, allora nulla quaestio.

 

MARCO BOATO. La quaestio c'è ma di altra natura...

 

VINCENZO CERULLI IRELLI, Professore ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università «La Sapienza» di Roma. Appunto, di altra natura. Che il Senato possa organizzarsi in Commissioni a base regionale, intese nel senso di organi parlamentari capaci di coinvolgere i senatori eletti in una certa area territoriale, è una scelta che può esser ovviamente anche criticata ma è di natura minore. Se così è, però, occorre modificare la criptica formula usata dal Senato, che potrebbe dar luogo alle conseguenze più diverse. Quando si dice, infatti, che «Il Senato (...) è organizzato in Commissioni», il che è ovvio, «anche con riferimento a quanto previsto dall'articolo 117, ottavo comma», cioè quando si fa riferimento ad una norma che prevede organi comuni tra regioni, qualche dubbio interpretativo ovviamente si pone.

Sulla questione dell'articolo 118, ultimo comma, gli onorevoli mi trovano assolutamente favorevole; se fosse possibile trovare una formula adeguata (utilizzando, ad esempio, un inciso fra due virgole) per poi inserirla nel corpo del testo attuale sarebbe sicuramente preferibile alla formulazione attuale usata nel disegno di legge. Ma, in ogni caso, deve restare il riferimento alle autonomie funzionali, perché, pur essendo questo, secondo alcuni, già implicito nella versione vigente dell'articolo 118, ultimo comma - la stessa Corte costituzionale lo ha affermato recentemente, a proposito delle fondazioni bancarie, - dichiararlo esplicitamente sarebbe di certo auspicabile.

Mi sia infine consentita una brevissima precisazione a proposito di ciò che aveva precedentemente menzionato l'onorevole Saponara: il testo della legge costituzionale n. 3 del 2001 non era affatto blindato, il testo fu ampiamente condiviso. Poi, nell'ultima fase della legislatura si disse legittimamente da parte dell'opposizione di arrestarne il percorso e di non procedere oltre. La maggioranza volle approvare il provvedimento e ricordo che anche alcuni autorevoli esponenti di quella ritenevano inopportuno l'ultimo passaggio, non intendendo affermare un precedente. Quella posizione fu assunta, però, più per una motivazione di opportunità politica che per altre ragioni; infatti, sul testo, in realtà - come può confermare l'onorevole Soda che conosce meglio di me l'intera vicenda - le intese furono ampie.

Vorrei ricordare, da ultimo, che l'articolo 119, cioè una delle norme chiave dell'impalcatura costituzionale, non è stata toccata dal Senato, e bene ha fatto il Senato a non farlo. Aggiungo che in questa Commissione, fummo l'onorevole Soda ed io a trattare e redigere il testo dell'articolo 119, insieme con l'onorevole Tremonti.

 

MARCO BOATO. Con gli onorevoli Tremonti e Salvati, per l'esattezza...

 

VINCENZO CERULLI IRELLI, Professore ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università «La Sapienza» di Roma. Giustamente. Costoro dettero un contributo decisivo alla stesura del testo e ne dà prova il fatto che il Senato oggi non lo ha modificato, come del resto è intervenuto in modo assai modesto sul testo complessivo della Costituzione vigente. Ciò che in quella legge costituzionale mancava, ovviamente, erano norme sulla configurazione del Senato. Mancava, forse, anche una parziale modifica della Corte costituzionale, che è stata infatti attualmente introdotta in modo opportuno, ma fondamentalmente difettava una modifica relativa alla configurazione del Senato, più specificamente riguardo all'inserimento delle regioni nelle grandi scelte nazionali.
Questo è stato fatto oggi? A mio giudizio no! Perlomeno non è stato fatto a sufficienza. Quindi, pur consapevole delle difficoltà politiche - date dai rapporti tra i due rami del Parlamento - che caratterizzano tale questione, suggerirei a questa Camera di apportare alcune significative modifiche.

Tornando a ciò che dicevo in precedenza, bisognerebbe anche riesaminare il rapporto tra Senato e Governo poiché il fatto che questa Camera sia completamente succube del Governo e l'altra completamente svincolata da ogni impegno di governo qualche problema di funzionamento lo produce. Ciò, soprattutto se si fa riferimento ad un testo che assieme all'indirizzo federalista contempla anche un indirizzo teso alla governabilità.

Questa cosiddetta governabilità verrebbe pienamente assicurata - forse anche troppo - nei rapporti tra il Governo e questa Camera, ma verrebbe completamente ostacolata nei rapporti tra il Governo e l'altra Camera. Quest'ultima, non ha una funzione consultiva, ma su alcune materie fondamentali (elencate dall'articolo 117, comma terzo) ha l'ultima parola, cioè la potestà legislativa decisiva.


 

Nicolò Zanon, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Milano.

 

NICOLÒ ZANON, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Milano. Signor presidente, innanzitutto intendo ringraziare i commissari per avermi concesso di riflettere assieme a loro all'interno di questa prestigiosa sede.

Cercherò di concentrare la mia attenzione su alcuni aspetti fondamentali del progetto di riforma della Corte costituzionale, inserito naturalmente nel contesto più complessivo, più ampio dell'intero progetto di revisione della seconda parte della Costituzione.

Innanzitutto, desidero ricordare a me stesso cosa si intende fare della Corte costituzionale e, successivamente, inserirò e valuterò il relativo progetto nell'ambito del quadro complessivo. Infine, mi concentrerò su alcune questioni particolari - decisive per la revisione dell'organo costituzionale in questione - riguardanti il numero dei componenti, il problema dei giudici di elezione parlamentare e il problema dell'equilibrio delle tre componenti della Corte. Inoltre, se vi sarà tempo affronterò qualche altra questione che attiene sempre alla giustizia costituzionale, in particolare il tema relativo all'eventuale introduzione del ricorso delle minoranze parlamentari alla Corte contro le leggi appena approvate dal Parlamento. Questo è un problema molto vecchio che ciclicamente ritorna all'attenzione del legislatore costituzionale.

L'articolo 40 del progetto di legge costituzionale non tocca le competenze della Corte e, probabilmente, si tratta di una scelta saggia perché è vivo ancora il ricordo delle molte critiche avanzate nell'ambito dell'ultima Commissione bicamerale competente in materia.

Non si interviene sui requisiti richiesti per l'elezione a giudice costituzionale. Probabilmente, anche questa è una scelta molto saggia perché l'eccellenza giuridica dei componenti è un presupposto irrinunciabile.

Non si interviene nemmeno sui quorum richiesti per l'elezione dei giudici, ma si trasforma la normativa vigente nel senso - naturalmente molto importante - che il solo Senato federale (quindi non più il Parlamento in seduta comune) elegge i giudici di competenza parlamentare. In ogni caso, tale elezione avviene sempre a scrutinio segreto con la maggioranza dei due terzi, mentre per gli scrutini successivi al terzo basta la maggioranza dei tre quinti.

Quindi, fondamentalmente si interviene sulla composizione della Corte costituzionale. Come va valutata questa scelta nel complesso del progetto? Innanzitutto, partirei da qualche considerazione relativa alla riforma del titolo V della Costituzione approvata nella scorsa legislatura.
Si tratta di una riforma che ha fortemente ampliato le competenze legislative delle regioni, anche se ha dato luogo ad incertezze molto gravi per ciò che concerne i rapporti tra competenza legislativa dello Stato e competenza legislativa delle regioni. Come conseguenza si è avuto un fortissimo aumento del contenzioso tra Stato e regioni di fronte alla Corte costituzionale.

Questa situazione, se volete, ha ridato corpo a due esigenze fra loro collegate e da tempo inserite nell'agenda delle riforme. Da una parte, la creazione di una vera Camera delle regioni e dall'altra la modifica della composizione della Corte con la previsione al suo interno di componenti non di nomina regionale ma dotati di una sensibilità regionalista-federalista. Queste due modifiche sono strettamente collegate tra di loro.

Secondo il mio parere il Senato federale - la cosiddetta Camera delle regioni - dovrebbe essere il luogo della mediazione politica preventiva fra le esigenze del centro e le esigenze dei territori regionali. Tale mediazione politica preventiva deve consentire alle stesse leggi statali - approvate da un Parlamento che contempli un tal Senato federale - di rappresentare il frutto di scelte condivise tra centro e periferia. Ciò aiuterebbe ad evitare in via preventiva il contenzioso costituzionale di fronte alla Corte, che ha fatto del nostro federalismo/regionalismo un singolare federalismo o regionalismo di carattere giurisdizionale.
La cosa è sotto gli occhi di tutti: non vi è scelta legislativa seria - dello Stato o delle regioni - che non finisca sotto il controllo, a seguito di ricorsi, della Corte costituzionale. Se volete, l'esempio del condono edilizio è il più eclatante, ma è solo uno degli esempi che si possono fare.
Il risultato è che noi, a mio avviso, assistiamo ad una contrazione della responsabilità e del ruolo delle assemblee parlamentari e ad una sovraesposizione politica di un organo giurisdizionale quale è la Corte costituzionale. Stiamo parlando di un ruolo che non è né richiesto, né gradito, come ha detto l'attuale presidente della Corte in una recente conferenza stampa.

Il progetto approvato dal Senato non mi pare che lavori realmente nella direzione di creare un Senato che sia davvero la Camera di mediazione preventiva tra le esigenze del centro e della periferia. Non mi sembra - anche se, probabilmente, se ne può discutere - che ne esca un Senato autenticamente federale e legato ai territori; qualche elemento è presente, ma molto debole.

Non mi sembra che il progetto introduca semplificazioni e razionalizzazioni necessarie nel riparto delle competenze legislative tra Stato e regioni. Anzi, penso che questo progetto complichi ancor di più il quadro della tipologia delle leggi statali perché crea categorie molto opinabili.

Come avrete sicuramente avuto modo di osservare, vi sono le leggi a prevalenza della Camera, le leggi a prevalenza del Senato, le leggi necessariamente bicamerali e le leggi eventualmente bicamerali. Naturalmente, tutto ciò sembra fatto apposta, non per attenuare il contenzioso di fronte alla Corte, ma per consentire di aumentarlo. Infatti, anche sulla qualificazione di queste leggi potranno nascere conflitti non più tra enti territoriali - Stato e regioni - ma addirittura conflitti costituzionali tra i due rami del Parlamento.

Il progetto non esclude tutto ciò poiché nel testo si afferma che, nel caso di contrasto, la scelta è rimessa ai presidenti che possono rivolgersi ad un comitato paritetico. Quella decisione non è sindacabile in sede legislativa, ma lo sarebbe in sede giurisdizionale. Quindi, anche da questo punto di vista, mi pare che il servizio compiuto per cercare di attenuare il contenzioso non sia positivo.

Tutto ciò, innalzerebbe ancor più la sovraesposizione politica della Corte, accentuando a mio avviso la deprecabile giurisdizionalizzazione del nostro federalismo.

Tornando al ragionamento sul modello ideale, naturalmente deve essere chiaro che il rimedio del ricorso alla Corte per la difesa delle proprie competenze è, pur sempre, una garanzia fondamentale ed irrinunciabile, sia dello Stato sia delle regioni perché fa parte di quello che si potrebbe chiamare lo statuto minimo di un ordinamento federale. Semmai, ciò che conta è che il contrasto tra Stato e regioni - da risolvere in via giudiziaria - deve tornare ad essere una mera possibilità e non, invece, una forte probabilità come accade attualmente.

Comunque, è chiaro che questo complessivo assetto verso il quale si andrebbe giustifica in ogni caso la modifica della composizione della Corte con l'ingresso di componenti che abbiano - come dicevo prima - una sensibilità di tipo regionalista. Naturalmente, si tratta poi di vedere come può essere organizzata questa presenza di componenti di sensibilità regionale.
Per quanto concerne le parti del progetto che riguardano la Corte costituzionale bisogna innanzitutto parlare del problema relativo al numero totale dei componenti il collegio. Relativamente a tale questione, indipendentemente da ogni considerazione circa gli organi che nominano o eleggono e la proporzione tra le diverse anime all'interno della Corte costituzionale, direi che la soluzione - ancora un poco instabile - verso la quale si è orientato il Senato tutto sommato è da approvare.

I giudici restano quindici anche se in precedenza e in molte circostanze si è parlato di diciannove componenti. A mio avviso, mantenere il numero di quindici componenti è importante allo scopo di tutelare due questioni di fondo. In primo luogo, mi riferisco all'autorevolezza dell'organo; un organo troppo numeroso perde di autorevolezza e di credibilità diventando pletorico, ed inoltre vi è anche il rischio che esso si trasformi in una sorta di parlamentino parapolitico, il che francamente sarebbe da evitare.

L'altro aspetto - più tecnico - riguarda la preservazione della collegialità reale delle decisioni della Corte costituzionale; credo si tratti di un questione sulla quale la stessa Corte costituzionale si dimostra molto attenta. La collegialità infatti è presente all'interno della Corte costituzionale: il relatore non è il solo che si occupa della redazione della decisione.

Voi sapete che spesso si discute sulla eventuale introduzione della dissenting opinion all'interno della Corte costituzionale. Secondo me si tratta di una misura di civiltà molto importante che esiste anche in altri ordinamenti. In ogni caso, all'interno dell'organo questa ipotesi - che avrebbe potuto essere introdotta con norma interna - non è stata accolta proprio perché si è sostenuto che con l'introduzione dell'opinione dissenziente verrebbe meno quello sforzo di partecipazione alla costruzione di una motivazione comune che fa parte dell'esperienza attuale dei giudici costituzionali.

Attualmente l'equilibrio che si basa sui quindici giudici costituzionali è instabile, quindi bisognerebbe lavorare per mantenerlo.

Per ciò che concerne i componenti di nomina parlamentare parto da un assunto. Il Senato federale nella forma prevista dal disegno di legge elegge troppi giudici e, secondo me, non ha senso escludere del tutto la Camera politica. Il problema è un po' complesso e va affrontato con calma; la questione è capire da dove provengono i membri della Corte costituzionale di sensibilità regionale.

Si tratta di una questione che, ovviamente, non può essere risolta se si pensa alla Corte costituzionale come ad una sorta di collegio arbitrale, nel cui seno le parti - Stato e regioni - inviano i propri rappresentanti.

I commissari sanno meglio di me che ogni giudice della Corte costituzionale svolge le sue funzioni in assoluta indipendenza e non rappresenta alcunché se non l'esigenza della Costituzione: è questo il modello ideale al quale - credo - siamo tutti attaccati. Naturalmente, ciò non significa negare che ciascun giudice svolge le sue funzioni con la particolare sensibilità che gli proviene dalla sua esperienza, dalla sua storia e dalla sua origine. Ovviamente, questa sensibilità è influenzata - non può non esserlo - oltre che dalla professione di origine, anche dalle modalità della nomina e dal soggetto che l'ha effettuata.

Quindi, se non è pensabile che i giudici costituzionali siano rappresentanti dello Stato o delle regioni - perché ciò vorrebbe dire svilire la Corte costituzionale a collegio arbitrale -, la presenza di un Senato autenticamente federale risolverebbe il problema perché consentirebbe una soluzione equilibrata e conforme ai modelli stranieri più conosciuti, consistente nella nomina di un certo numero di giudici da parte del Senato federale.
Il modello che il progetto accoglie è quello che vede sette dei quindici giudici nominati dal Senato federale, integrato dai presidenti delle giunte delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano.

In ogni caso, se si analizzano i lavori preparatori e l'ispirazione complessiva del progetto, con riguardo al Senato ci accorgiamo che la ragione di fondo di questa scelta non risulta legata completamente all'idea di fare di quei giudici espressione delle sensibilità regionali o territoriali, ma ad altri motivi che provo ad elencare. A fronte della rilevanza delle competenze che la riforma attribuisce in via esclusiva alla Camera, si afferma che sarebbe ragionevole attribuire al solo Senato federale il compito di provvedere alla nomina della quota di giudici costituzionali di elezione parlamentare. Si aggiunge - e questo è importante - che la nomina dei giudici da parte di un organo svincolato dal circuito fiduciario sarebbe in grado di fornire maggiori garanzie.Il Senato stesso, in quest'ispirazione, rappresenterebbe un organo di garanzia, anche perché svincolato dal circuito fiduciario.

Credo che questa argomentazione sia poco convincente perché, a mio avviso, è difficile ragionare in termini di garanzia avendo a riferimento un Senato eletto democraticamente, oltretutto sulla base di un sistema elettorale di tipo proporzionale in cui i partiti ricoprirebbero un ruolo fondamentale.

Se poi ci si riferisce alle competenze che il progetto complessivo distribuisce, non pare che il Senato federale risulti particolarmente debole. Nell'attuale versione si afferma che il Senato decide in ultima istanza su tutte le leggi affidate alla cosiddetta competenza concorrente; si tratta di quelle famose leggi a prevalenza Senato di cui in precedenza ho fatto l'elenco.

Insomma, proprio la natura politica e non federale o di garanzia di questo Senato non consente di considerare decisivo il suo essere svincolato dal rapporto fiduciario. Anzi, uno degli aspetti di maggiore irrazionalità del progetto è proprio quello di aver disegnato un Senato fondamentalmente politico svincolato dal circuito fiduciario. In questo modo, si viene a creare un contropotere che non è una garanzia, ma un ostacolo al buon funzionamento ed all'efficienza del sistema.

Da una parte questa giustificazione non mi convince, però dall'altra se considerassi il Senato federale davvero tale - una Camera legata ai territori -, anche da questo punto di vista la scelta secondo me sarebbe poco convincente. Ciò perché in molti Stati federali alcuni giudici sono eletti dal Parlamento con la partecipazione dell'assemblea che rappresenta le autonomie territoriali.

In ogni caso, il progetto prevede che tutti i giudici di quota parlamentare siano eletti dal Senato federale, con esclusione di qualsiasi intervento della Camera politica. Ciò, secondo me porta ad una soluzione squilibrata nell'altro senso. Infatti, se fosse vero che il Senato è Camera territoriale, la decisione di escludere ogni compartecipazione della Camera politica nella scelta dei giudici è eccessiva perché squilibra la Corte costituzionale sul versante delle sensibilità territoriali, forse determinando la presenza di un vizio speculare rispetto a quello che si è sempre lamentato in relazione alla Corte ordinaria che si diceva essere centralista; insomma, non si avrebbe più una Corte costituzionale centralista, ma iperegionalista.

Infine, ricordo che la Corte non si occupa solo dei contrasti tra Stato e regioni, ma vi sono tante altre competenze che restano ferme e per le quali la sensibilità centrale e regionale non conta nulla.

Se il Senato federale è davvero una Camera legata ai territori, il problema dello squilibrio derivante dall'ingiusta esclusione della Camera politica dall'elezione dei giudici è evidentissimo.

Tra l'altro, nella funzione di eleggere i sette giudici il Senato viene integrato dai presidenti delle regioni e delle province autonome. Questo dato accentua simbolicamente, anche se non numericamente, la natura territoriale dell'elezione in esame.

Se, invece, come sembra evincersi dagli stessi lavori preparatori, il Senato federale tale non è fino in fondo (anzi si potrebbe insinuare che l'integrazione, che ho appena ricordato, smaschera la realtà, perché, se fosse davvero un'assemblea territoriale, non ci sarebbe bisogno di integrarla in funzione regionale quando si procede all'elezione dei giudici), presentandosi piuttosto come un originale modello di camera politica per le regioni, tra l'altro eletta con un sistema diverso da quello previsto per la Camera dei deputati, ebbene, anche in tal caso - si direbbe a fortiori - l'esclusione di ogni compartecipazione di quest'ultima appare irragionevole, proprio perché non avrebbe senso escludere completamente la Camera autenticamente politica dalla scelta di quella quota di giudici che, allora, conformemente alla natura dell'organo che elegge, andrebbe a costituire l'anima «politica» della Corte.

Comunque si voglia costruire la natura del Senato, a mio avviso, la scelta contenuta nel progetto si presta a critiche.

Dubito che il rimedio possa essere tornare ad un'elezione da parte del Parlamento in seduta comune perché, nel progetto di revisione, il bicameralismo perfetto viene spezzato per lasciare spazio a due camere fortemente disomogenee e non avrebbe senso prevedere una loro riunione per eleggere i giudici della Corte.

Forse, il rimedio allo squilibrio potrebbe semplicemente consistere nel prevedere che, di quei sette giudici, almeno una quota - potrebbero essere tre - siano nominati, separatamente, dalla Camera politica.

Altra possibilità, nella logica del progetto, sarebbe quella di attribuire l'elezione di tutti e sette giudici all'assise che elegge il Presidente della Repubblica, ai sensi del nuovo articolo 83 della Costituzione, che viene chiamata Assemblea della Repubblica e che è composta dai componenti delle due Camere, dai presidenti delle regioni e delle province autonome e da un certo numero di delegati regionali; in questo caso, sarebbero da espungere gli ulteriori delegati regionali eletti dai consigli delle autonomie locali tra i sindaci, presidenti di provincia o città metropolitana che non sembrerebbero da coinvolgere nella scelta dei giudici costituzionali, non occupandosi la Corte direttamente di competenze degli enti locali e regionali.

Naturalmente questa è un'ipotesi da studiare con cautela, perché, da un lato consentirebbe di recuperare per intero i membri della Camera politica alla funzione di eleggere i giudici, dall'altro sembra concedere questa scelta ad un'assemblea ancora fortemente caratterizzata in senso territoriale.

Altro questione attiene all'equilibrio fra le diverse anime della Corte: l'anima politica dei giudici eletti dalle due Camere, l'anima giurisdizionale dei giudici eletti dalle supreme magistrature ed infine quella istituzionale, propria dei giudici nominati dal Capo dello Stato. Naturalmente, ogni tentativo di distinguerle schematicamente pecca di semplicismo, ma si deve rilevare con molta forza che l'anima politica della Corte assumerebbe una posizione numericamente preponderante, trattandosi di ben sette giudici su quindici, a differenza della composizione vigente (cinque giudici).

Ci si potrebbe chiedere, dopo aver criticato l'esclusione totale della Camera dalla partecipazione a questa elezione, se non sarebbe opportuno mantenere quella proporzione. Ciò comporterebbe diminuire a cinque il numero dei componenti complessivamente eletti dalle due Camere, separatamente, assegnandone - è solo un'ipotesi - tre al Senato federale e, magari, due alla Camera. Da ciò conseguirebbe che tornano ad essere cinque sia i giudici nominati dal Capo dello Stato sia quelli eletti dalle supreme magistrature.

È chiaro che, in questo modo, la fisionomia del progetto del Senato ne uscirebbe alquanto stravolta, però ci sono forti ragioni che sostengono questa scelta: innanzitutto non alterare un equilibrio delicatissimo, non modificare, in modo irrimediabile, la fisionomia dell'organo che ha dato buona prova in questi cinquant'anni di vita, mantenerne salda la natura realmente terza e di garanzia, evitare qualunque rischio di colonizzazione politico-partitica che, inevitabilmente, porterebbe al deperimento dell'organo di giustizia costituzionale e all'insignificanza della sua funzione.

In termini generali, con riferimento all'impianto complessivo del progetto che - voglio dirlo - valuto positivamente, il rafforzamento dell'efficienza e della forza dell'esecutivo, nel l'ambito della forma di Governo orientata verso il cosiddetto premierato, si accompagna al mantenimento e alla rivitalizzazione degli organi di garanzia, Corte costituzionale in primo luogo.
Ritengo utile approvare senza riserve la previsione contenuta nel nuovo testo dell'articolo 135 della Costituzione, ove stabilisce che, nei cinque anni successivi alla scadenza del mandato, il giudice costituzionale non può ricoprire incarichi di governo, cariche pubbliche elettive o di nomina governativa o svolgere funzioni in organi o enti pubblici individuati dalla legge.

Si tratta di una modifica importante, da molto tempo auspicata, che la stessa prassi degli ultimi anni sembra sollecitare. Essa appare attuazione di un'evidente esigenza di imparzialità nell'esercizio delle funzioni, perché bisogna evitare che il modo in cui sono state esercitate le funzioni di giudice durante il mandato possa essere «premiato» con l'attribuzione, alla fine del mandato, di cariche o incarichi di varia natura, che appaiano come una sorta di premio alla carriera. Tali nomine potrebbero gettare un'ombra retroattiva di sospetto sulla reale imparzialità e indipendenza del modo in cui il giudice costituzionale ha esercitato il proprio mandato. Forse, dovrebbe essere considerato quale espressione di un principio più generale da estendere anche ad altri giudici.

Concordo anche con la previsione, contenuta nel progetto, per la quale questa disposizione non si applicherebbe nei confronti dei giudici in carica alla data di entrata in vigore della riforma costituzionale, perché, altrimenti, la disposizione potrebbe suonare come un inopportuno giudizio negativo sul modo in cui attualmente i giudici costituzionali stanno svolgendo le proprie funzioni e, in secondo luogo, perché i diritti, i doveri e tutte le complessive conseguenze dell'assunzione dello status di giudice costituzionale devono essere noti al nominando, prima dell'accettazione della nomina.

In conclusione, vorrei accennare a qualche spunto sul ruolo della giustizia costituzionale per la creazione di uno statuto dell'opposizione. Da tempo si ragiona in dottrina sull'opportunità di attribuire all'opposizione il diritto di ricorrere alla Corte costituzionale per chiedere che questa si pronunci, prima della promulgazione, sulla legittimità di una legge appena approvata.

Questa è una vecchia questione sulla quale ci sono opinioni diverse: chi vede con favore questa innovazione sostiene che essa accrescerebbe diritti delle minoranze contro lo strapotere delle maggioranze parlamentari; chi l'avversa, teme, invece, che in tal modo la Corte, dovendo decidere sulla costituzionalità delle leggi appena approvate, verrebbe trascinata nella contingenza della polemica politico-partitica, fino ad assumere addirittura l'indebito ruolo di una terza Camera.

Un progetto presentato dall'ISLE (Scuola di scienza e tecnica della legislazione «M. D'Antonio») riattualizza questa proposta con varie precisazioni.

Accogliendo lo spirito di tale proposta, si deve tener presente che il progetto andrebbe a toccare e ad ampliare significativamente le competenze della Corte costituzionale, ciò che, finora, è stato escluso.

C'è poi un problema di coerenza complessiva del progetto stesso, perché, fin qui, abbiamo ragionato nell'ottica di prevedere una riduzione delle possibilità di contenzioso di fronte alla Corte costituzionale, mentre questo tipo di riforma chiaramente orienta verso un aumento delle possibilità di contenzioso di fronte alla Corte stessa, con l'ulteriore minaccia di sovraesposizione politica della stessa, sulla quale verrebbero facilmente scaricati conflitti politici interni al Parlamento.

Bisognerebbe, inoltre, avere cura di precisare chi siano i titolari del potere di ricorso e per quali vizi che esso potrebbe essere sollevato. Un riferimento tradizionale può essere il modello francese della saisine parlementaire, dove il potere è attribuito ad una certa quota di parlamentari, non qualificato come di opposizione o di maggioranza.

Il progetto dell'ISLE attribuisce la titolarità di questo ricorso al capo dell'opposizione o addirittura ad un capogruppo di minoranza. Ciò naturalmente presuppone che esista un forte e stratificato statuto dell'opposizione.

La scelta di investire del potere il capo dell'opposizione, come leader dell'insieme dei parlamentari non collegato al Primo ministro, dotato della più estesa consistenza numerica, potrebbe essere ragionevole nell'ambito della costruzione di un efficace statuto dell'opposizione. Inoltre, la scelta compiuta dal leader dell'opposizione sarebbe presumibilmente soggetta ad efficaci meccanismi di responsabilità e, quindi, usata con una certa cautela.

Meno comprensibile risulterebbe l'allargamento del potere di ricorso ad un altro capogruppo di una qualunque minoranza diversa dall'opposizione che potremmo definire istituzionale, proprio per i rischi che comporterebbe un suo uso incauto.

Ribadisco, comunque, le mie forti perplessità sull'introduzione di questo meccanismo per il rischio che determinerebbe, soprattutto nel clima italiano, un facile coinvolgimento della Corte in polemiche che potrebbero sminuirne il ruolo.

Quanto al profilo di vizi censurabili, il suddetto progetto fa riferimento alla violazione da parte di una legge approvata dal Parlamento dei diritti dell'opposizione o di una minoranza riconosciuti nella Costituzione. Qui, però, si dovrebbe avere cura di chiarire molto bene quali siano i diritti riconosciuti dalla Costituzione all'opposizione, perché, altrimenti, il rischio sarebbe quello di travolgere e sottrarre definitivamente alla sovranità parlamentare tutti gli interna corporis che, invece, la giurisprudenza costituzionale ha dimostrato in passato di voler salvaguardare.

 

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Zanon per la sua relazione e do la parola ai colleghi che intendono intervenire.

 

EGIDIO STERPA. Vorrei brevemente chiedere al professore se non ritiene che l'impianto costituzionale costruito nel progetto approvato dal Senato crei una sorta di diarchia parlamentare estremamente conflittuale.

MARCO BOATO. Innanzitutto, vorrei ringraziare il professor Zanon per le sue osservazioni puntuali, tutte peraltro assolutamente condivisibili, osservando che sul tema più delicato, l'alternativa al testo attuale, il professore è stato più cauto, sia pure indicando alcune ipotesi che vanno certamente prese in considerazione.

Vorrei sapere dal professore se abbia qualche indicazione da sottoporre alla Commissione circa una diversa soluzione rispetto all'attuale configurazione costituzionale ed istituzionale del Senato, posto che essa si giustificherebbe, almeno in parte, laddove quello delineato dal progetto approvato fosse effettivamente un Senato federale o una Camera delle regioni, che diventerebbe un luogo di mediazione politica preventiva. Siamo tutti d'accordo sul superamento del bicameralismo perfetto o paritario, ma la soluzione lì prevista sta suscitando insoddisfazioni trasversali e non soltanto da parte dell'opposizione.

Inoltre, vorrei precisare che sono favorevole alla dissenting opinion, cui il professore ha accennato, definendola una misura di civiltà che comunque potrebbe essere introdotta con norma interna. Come saprà, al riguardo il testo approvato dalla Commissione bicamerale, di cui ero relatore, è stato molto criticata. La Corte costituzionale, come tutti gli organismi sottoposti ad ipotesi di riforma, non avrebbe voluto cambiare una virgola. Le riforme possono essere giuste o sbagliate ma il problema è che ogni istituzione, a cominciare dal Parlamento, fa fatica ad accettarle. A quell'ipotesi di riforma, da parte di molti componenti della Corte, informalmente, ci venne risposto di non procedere con la riforma costituzionale, in quanto se ne prevedeva l'introduzione con una modifica al regolamento interno. Ovviamente, non hanno fatto nulla e non avevo alcun dubbio al riguardo.
Mi interessa sapere se il professore sarebbe favorevole all'introduzione della dissenting opinion, che ritengo possa diventare un forte strumento di equilibrio di fronte alle critiche, anche molto forti, mosse nei confronti della Corte, provenienti non solo dai radicali ma anche da esponenti dell'attuale maggioranza in Parlamento, e se non ritenga che essa sarebbe un istituto che porterebbe la Corte ad una maggiore attenzione ai rischi di sovraesposizione politica e di sottoposizione a critiche all'esterno.
Vorrei porre un'ultima questione, emersa anche alcuni giorni fa, quando una delegazione di questa Commissione (composta da alcuni di noi, a partire dal presidente) ha avuto un inedito incontro con il Consiglio costituzionale francese. Credo sia la prima volta che una Commissione parlamentare abbia potuto discutere con ben sette componenti su nove di questo organo di giustizia costituzionale. È un'esperienza di grandissimo interesse, anche per gli stessi giudici del Consiglio costituzionale francese che si sono potuti confrontare per la prima volta con un organo politico.

Fra le principali questioni emerse, è figurata l'enorme differenza tra il Consiglio costituzionale francese e la Corte costituzionale italiana, questione collegata anche al rischio della «terza camera», cui lei faceva riferimento quando parlava della possibilità di ammettere un ricorso diretto delle opposizioni. In Francia, a presentare ricorso, ai sensi normativi, non sono soltanto le opposizioni, ma anche il Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera, quello del Senato, il capo del Governo e, infine, 60 deputati o 60 senatori. In realtà, ci è stato spiegato che, di fatto, in questo ultimo caso, a presentare ricorso sono soltanto deputati o senatori dell'opposizione. Ad ogni modo, il rischio di esposizione politica, nell'imminenza di approvazione della legge, obiettivamente risulta rilevante. Riconosco, comunque, che il professor Zanon abbia fatto bene ad approfondire questo tema.

Un altro punto fondamentale è quello del contenzioso elettorale, ambito non riconducibile alle competenze della Corte costituzionale italiana. Si tratta di un tema particolarmente attuale, basti pensare alla vicenda occorsa in questa legislatura: come sappiamo, attualmente, questa è una Camera a plenum mancato, e per tutta la legislatura opererà con 12 deputati in meno. Probabilmente, se vi fosse stato un organo terzo, esterno il problema avrebbe potuto essere, in un senso o nell'altro, risolto.

Questo interrogativo lo pongo anche a lei che, sin dall'inizio, ha dichiarato di ritenere giusto non modificare le competenze, per poi aggiungere che la Commissione bicamerale aveva, in proposito, commesso degli errori radicali. Poiché sono stato io, insieme ai miei colleghi, l'autore di quelle ipotesi di competenze aggiuntive, sono anche molto attento alle critiche rivolte a certe soluzioni prospettate. Detto ciò, trovo che l'ipotesi di ricorso in queste materie così delicate possa essere una ipotesi da considerare. Rendo noto, inoltre, che in tale materia il Consiglio costituzionale francese opera, in fase istruttoria, per sezioni, ognuna delle quali è formata da un giudice di nomina del Presidente della Repubblica, un giudice di nomina del Presidente del Senato e uno del Presidente della Camera, estratti a sorte. Tale ripartizione è stata chiaramente assunta per soddisfare la necessità di diversificare le fonti di nomina. Lei, professore, sarebbe favorevole a questo meccanismo? In ogni caso, come valuterebbe l'ipotesi di articolare il lavoro della Corte costituzionale italiana per sezioni, ovviamente in relazione alla fase istruttoria, dal momento che la deliberazione dovrà comunque spettare all'organo collegiale?

 

LUIGI OLIVIERI. Sarò breve, signor presidente, benché immagini già la risposta del professore Zanon, contrario ad ogni momento di contenzioso della Corte costituzionale.
Venendo alla mia richiesta, apprezzerei molto conoscere il suo pensiero in merito all'introduzione in Italia del giudizio diffuso di costituzionalità: allo stato attuale, nel nostro sistema, esiste un filtro giudiziario preliminare al promovimento del giudizio di costituzionalità dinanzi alla Corte, costituito dalla verifica della non manifesta infondatezza e della rilevanza della questione. Lei ritiene che possa essere utile introdurre uno strumento di tutela così ampio, come avviene in altri ordinamenti, oppure andremmo a ricadere nel rischio già evidenziato? E se è utile, come io ritengo, quali sarebbero, secondo lei, le modifiche da apportare all'attuale struttura della Corte costituzionale?

 

GIANCLAUDIO BRESSA. Nel ringraziare il professore per la solidità e la correttezza argomentativa, che mi hanno fatto capire in maniera molto trasparente la sua opinione sulla riforma - non solo della Corte ma anche del Senato -, volevo porre una domanda un poco impertinente relativamente ad una norma transitoria, quella che affiderebbe al Senato, non a quello futuro del 2011, ma a quello attuale, ridenominato «federale», la nomina dei sette membri della Corte costituzionale: qual è il suo giudizio?

 

NICOLÒ ZANON, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Milano. Cercherò di procedere nell'ordine in cui sono state poste le domande, peraltro molto corpose, alle quali tenterò di rispondere in modo sintetico.
L'onorevole Sterpa si chiede e mi chiede se l'impianto della riforma non dia vita ad una diarchia parlamentare estremamente conflittuale. Sono perfettamente d'accordo, ritengo che questo sia uno dei difetti fondamentali del progetto. Se l'idea era quella di spezzare il bicameralismo perfetto, proposta su cui si ragiona da tantissimo tempo, allora, reputo che la situazione in concreto adottata sia la peggiore in assoluto. Accennavo già precedentemente al fatto che, se una riforma fosse approvata in questi termini, dovremmo scervellarci non solo sulle famose competenze legislative esclusive regionali, ma anche sulle procedure da scegliere a seconda del tipo di materia. Cioè, il problema delle materie, definite in astratto e scritte in Costituzione, diverrebbe ostacolo non solo per scegliere in capo a quale ente ma anche a quale organo parlamentare affidarne la competenza. Naturalmente, le definizioni contenute in una norma scritta possono essere significative, ma intanto sono soggette ad interpretazione. La realtà è sempre più complessa delle definizioni, per cui non è difficile immaginare che il corretto procedimento parlamentare darebbe luogo ad un contenzioso, soprattutto nei primi anni di applicazione di una riforma di questo tipo. In base al disegno di legge che si discute, in caso di contenzioso, a livello parlamentare, la questione verrebbe automaticamente rimessa ad un accordo dei Presidenti dei due rami del Parlamento, i quali sono competenti a decidere in materia di contenzioso per competenza tra le due Camere in ordine all'esercizio della funzione legislativa. I Presidenti, in ogni caso, possono devolvere la questione ad un comitato paritetico (una trasposizione nel nostro ordinamento della famosa commissione comune che esiste anche in Germania), la cui decisione è insindacabile in qualunque sede legislativa. Come dicevo prima, questo meccanismo apre la strada al conflitto di attribuzione tra poteri.

Un altro aspetto da analizzare, uscendo adesso dal problema del contenzioso e del procedimento parlamentare, è rappresentato da un'ulteriore diarchia inquietante che vedo crearsi in questo progetto: quella - poco efficiente - tra un Governo rafforzato, il premierato, che a mio avviso rappresenta la razionalizzazione di una tendenza manifestatasi nel nostro sistema politico da una parte, ed un Senato federale, fortissimo, dall'altra, che mantiene l'ultima parola su tutte le materie di competenza concorrente, fra le quali, tra l'altro non è difficile individuare numerose leggi fondamentali per la realizzazione dell'indirizzo politico della maggioranza.

In base alle ulteriori disposizioni del progetto di legge, tuttavia, si prevede espressamente la possibilità per il Governo di qualificare come essenziali per l'attuazione del suo programma eventuali modifiche proposte dalla Camera dei deputati, facendo scattare il meccanismo di convocazione di una commissione mista - previa intesa dei Presidenti delle due Assemblee - incaricata di proporre un testo sulle disposizioni che siano oggetto di contrasto tra le due Camere, con il risultato di far diventare automaticamente i relativi provvedimenti legislativi «bicamerali».
In merito a tale previsione, ritengo si possa discutere ampiamente in termini giuridici, poiché essa apre la strada a possibilità di contenzioso, diversità interpretative, e quindi scarsa funzionalità. Sono, quindi, d'accordo sul fatto che questa soluzione crei una diarchia estremamente conflittuale.

Vengo, poi, alle questioni sollevate dall'onorevole Boato. Lei ha chiesto, onorevole, come poter realizzare un Senato federale. Ovviamente, in materia il dibattito è stato molto intenso, soprattutto all'inizio quando dovevano essere compiute le scelte di riferimento. Vorrei però premettere che le costituzioni redatte dai professori sono le peggiori in assoluto, perché non tengono conto della realtà politica. L'esempio storicamente più interessante è quello della Costituzione di Weimar, una carta bellissima finita però come tutti sappiamo.

Perciò, ritengo che gli accademici debbano muovere un passo indietro. Il senatore D'Onofrio è stato sempre molto attento nel ricordare a tutti gli accademici questa necessità di arretrare rispetto alle esigenze della politica reale. Occorre grande cautela, da parte degli studiosi, nell'avanzare proposte di riforma che lasciano il tempo che trovano, sono il frutto di un pensiero individuale, molto spesso privo di agganci alla realtà politica.

Le costituzioni durevoli sono quelle in cui la classe politica riesce a dare forma duratura, in nome di interessi di lungo respiro, ad esigenze emerse realmente dal contesto sociale. È del tutto evidente che questo progetto scontava e sconta ancora una difficoltà fondamentale. Non si tratta solo di modificare le competenze legislative e di intervenire su questioni secondarie; il Senato doveva innanzitutto modificare se stesso, e quindi doveva e deve rendere appetibile questa riforma, in primo luogo ai suoi componenti; chiaramente, lo stesso problema si ripresenterà anche alla Camera quando il plenum esaminerà il testo del provvedimento. Non vorrei riesumare la categoria del conflitto di interessi, ma è evidente che le istituzioni entrino in un conflitto di interessi quando ragionano su se stesse. Non avendo, però, altra scelta possibile, le alternative si ridurranno solo a due: o attribuiamo la scelta della Costituzione ad un collegio di saggi che vive sulla montagna, oppure accettiamo che le istituzioni riformino di se stesse.

Detto ciò, naturalmente, i modelli del diritto comparato hanno comunque una certa importanza; tra quelli, il Senato federale trova sicuramente una adeguata espressione nel Bundesrat tedesco, in cui tutti i componenti del Senato sono nominati dagli esecutivi dei Länder, cioè dei singoli enti territoriali. È chiaro che una soluzione di questo tipo determinerebbe lo stravolgimento di una tradizione storica, prestigiosa e autorevole, creando problemi nella costruzione di una classe dirigente politica alternativa a quella esistente: è pertanto chiaro che si tratta di un progetto di difficile attuazione.
Alla luce di ciò, l'alternativa sembra essere quella di salvaguardare l'elezione diretta per il Senato, che è un altro punto fondamentale del nostro sistema - è chiaro, infatti, che i senatori non rinuncerebbero facilmente alla legittimazione politica derivante da questa forma di elezione -, conciliandola con il collegamento territoriale. Tuttavia, il sistema della contestualità affievolita che è stato individuato, a mio parere, è un poco debole. Bisognerebbe rafforzare ulteriormente la connotazione territoriale del Senato, ad esempio, inserendovi, come membri di diritto, i presidenti delle regioni. Reputo del tutto praticabile questa proposta; del resto, alcune tracce della stessa si rinvengono nel progetto di legge in discussione, come nel caso dell'elezione dei sette giudici della Corte costituzionale. Si tratterebbe di un'integrazione numericamente debole (sono pochi i presidenti di regione), ma politicamente molto forte, intanto perché garantirebbe quel prestigio che deriverebbe dall'elezione quasi sempre diretta (più o meno tutti gli statuti prevedono questa scelta), e poi perché intorno ai presidenti di regione si potrebbero costruire delle logiche di schieramento non soltanto politico e partitico ma veramente territoriali. La presenza di questi soggetti potrebbe rappresentare un'innovazione quantitativamente piccola ma qualitativamente molto significativa. Si tratta ovviamente di un'ipotesi, è come tale deve essere considerata.

Quanto poi alla dissenting opinion, si tratta un tema di grande interesse, a cui non sono contrario, in realtà. Nel mio intervento osservavo semplicemente come dalla Corte fosse stata respinta la dissenting opinion in nome della collegialità, ma quando mi riferivo a questo, lo dicevo soltanto per far capire come la collegialità sia un bene a cui la Consulta è molto legata, e che va preservato. Personalmente, di questo istituto ho un'opinione estremamente favorevole; ritengo che introdurlo sarebbe una reale misura di civiltà, a livello generale: consentirebbe, infatti, di disvelare i meccanismi interni attraverso i quali le decisioni sono assunte e di capire, inoltre, che certe decisioni sono frutto di contrasti molto forti all'interno della Corte costituzionale.

Questo molto raramente si comprende all'esterno, se non in casi estremi, quando accade che il relatore, originariamente designato, non firmi la motivazione, non condividendola: in quel caso, il relatore originario viene sostituito. Questo è l'unico caso in cui il dissenso emerge anche all'esterno. In realtà, mi chiedo perché vergognarsi del dissenso; in una democrazia matura le opinioni dissenzienti - anche di ordine costituzionale - minoritarie (per non aver avuto peso giuridico, ma diffuse nell'ambiente sociale della comunità delle persone interessate), rappresentano un elemento di grande civiltà.

Per poter arrivare a questo risultato, l'ideale sarebbe quello di intervenire con una norma di carattere costituzionale, piuttosto che con una interna. Peraltro, in questo caso, non ritengo che un intervento normativo sarebbe percepito come un controllo, un atto di imperio nei confronti di un organo costituzionale. Questa è semplicemente la mia opinione, ovviamente.
Quanto al contenzioso elettorale, ritengo si tratti di una delle poche questioni che andrebbero inserite come nuova competenza della Corte. L'esempio che lei ricordava della mancata integrazione del plenum è, del resto, molto significativo.

L'affidamento di questa competenza ad un organo quale la Corte, all'interno di uno stato di diritto in cui la terzietà delle decisioni dell'organo decidente è molto importante, sarebbe auspicabile. Ovviamente, sull'affidamento del contenzioso elettorale e le relative modalità, occorrerebbe svolgere una approfondita riflessione, sebbene la proposta mi trovi fondamentalmente favorevole.

Da ultimo, interverrò a proposito dell'articolazione in sezioni della Corte costituzionale, che innanzitutto sembrerebbe rispondere ad uno scopo pratico, ovvero consentire a ciascuna di esse di non essere un organo eccessivamente pletorico.

L'unico rilievo che mi sento di fare, riguarda, però, l'estraneità di questa soluzione alla tradizione della Corte costituzionale, e sottolineo, pertanto, che la sua introduzione potrebbe creare alcuni problemi. Tuttavia, non è neppure sbagliato riconoscere che, ad esempio, il contenzioso tra Stato e regioni sia ormai un ambito che richiede specializzazione. Del resto, già esistono specializzazioni interne alla Corte (per cui ciascun giudice si occupa prevalentemente di un determinato settore), la cui presenza potrebbe agevolare l'introduzione di soluzioni tese ad un'integrazione dei componenti e alla successiva articolazione per sezioni della Corte stessa. Ribadisco, però, ancora una volta, che si tratterebbe di intervenire introducendo un'innovazione estranea al tradizionale modo di organizzazione della Corte costituzionale.

L'onorevole Olivieri ha posto una domanda molto interessante sul giudizio diffuso di legittimità costituzionale, chiedendosi se non si potrebbe lavorare sul provvedimento approvato dal Senato per inserirvi disposizioni a riguardo. Questo, ovviamente, è un tema di portata enorme e dunque sollecita uno studioso di giustizia costituzionale a svolgere alcune considerazioni.

In proposito, vorrei pertanto sottolineare che qualcosa di simile, a parte il giudizio di non manifesta infondatezza, esiste già. La stessa Corte, nella sua giurisprudenza più recente, è stata molto attenta a invitare i giudici a sollevare la questione di legittimità costituzionale solo allorché il giudice a quo abbia dimostrato per tabulas di non essere in grado autonomamente di procedere ad un'interpretazione delle norme secondo Costituzione. L'interpretazione secundum Costituzione, infatti, rappresenta la prima regola ermeneutica che il giudice deve seguire nella risoluzione del caso. Solo laddove il testo della disposizione scritta non gli consentisse, proprio in quanto formulata in un certo modo, tale operazione interpretativa, solo allora il giudice potrebbe sollevare la questione; diversamente, se l'autorità giudiziaria intervenisse autonomamente senza averne gli strumenti, si verificherebbe un'ipotesi di manipolazione del testo costituzionale inammissibile.
Questo, in nuce, introduce qualcosa di simile al controllo di costituzionalità diffuso. Aggiungo che già nel dibattito in seno alla Costituente si dubitava della opportunità di affidare la Costituzione ad una classe giudiziaria nella quale non si aveva ancora estrema fiducia. L'iniziativa è diffusa, ma il giudizio finale è centralizzato: credo che sia difficile prescindere da questo elemento che pesa molto nella nostra tradizione.

Infine, l'onorevole Bressa esprime un concetto su cui sono assolutamente d'accordo, del quale ho peraltro scritto nella mia relazione e che non ho citato solo per ragioni di tempo: al punto 5 della menzionata relazione («La prima applicazione della modifica della composizione: un passaggio delicato), si osserva come le disposizioni transitorie del progetto abbiano cura di precisare che, in sede di prima applicazione della riforma, il Senato federale nomini i giudici di propria competenza alla scadenza di giudici già eletti dal Parlamento in seduta comune, e alle prime scadenze, di un giudice già eletto dalla suprema magistratura ordinaria e di un giudice già nominato dal Presidente della Repubblica. Il punto delicato, però, come risulta dall'articolo 42, comma 1, è che la modifica della composizione della Corte si applicherebbe a decorrere dall'inizio della prossima legislatura. Però, il prossimo Senato resterebbe tal quale. Sarebbe semplicemente chiamato Senato federale senza esserlo. Insomma, si tratta ovviamente di un aspetto molto delicato che forse andrebbe corretto.

 

MARCO BOATO. Signor presidente, mi consenta di ringraziare il professor Zanon per la sua diplomazia nel rispondere alle domande che sono gli state poste nel corso di questa seduta.


 

Stefano Ceccanti, professore straordinario di diritto pubblico comparato presso la facoltà di scienze politiche dell'Università «La Sapienza» di Roma.

 

STEFANO CECCANTI, Professore straordinario di diritto pubblico comparato presso la facoltà di scienze politiche dell'Università «La Sapienza» di Roma. Signor presidente, inizierei il mio intervento prendendo in esame la parte più deficitaria del progetto, concernente lo statuto dell'opposizione e le garanzie costituzionali.

Tra l'altro, segnalo che lo statuto della regione Toscana - approvato in prima lettura venerdì 6 maggio - in realtà è l'unico che contiene elementi significativi sullo statuto dell'opposizione e sulle garanzie costituzionali. Anzitutto, esso prevede la figura del leader dell'opposizione, il capo della coalizione arrivata seconda alle elezioni - non comprensiva di tutte le minoranze esistenti - che può essere cambiato in corso di legislatura.

Accanto a questo dato molto rilevante sono compresi nello statuto della regione Toscana altre due significativi elementi. Anzitutto, le commissioni di inchiesta - il tradizionale strumento che dovrebbe servire all'opposizione per controllare la maggioranza ed il Governo - sono istituite su richiesta di un quinto dei membri del consiglio regionale della Toscana. Una norma analoga è prevista anche nella bozza di statuto della regione Umbria approvata però solo in commissione.

Un ulteriore elemento significativo che contraddistingue lo statuto della regione Toscana è rappresentato dalla modifica del quorum di partecipazione ai referendum.

Io penso che quest'ultimo, sotto vari profili, sia il fattore che garantisce di più le minoranze poiché le raccorda con spinte presenti nel paese e magari anche con parti di elettorato della maggioranza al Governo che non vedono tutelati i loro interessi specifici. Infatti, in fin dei conti viviamo in una società complessa dove i cittadini, pur riconoscendosi in uno schieramento, magari non ne condividono l'intero programma.

Molto opportunamente e in maniera analoga a quanto previsto dal lavoro bipartisan svolto presso l'ISLE da persone che hanno collaborato con tutti i gruppi parlamentari della maggioranza e dell'opposizione, lo statuto della regione Toscana prevede un quorum ragionevole e lo fissa alla metà più uno dei votanti alle precedenti elezioni regionali. Quindi, evidentemente, si identifica una soglia di partecipazione normale, ordinaria - che non può oggi presumersi nell'interezza del corpo elettorale - che si desume sulla base di un dato effettivo e riscontrato: la partecipazione alle precedenti elezioni regionali.

Evidentemente, la trasposizione di questo meccanismo permette che per le elezioni politiche nazionali si riporti la metà più uno ai votanti, il metro di misurazione effettivo della normale partecipazione. Altrimenti, il quorum di partecipazione odierno - configurato alla metà più uno degli aventi diritto e pensato in un periodo in cui la partecipazione elettorale superava il 90 per cento dei voti -, quando attualmente vi è la tentazione di utilizzare l'astensionismo come una sorta di no rafforzato, blocca la possibilità di adoperare il referendum come contropotere.

Gli ultimi referendum che nel nostro paese hanno raggiunto il quorum sono stati quelli del 1995. Essi contemplavano una serie di temi - tra i quali la questione relativa alle televisioni - e non registrarono nessuna campagna astensionista: nonostante ciò, si raggiunse solo il 58 per cento dei voti.

Se ci troviamo in una situazione in cui - avendo a riferimento i normali rapporti di forze - ad una maggioranza parlamentare - qualunque essa sia - basta convincere meno della metà del proprio protettorato ad astenersi, risulta evidente che mantenere il quorum di partecipazione attuale significa sostanzialmente eliminare il referendum abrogativo dalla Costituzione; vi inviterei quindi a riflettere sulla soluzione già adottata dal consiglio regionale della Toscana.

In ogni caso, possiamo ragionare diversamente partendo, non tanto dall'elemento rappresentato dal quorum dei partecipanti al voto, ma dalla presa d'atto di quanto sia rappresentativo il sì. In altri termini, cosa si chiedeva in sostanza attraverso il nostro articolo 75 pensato quando partecipavano al voto pressoché tutti gli elettori? Si chiedeva che i sì fossero più di un quarto del corpo elettorale. Quindi, in realtà il dato effettivo era rappresentato dal fatto che il sì non fosse tipico solo di una minoranza, ma espressione di almeno un quarto del corpo elettorale.

In conseguenza di ciò, si potrebbe pensare in alternativa ad un unico quorum prevedendo che i sì debbano comunque, oltre che prevalere sui no, essere superiori ad un quarto degli aventi diritto.

Questo ragionamento mi consente di parlare anche della norma relativa alla modifica dell'articolo 138 della Costituzione, una delle disposizioni più delicate del testo.

Il vigente articolo 138 della Costituzione, al di là del dato tecnico, intendeva esprimere una scelta preferenziale per riforme condivise: per questo motivo i due terzi esentavano dal referendum oppositivo. Inoltre, tale articolo consentiva in subordine - se proprio non si raggiungevano i due terzi - la possibilità di votare la maggioranza assoluta, anche se in questo caso pendeva il referendum abrogativo.

È evidente che, così come è scritta, quella norma presenta dei problemi; infatti, noi sappiamo che al giorno d'oggi anche una riforma votata dai due terzi dei parlamentari potrebbe non essere condivisa dai cittadini. Il rapporto tra i cittadini e i partiti non è più quello che vi era nell'immediato secondo dopoguerra.

La legge statutaria del Friuli-Venezia Giulia venne votata in consiglio regionale registrando un numero di voti superiore ai due terzi del totale, mentre venne bocciata dal referendum popolare (l'unico caso in cui vi è stato un referendum sulla regioni speciali) promosso grazie alla legge costituzionale n. 2 del 2001 attraverso la quale - opportunamente - si previde la facoltà di ricorrere al referendum anche nel caso in cui si superassero i due terzi dei voti in consiglio regionale.

Non vi può essere una presunzione di rappresentatività che esenta dal referendum, tuttavia dobbiamo trovare un sistema che ci consenta di esprimere la preferenza attraverso un dato tecnico: bisogna cioè privilegiare riforme largamente condivise.

Il testo presentato al Senato, si limitava ad eliminare opportunamente l'esenzione dal referendum nel caso in cui fossero state espressi più di due terzi dei voti, quindi possiamo dire che giustamente raccoglieva questa preoccupazione antipartitocratica; in ogni caso, non spingeva verso l'attuazione di riforme condivise. Infatti, tutte le riforme votate da una qualsiasi maggioranza - purché superiore alla maggioranza assoluta - si equivalgono poiché, comunque, portano al referendum.

Il testo uscito dal Senato, in qualche modo cerca di recuperare questo principio, ma lo fa in modo non positivo poiché fa spuntare il quorum di partecipazione - la cui sensatezza, perlomeno nelle forme attuali, è discutibile per quanto riguarda il referendum abrogativo - anche sul referendum oppositivo, ma solo quando la riforma viene approvata non con i due terzi.
Quindi, sulle riforme approvate a maggioranza assoluta incombe il quorum di partecipazione, non previsto per le riforme votate a due terzi. In questo modo, potrebbe entrare in vigore una riforma della Costituzione votata da 5 milioni di elettori, mentre non passerebbe una riforma della Costituzione votata da 20 milioni di elettori.

In conclusione, vi è da dire che la soluzione tecnica individuata non funziona perché irrigidisce sui voti alla fine del processo. Invece, se proprio dobbiamo pensare ad un irrigidimento si potrebbe far riferimento a quello che avete adottato per le regioni speciali a proposito delle leggi statutarie.

La soluzione prevista per le leggi statutarie regionali e per quelle provinciali di Trento e di Bolzano non irrigidisce in arrivo, ma in partenza. Quindi, se la legge statutaria non è votata dal consiglio regionale o dal consiglio provinciale di Trento e Bolzano a maggioranza di due terzi, aumenta il numero di coloro che debbono richiedere il referendum. La conseguenza è che, a quel punto, il referendum deve essere richiesto da un trentesimo o da un quindicesimo del corpo elettorale, a seconda delle varianti previste da regione a regione.

Quindi, essendo più difficile chiedere il referendum quando la riforma procede con un largo consenso, mi sembra che questo sarebbe il genere più sensato di irrigidimento. Ad esempio, si potrebbe prevedere che quando la riforma è votata a due terzi debbano chiedere il referendum dieci consigli regionali, anziché cinque, e un milione di elettori anziché 500 mila.
Questo irrigidimento non creerebbe problemi, a differenza del numero dei sì in coda che potrebbe presentare le complicazioni precedentemente segnalate.

Per quanto riguarda la parte relativa al premierato, mi sembra che i problemi consistano in un eccesso di irrigidimenti presenti in particolar modo nella cosiddetta norma antiribaltone, nell'automatismo sfiducia-scioglimento.

È evidente che, rispetto ad un sistema dei partiti alquanto sfrangiato qual è tuttora il nostro, non possiamo avere un grado di flessibilità parlamentare simile a quello odierno, poiché il Parlamento neoeletto avrebbe dei margini di modifica - rispetto alle scelte compiute dagli elettori - troppo ampi e incoerenti con il sistema elettorale adottato. Tuttavia, non possiamo introdurre norme troppo rigide che prevedano - sempre e comunque - lo scioglimento automatico dell'assemblea in caso di sfiducia al Governo in carica, o che, in qualche modo, sottendano una costituzionalizzazione di un certo sistema elettorale.

Se si afferma che è possibile cambiare il premier in corso di legislatura purché una maggioranza assoluta di parlamentari firmi una mozione al riguardo, ciò significa supporre che una maggioranza assoluta vi sia sempre e comunque; questo, naturalmente, comporterebbe l'ipotesi della costituzionalizzazione di un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza, l'unico che garantisce a priori una maggioranza assoluta.
È opportuno costituzionalizzare un sistema elettorale preciso? Le Costituzioni - anche quelle più recenti - costituzionalizzano parti della formula elettorale, ma costituzionalizzare un dato sistema elettorale mi sembra francamente, una soluzione un po' rigida. Peraltro, tale soluzione è un po' in contraddizione con la norma che parla genericamente ed opportunamente di sistema elettorale che incentiva, che favorisce le maggioranze, non che le garantisce. Quindi, vi è uno stridore, una contraddizione tra la norma antiribaltone che richiede una maggioranza assoluta e la norma che parla di favorire l'espressione di una maggioranza.
Più in generale, possiamo osservare che le altre esperienze comparatistiche non considerano negativa a priori la costituzione di governi - i cosiddetti governi di minoranza - a maggioranza relativa. Il Governo spagnolo, ad esempio, può contare su un'ampia fascia di voti a favore o di astensioni ma, in quanto tale, è monocolore.

Per carità, in astratto tutti noi - se le condizioni politiche lo permettessero - preferiremmo che coloro che si presentano assieme alle urne possano governare essendo pienamente coinvolti; in ogni caso, le concrete situazioni politiche, a volte, non sono ben ingabbiate da questa nostra disciplina. Per questo sarebbe bene anche stare attenti ai quorum dell'eventuale voto di fiducia iniziale, o dei voti di sfiducia, o della questione di sfiducia. Infatti negli altri paesi, normalmente, si adottano quorum che tendono a favorire l'esistenza di governi di minoranza. Quindi, sia per la mozione di sfiducia sia per la questione di fiducia sia per la fiducia iniziale, si intende che il Governo ha vinto quando i voti contrari non sono di maggioranza assoluta. Questo, infatti, consente che vi siano delle forze cuscinetto a volte in accordo e a volte in disaccordo con il Governo.

Per questo, penso che dovremmo cercare di avere certi margini di flessibilità del sistema, che permetterebbero di sdrammatizzare la questione relativa al potere di scioglimento, in quanto, garantendo la possibilità di funzionamento anche a governi minoritari, diverrebbe più raro un ricorso eccessivo a tale potere. In fin dei conti, credo che tutti quanti, dall'analisi delle esperienze parlamentari della scorsa legislatura, abbiamo riflettuto sul fatto che, se vi fosse stato il quorum negativo sulla questione di fiducia, non si sarebbe verificata la crisi del governo Prodi.

Oltre al deterrente dello scioglimento, giustamente invocato contro il rischio di crisi, anche la protezione di governi minoritari consente una certa di navigazione politico-parlamentare, che non smentisce il verdetto elettorale, riuscendo, peraltro, a far proseguire la legislatura.
Bisognerebbe concentrarsi sulle norme che danno un certo grado di flessibilità al sistema, certo inferiore a quello odierno, ma non così rigido come quello previsto nel testo in discussione.
Non a caso, nel corso dei lavori della Bicamerale, la discussione svolta sul testo presentato dal relatore Cesare Salvi giocò sui due modelli di «premierato» di equilibrio e di contrappeso al potere di scioglimento, sui quali si è poi fondato il dibattito successivo. Il relatore Salvi presentò in partenza le norme della Costituzione spagnola, che prevedono il potere di scioglimento discrezionale del premier, il quale si può arrestare quando si presenta una mozione di sfiducia. Le proposte alternative discusse allora propendevano di più per una soluzione di tipo svedese, prevedendo che ci possa essere un potere di scioglimento anche in seguito all'approvazione di una mozione di sfiducia contro il Governo, che è quello che ha vinto le elezioni.

A mio avviso, la formula più flessibile tra le due è quella svedese, che concepisce in misura più efficace lo scioglimento come deterrente. Con una formula analoga a quella presente nella Costituzione spagnola, invece, visto che la presentazione della mozione di sfiducia, con possibilità di riuscita, comporta trattative politico-parlamentari che richiedono un certo periodo di tempo, diventa molto più concreto il rischio che il premier voglia sciogliere in anticipo rispetto ad eventuali «ribaltoni» parlamentari.

Per completezza di esposizione, occorre rilevare l'anomalia di fondo del testo approvato dal Senato, che inficia, alla radice, l'intero progetto. Giorni fa, svolgendo una relazione a Parigi, il professor Fulco Lanchester, preside della mia facoltà, lo ha definito quale progetto «strabico», proponendosi da una parte di risolvere i problemi di efficienza e di governabilità con varie soluzioni, dall'altra prevedendo un Senato che non si può sciogliere anticipatamente ma che, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, si trova a votare leggi fortemente incidenti sull'indirizzo politico, a cominciare dalla finanziaria e da tutte le leggi sui principi fondamentali delle materie concorrenti, che distruggono alla radice la possibilità di governabilità nel nostro paese.

Quindi, delle due l'una: o seguiamo un'ipotesi che rafforzi la governabilità - allora, però, dobbiamo mettere in discussione quel Senato, che ha il privilegio di non essere soggetto al rapporto di fiducia e allo scioglimento, divenendo così una Camera in balìa di sé stessa, con un potere di veto pressoché assoluto - oppure si ritorna all'idea, che ormai è un'anomalia italiana, delle due Camere entrambe con potere fiduciario e quindi scioglibili.
La soluzione attuale invece disloca una ingovernabilità totale, in seguito alla figura prevista di un Senato come Camera assembleare che non paga nessun prezzo per eventuali instabilità che provoca il sistema.

 

PRESIDENTE. Ringraziando il professor Ceccanti per la relazione testé svolta, do ora la parola ai colleghi che intendono intervenire.

 

MARCO BOATO. Ringraziando anzitutto il professore per il copioso materiale che ci ha fornito, vorrei porre alcune domande. Rispetto a quelli che ha definito eccessi di irrigidimento, mi interessa conoscere quali siano le proposte alternative che suggerisce.
In merito alla modifica dell'articolo 138 della Costituzione, ritengo che non si debba modificare nulla, salvo eliminare l'ultimo comma, in modo che si possa promuovere il referendum anche nel caso in cui la legge sia approvata con la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna della Camere.

Vorrei però richiamare l'attenzione sull'ipotesi che una legge, votata con ampia partecipazione in Parlamento, venga bocciata da una minoranza nel paese, che inviti all'astensione dal voto referendario. Ciò inibirà le Camere dall'approvare riforme costituzionali che, in tal modo, potrebbero non entrare mai in vigore. Si pensi all'esempio del Friuli da lei citato. Non essendovi il quorum di partecipazione sul referendum proposto su una riforma costituzionale approvata con una amplissima convergenza parlamentare, basta che prevalga un «no» su un «sì» perché venga bocciata. Potrà quindi accadere che sia facilmente bocciata una riforma costituzionale approvata con la maggioranza dei due terzi o che, comunque, non entri mai vigore quella riforma costituzionale, per la quale, non essendo stata approvata con la maggioranza dei due terzi, diventa obbligatorio il quorum di partecipazione che, realisticamente, non si raggiungerà mai. Vorrei quindi sapere se il professor Ceccanti abbia valutato anche questa ipotesi.

 

GIANCLAUDIO BRESSA. Nell'ambito dell'eccesso di irrigidimento dovuto agli automatismi che lei lamentava con riferimento al «premierato», vorrei conoscere la sua opinione relativamente al secondo comma dell'articolo 94, che disciplina il potere di scioglimento sulle proposte ritenute prioritarie e decisive per l'azione di Governo; in particolare, non ritiene che questa formula possa, in qualche modo, risolversi in un sorta di ricatto del Governo verso il Parlamento e, quindi, in un vero e proprio esproprio del potere legislativo in capo alla Camera?

 

ANTONIO SODA. Condividendo la relazione del professor Ceccanti, mi limiterei a fare una riflessione aggiuntiva sulla duplice veste che viene ad assumere il Senato, così come viene indicato nella proposta approvata dall'altro ramo del Parlamento. Si tratta di una Camera che assume connotati di forte valenza politica e che è irresponsabile della produzione dell'instabilità del sistema. Lo invito a riflettere anche sul fatto che il Senato è una camera, secondo una tesi che da tempo ha affascinato molti giuristi, che vuole essere di garanzia, tanto che ad esso sono attribuite le funzioni di nomina degli istituti di garanzia, a cominciare dai giudici della Corte costituzionale.

Le camere di garanzia sono quelle con le quali si vogliono sottrarre le funzioni di garanzia del sistema, tra cui la garanzia costituzionale, alla dialettica politica. Orbene, come è conciliabile avere una Camera con forti poteri politici, ove il Governo contratta l'attuazione del suo programma, che, nello stesso tempo, è incaricata del ruolo di costituzione di tutti gli organi di garanzia del sistema politico costituzionale?

Non sembra, professor Ceccanti, che questa sia un'ulteriore anomalia, che porta a dire che la figura del Senato, così come delineato nel testo approvato, sia un vero e proprio mostro costituzionale-politico?

 

LUIGI OLIVIERI. Ringraziando il professor Ceccanti per la relazione che, peraltro, condivido, vorrei chiedere il suo parere in merito all'articolo 33 del disegno di legge costituzionale approvato dal Senato, che modifica l'articolo 116, primo comma, della Costituzione, aggiungendo la previsione dell'intesa con la regione interessata per l'approvazione degli statuti delle regioni speciali con legge costituzionale. Ritengo che l'aggiunta proposta non sia assolutamente sufficiente perché non prevede una compartecipazione ed una concertazione effettiva tra queste specialità, che, per alcuni aspetti, sono sostenute da statuti approvati o nell'imminenza dell'approvazione della Costituzione o ancora prima della stessa. Non crede che la previsione di un accordo, che deve intervenire entro sei mesi dall'avvio del procedimento, non abbia alcuna rilevanza effettiva?

 

PRESIDENTE. Do la parola al professor Ceccanti per la replica.

 

STEFANO CECCANTI, Professore straordinario di diritto pubblico comparato della facoltà di Scienze Politiche presso l'Università «La Sapienza» di Roma. Con riferimento alla domanda posta dall'onorevole Boato sull'articolo 138, vorrei precisare che vi è una ulteriore soluzione sulla questione contenuta nel rapporto dell'ISLE. In esso si prevede che ci possa essere un ricorso preventivo da parte di minoranze parlamentari alla Corte costituzionale per giudicare, prima che una legge di revisione venga messa in votazione, se la stessa intacchi i principi fondamentali dell'ordinamento. Vi sarebbe in tal modo un giudizio di costituzionalità della Corte che interverrebbe prima del voto popolare.
Attualmente, come tutti sappiamo, la Corte ha elaborato la teoria dei principi supremi, cui neanche la revisione costituzionale può derogare. Sarebbe quindi un problema serio se l'organo di garanzia costituzionale intervenisse dopo l'approvazione del Parlamento e dopo il voto popolare per giudicare se una riforma costituzionale abbia violato quei principi supremi.
Non vedo però il rischio paventato dall'onorevole Boato, in quanto, se in Parlamento c'è una maggioranza della consistenza dei due terzi che vota una riforma, è poi possibile che quella stessa maggioranza non sia in grado di convincere la maggioranza di cittadini a votare partecipando al referendum? Posso immaginare che vi siano minoranze fortemente eccitate e mobilitate contro un accordo bipartisan, ma penso che, se tale accordo poggia su soluzioni sensate ed è sentito dalla popolazione, non dovrebbero esserci problemi a farlo passare anche attraverso la via referendaria.

Circa le domande poste dall'onorevole Bressa, ho redatto un'ipotesi di correzione all'articolo 28, la quale fonde in un unico istituto la questione di fiducia ed il voto bloccato che sono, anche negli ordinamenti che li prevedono, rigorosamente separati. Non vedo la necessità di introdurre il voto bloccato nel nostro ordinamento, però il Governo può anche decidere di farvi ricorso; mi sembra però un eccesso di zelo che a ciò debba conseguire sempre la questione di fiducia e lo scioglimento. Mi limiterei, quindi, a prevedere che la questione di fiducia si consideri approvata se non ha contro la maggioranza assoluta, così come avviene per la sfiducia.

Riterrei poi opportuno eliminare la norma «antiribaltone», in quanto reputo sia improbabile il verificarsi della contorta ipotesi di scuola, sottesa alla norma, di un premier kamikaze, il quale vuole andare alle urne per punire la propria maggioranza, da cui non sarebbe ricandidato. I premier sono tali perché hanno una maggioranza parlamentare, rappresentante dell'elettorato, che li sostiene e che li ha designati. Ora, un premier, che non abbia possibilità di essere rieletto alle elezioni successive, non provoca certo lo scioglimento anticipato. Se vi fosse un premier kamikaze, l'unico effetto «negativo» sarebbe il voto dei cittadini, un rischio quindi assolutamente affrontabile.

Non ritenendo opportuna la norma «antiribaltone», la questione più delicata attiene all'individuazione di chi gestisce la limitata flessibilità nel caso di dimissione del premier che non è più sostenuto della sua maggioranza.

A mio avviso, la soluzione migliore al problema dello scioglimento è, in partenza, quella di tipo svedese, ovvero che ci sia un primato del premier che, con la sua maggioranza, ha vinto le elezioni. Lo sfiduciato ha una settimana di tempo per valutare se la nuova maggioranza che si è presentata in Parlamento potrebbe vincere le elezioni contro di lui, nel qual caso lascerà il passo ad essa, presumendo che abbia anche consenso popolare; viceversa sperimenterà il ricorso alle urne se ritiene di trovarsi di fronte ad una oligarchia parlamentare che ha stabilito una nuova combinazione che non reggerebbe la prova delle elezioni.

Tra l'altro, lo scioglimento comporta che il premier responsabile dello stesso possa benissimo ritrovarsi a capo dell'opposizione, a differenza, ad esempio, del caso francese, nel quale il Presidente della Repubblica francese, quando scioglie anticipatamente le assemblee, resta all'Eliseo, sia pure con poteri diminuiti. È proprio per tali ragioni che, in queste settimane, in Francia, si assiste ad una forte ondata di opinione a favore di un sistema «primoministeriale». È stata presentata una mozione, al congresso socialista, dal deputato De Montebourg, con cui si è richiesto il passaggio ad un sistema in cui il premier e il Presidente della Repubblica detengano il potere di scioglimento. Esiste addirittura un movimento, la «Convenzione per la VI Repubblica», nell'ambito del centrosinistra francese, che esprime questa tesi.

Venendo al problema di cui si discute, ciò che sembra comunque prioritario definire è a chi spetti gestire la nomina del nuovo premier nel caso in cui il premier che abbia vinto le elezioni si dimetta. A mio parere, in tale ipotesi, sarebbe del tutto opportuna la mediazione del Presidente della Repubblica che - attraverso una formula generale di legittimazione, introdotta nel testo del provvedimento - potrebbe procedere nella scelta del primo ministro, sulla base dei risultati elettorali. Tale formula, coprirebbe non solo la nomina di inizio legislatura - che, ovviamente, dovrebbe essere pacifica - ma anche il vuoto determinato da ipotetici e successivi casi di dimissione anticipata del premier stesso in corso di legislatura, conferendo la possibilità, appunto, al Presidente della Repubblica, sulla base dei risultati elettorali ottenuti, di scegliere colui che goda di una maggioranza sostanzialmente invariata.

La formula «sulla base dei risultati elettorali» è sufficientemente precisa da evitare ipotesi di trasformismo, ma non così rigida come la norma antiribaltone attuale, di cui sembrerebbe invece più sensata.

Quanto al Senato federale, questo, nella sua attuale veste, indubbiamente si merita tutti i rimproveri mossigli dall'onorevole Soda; del resto, gli organi di garanzia sono strutture idonee a «garantire» dal suffragio universale, del quale, pertanto, non possono costituire emanazione.
Organo di garanzia è la Camera dei Lord, ad esempio. Nel costituzionalismo moderno, cioè, si intende certamente valorizzare il suffragio universale, ma anche difendersi dagli effetti che questo può provocare. Per cui, configurare come garanti autorità che derivano dall'esercizio del suffragio universale mi sembra in sé una contraddizione in termini. Per questo ritengo che il potere di nomina vada normalmente dislocato su autorità che non derivino dal suffragio menzionato, come ad esempio i poteri di nomina in parte già riconosciuti al Presidente della Repubblica.

Quanto al Senato, tale organo dovrebbe svolgere la funzione di raccordo con il sistema delle autonomie. Il raccordo dovrebbe, inoltre, essere congegnato in modo tale che, sulla gran parte delle leggi, alla fine la Camera, che intrattiene il rapporto fiduciario con il Governo, possa, in ultima analisi, decidere. Diversamente, il sistema sarà minato dall'interno.
Per quanto riguarda, poi, la domanda finale postami dall'onorevole Olivieri, in effetti, la procedura di approvazione degli statuti regionali ordinari sembra stridere rispetto a quella, pur modificata, degli statuti speciali.

Quella attuale è una situazione in cui i poteri legislativi regionali sono sostanzialmente uguali. Le regioni ordinarie approvano il loro statuto, pur rischiando l'impugnazione da parte del Governo in via preventiva (rischio inesistente, però, allorché i legislatori regionali siano abbastanza sensati), hanno la possibilità di indire il referendum eventuale, ma in sostanza tutto lascia presagire che lo statuto passi tranquillamente per sola volontà del legislatore regionale. Quanto allo statuto speciale - anche ai sensi del testo costituzionale modificato - sia pure «asciugato» grazie all'invenzione della fonte intermedia rappresentata dalla legge statutaria - sembra addirittura che possa essere approvato contro la popolazione di quella regione, con legge costituzionale del Parlamento.

Penso, che allora sarebbe opportuno introdurre in via normativa la possibilità di un referendum di tipo oppositivo regionale; che il Parlamento possa approvare un testo addirittura in difformità dall'intesa con la regione interessata pare non accettabile, sebbene reputi eccessivo chiedere l'introduzione, nel testo in esame, di una disposizione capace di «blindare» l'esame parlamentare in caso di contrasto, come accade per le intese con le confessioni religiose. Il fatto che, però, in chiusura, la modifica dello statuto, la quale risente delle proposte della regione e della volontà del legislatore nazionale, debba essere soggetta ad un voto di rigetto del corpo elettorale regionale, mi sembrerebbe la soluzione più equilibrata e capace di recuperare l'eccesso di distanza con gli statuti ordinari.
Vorrei, poi, intervenire aggiungendo un'ultima osservazione. Ho letto il testo del professor Cerulli Irelli, molto interessante, su cui concordo quasi interamente, eccetto che per un aspetto, e per ragioni di esperienza fatta. Il professor Cerulli Irelli, infatti, vorrebbe sottrarre il potere di scioglimento anticipato ai presidenti delle regioni. Finché si tratta di eliminare quegli eccessi di rigidità nel caso di morte o impedimento permanente, questo è più che sensato.

Fra l'altro, io stesso sono fra i collaboratori della regione Friuli-Venezia Giulia per lo statuto, e posso pertanto confermare che in quel territorio ci si è orientati proprio nella direzione appena prospettata. Occorre, però, prestare attenzione a ciò che facciamo perché, come rileva anche il paper del centro studi Astrid sugli statuti delle regioni, la scelta dell'elezione diretta e del simul simul è la più congrua rispetto alla concessione dei poteri legislativi di cui al Titolo V. Non è un problema di modelli, ma di vita vissuta. La consiliatura regionale, avviata nel 1995, è scaturita dalla applicazione della medesima legislazione elettorale del 2000. La differenza sta, però, nella mancanza del potere di scioglimento, nel primo caso. Quindi, al termine della clausola anti ribaltone biennale, le regioni maggiormente bisognose di stabilità politica hanno vissuto una crisi di giunta. Viceversa, in questa legislatura, con le medesime norme elettorali ma, in più, con il deterrente dello scioglimento - usato, in realtà, da nessuno dei 15 presidenti di regione ordinaria - si è verificata una notevole stabilità, che consentirà all'elettorato, a fine consiliatura, di giudicare l'operato dei presidenti regionali.

Non escludo ipoteticamente, in un futuro non necessariamente lontano, che, in un sistema di partiti più stabilizzato e armonizzato, meno bisognoso di supporti così stringenti, sia possibile anche avere norme più lasche; sin tanto, però, che il sistema partitico rimanga invariato, appare del tutto opportuna la presenza di regole costituzionali capaci di inquadrare fortemente la forma di Governo. Per di più, le regioni dove esiste un certo margine di autonomia statutaria ed il cui sistema politico garantisce una maggiore stabilità potrebbero comunque introdurre questo strumento, distanziandosi in misura crescente da quelle più deboli e politicamente instabili, ove - anche in ragione del mantenimento di norme più morbide - eguale solidità non verrebbe raggiunta. Se ciò fosse, pertanto, proprio ciò che critichiamo della devolution verrebbe esattamente riproposto in termini di diverso rendimento delle forme di Governo.


 

Giovanni Pitruzzella, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Palermo.

 

GIOVANNI PITRUZZELLA, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Palermo. Signor presidente, sarà mia cura trasmettere una copia del lavoro svolto agli uffici di questa Commissione.

PRESIDENTE. La ringraziamo in anticipo. Se fosse possibile - ciò formerà comunque oggetto di valutazione dell'ufficio di presidenza - sarebbe nostra intenzione riunire in un unico volume tutti gli interventi dei giuristi che abbiamo consultato. Do la parola al professor Pitruzzella, che svolgerà una relazione sulla forma di Governo e sul Senato federale.

GIOVANNI PITRUZZELLA, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Palermo. Signor presidente, ringrazio voi tutti per avermi invitato ad esprimere qualche opinione in una sede così autorevole. Forma di Governo e Senato federale sono strettamente connessi, considerato che composizione e funzioni del secondo sono capaci di incidere profondamente sul funzionamento complessivo del sistema di Governo in corso di definizione. Procedendo con enorme rapidità, indicherei, innanzitutto, quali siano gli obiettivi che si intende perseguire e le tecniche cui ricorrere per farlo, verificando se il modo in cui certi strumenti sono stati utilizzati sia o meno congruente al raggiungimento dei fini individuati.
Con riguardo agli obiettivi della riforma - su cui mi pare vi fosse certa condivisione da parte di forze politiche diverse - , in primo luogo, si intenderebbe consolidare il passaggio alla democrazia ed al parlamentarismo maggioritari, ovvero un sistema in cui il Governo è legittimato dagli elettori, esiste una distinzione fra maggioranza e opposizione, ed una alternanza ciclica tra queste nelle funzioni di governo. In secondo luogo, si vorrebbe rendere la struttura dello Stato coerente con un regionalismo forte o addirittura con il federalismo e quindi rafforzare il collegamento tra articolazione territoriale e Parlamento. Non solo, nello spirito della riforma, tale rafforzamento sarebbe anche necessario per ridurre la conflittualità tra Stato e regioni. Sappiamo tutti, infatti, che la riforma del Titolo V ha innescato una grande conflittualità (la quale, non dimentichiamolo, è fattore di grave incertezza del diritto, a sua volta nociva per lo sviluppo economico ed i calcoli delle imprese). Il terzo obiettivo è quello di rendere più funzionale il sistema, secondo i concetti di governabilità, efficienza e rapidità decisionale.

Rispetto a questi fini, le tecniche da utilizzare sarebbero numerose. Certamente, non si può eludere che, a livello costituzionale, contino i fatti normativi, le convenzioni. In altre parole, si sarebbe potuto ottenere l'evoluzione verso la democrazia ed il parlamentarismo maggioritari anche con regole convenzionali; abbiamo anche rilevato trasformazioni che, nel linguaggio giornalistico e politico, sono state definite « passaggio alla seconda Repubblica » (espressione sulla cui correttezza, dal punto di vista giuridico-costituzionale, non mi pronuncio) e ciò è avvenuto senza modifiche formali. Probabilmente, nel testo, si sarebbe potuto rafforzare questo passaggio senza bisogno di intervenire sulle norme costituzionali.
Il fatto che in Italia si avverta, però, tale esigenza, risponde alla circostanza per cui le vecchie convenzioni si sono rotte, basti pensare a quanto è avvenuto dopo la crisi del primo Governo Berlusconi, a proposito del potere di scioglimento del Parlamento, oppure a ciò che si è recentemente verificato con riferimento alla titolarità del potere di grazia. Da tutti questi casi, in cui non si sono create nuove norme, è derivata la necessità di consolidare le trasformazioni occorse in un testo scritto, appunto, riformatore. È in ogni caso opportuno osservare che la riforma della quale si discute avviene in un contesto in cui a muoversi sono degli attori politici consolidati.

Non siamo, cioè, in una situazione storico-politica in cui sia possibile esercitare un potere costituente ed i soggetti politici risultino caratterizzati dalla non conoscenza delle conseguenze delle loro attività; al contrario, ognuno di essi può calcolare quali vantaggi e svantaggi - a livello partitico o personale - otterrà dalle riforme. È chiaro che da ciò derivino, dunque, taluni limiti allo stesso processo riformatore.

Detto ciò, andrò ad esaminare come le proposte presentate e approvate in prima lettura al Senato siano congruenti rispetto agli obiettivi, evidenziando ciò che è migliorabile e ciò che, probabilmente, non lo è - pur essendo accademicamente discutibile - in ragione di quei vincoli politici di cui parlavamo.

A questo punto, ritengo che il punto centrale da considerare sia, in primo luogo, la questione del Governo del premier. Ricordo che riguardo a questo tema, in passato, si proponeva addirittura l'elezione separata del presidente del Consiglio rispetto alla sua maggioranza.
Quanto alle posizioni attuali, sulla evoluzione e adozione di una forma di Governo di questo tipo, detta anche neoparlamentare, mi sembra di ricordare che, fino poco tempo fa, esistesse un largo consenso da parte di forze politiche diverse. Con particolare riferimento, poi, al disegno di legge approvato dal Senato, tra le varie ipotesi di Governo neoparlamentare si è preferito adottare un modello che è stato definito «debole». In questo testo, esiste un collegamento del candidato premier ai candidati nei collegi, ciò che significa depotenziare ipotetici rischi plebiscitari della riforma. Tuttavia, parlare di rischi di autoritarismo, di plebiscitarismo, alla luce del testo approvato dal Senato, a mio parere, è francamente eccessivo. Se da una parte, già esiste un sistema in cui l'elettore vota scegliendo, nella sostanza, il primo ministro, dall'altra, dobbiamo tener conto di come questa elezione si inserisca in un meccanismo in cui vengano mantenuti i tradizionali istituti di garanzia (Capo dello Stato, Corte costituzionale) e dove la divisione orizzontale del potere è affiancata, in modo forte, ad una divisione verticale, determinata dal federalismo. Le regioni, i comuni, le province, le città metropolitane rappresentano, infatti, i nuovi centri di potere in cui viene ad essere ripartita la sovranità, fungendo da limite nei confronti di un presidente del Consiglio eletto. Alla luce di ciò, parlare del rischio di derive autoritarie o plebiscitarie, sembra strumentale.

Altrettanto mi sembra insostenibile - per contrastare la riforma -, sostenere, come invece fa Giovanni Sartori, che, là dove è stata introdotta una forma di Governo neoparlamentare, cioè Israele, le cose non abbiano funzionato. A me pare che i critici della forma di Governo del premier cadano in contraddizione, perché, da una parte l'accusano di autoritarismo, dall'altra, facendo riferimento ad Israele, ne mettono in evidenza l'ingovernabilità e la difficoltà di assumere delle decisioni.

La verità è, invece, che al Governo di tipo israeliano, che nel 2001 è stato riformato, nessuno mai ha fatto riferimento; né questa riforma richiama in alcun modo quel modello, perché, appunto, il premierato, introdotto nel nostro sistema, verrebbe comunque collegato alla presenza di una sicura maggioranza in Parlamento.

Il problema più controverso riguarda, piuttosto, come voi ben sapete, il potere di scioglimento, a cui le critiche sono particolarmente indirizzate. È chiaro che, in quasi tutti i parlamentarismi maggioritari, questo potere spetti al Governo, come avviene per l'esperienza britannica. Qualcuno sostiene che in Inghilterra nei primi anni del secolo ventesimo il potere è stato del premier, ma che tale strumento non sia stato usato contro la propria maggioranza riottosa ma per stabilire la data più propizia per svolgere le elezioni. In ogni caso, si è osservato come vi sia stata sempre la possibilità di cambiare primo ministro, nel corso di legislatura. Il caso citato oltre modo, ovviamente, è sempre quello di Margaret Thatcher nel 1990.

In realtà, la soluzione prospettata dalla riforma non contraddice tutti questi elementi; infatti, nel testo del disegno di legge è contenuta una previsione secondo cui, anche allorché il presidente del Consiglio richieda lo scioglimento, il Parlamento - o meglio la Camera «politica» - possa presentare una mozione, proveniente dagli stessi deputati della maggioranza usciti dalle elezioni, con cui sostituire il premier con un altro. Si tratta, dunque, di una soluzione coerente con quella britannica; d'altra parte, bisogna osservare come anche i teorici delle scioglimento inglese dichiarino che questo possa essere utilizzato per risolvere problemi di conflittualità interna ai partiti.

Ricordo come un libro di Mauro Volpi, del 1984, quando ancora in Italia non si ipotizzava nemmeno questo tipo di riforma, sosteneva che esistono nell'esperienza dei regimi parlamentari casi di scioglimento governativo, molti dei quali - derivando da conflitti interni alla maggioranza - sono utilizzati come strumento, da parte del premier, contro alcune componenti particolarmente turbolente della propria coalizione.

Riguardo al Senato federale - mentre esprimo un giudizio tendenzialmente positivo sulla soluzione per il Governo del premier - la valutazione si fa più articolata.
Il Senato federale è necessario in un assetto ispirato all'idea di garantire effettivo spazio di intervento alle regioni, perché le materie non vengano divise e separate «a colpi di accetta».
L'illusione dei formatori del Titolo V, presente nel nostro paese, è quella secondo cui, per rendere il sistema più federale, basti sottrarre una competenza al centro e trasferirla verso le regioni, idea a cui è, ovviamente, sottesa la convinzione che le materie possano essere separate con nettezza.

In realtà, come dimostra l'esplosione del contenzioso costituzionale, le materie sono indefinibili nei loro confini e sempre più sovrapposte tra di loro. Ciò anche perché noi dobbiamo risolvere per intero i problemi collettivi.

L'impossibilità di tracciare nette linee di confine significa che ciò che spetta allo Stato e ciò che spetta alla regione va definito di volta in volta sulla base dell'accordo. Ecco, quindi, la necessità del Senato federale, il luogo dove lo Stato e la regione si mettono d'accordo su quello che può fare l'uno e quello che può fare altro. Tutto ciò è coerente con la funzione del principio di sussidiarietà, che non è equivalente al decentramento, ma funziona come un ascensore: talora porta le cose verso l'alto, talora verso il basso, a seconda di come un problema può essere trattato avendo a riferimento determinate condizioni storico-politiche.

Ciò, significa che il Senato deve essere un luogo di composizione, di mediazione tra interessi statali e regionali. In ogni caso, questo Senato è in grado di fare tutto questo? Io ho dei dubbi, perché non vi è la presenza dei presidenti delle regioni, coloro che hanno la titolarità del potere di proporre l'impugnativa attraverso le leggi dello Stato.
Tra l'altro, questo Senato, in realtà, ha una composizione politica diversa da quella della Camera dei deputati, perché viene eletto in tempi diversi - contestualmente all'elezione dei consigli regionali - e perché potrebbe anche essere eletto sulla base di un sistema elettorale anch'esso differente da quello attraverso cui si elegge la Camera.

In presenza di maggioranze politiche diverse nei due rami del Parlamento, vi è un grave rischio di stallo decisionale; ciò anche perché le competenze attribuite al Senato da questa proposta sono larghissime: non soltanto è molto ampio l'elenco delle leggi bicamerali, ma tutte le leggi che riguardano la competenza concorrente sono approvate in via esclusiva dal Senato. Da ciò consegue il rischio che un Senato con maggioranze diverse da quelle presenti alla Camera dei deputati introduca grandi elementi di stallo, di ostruzionismo e di incapacità decisionale; quindi, potremmo non raggiungere l'obiettivo della funzionalità decisionale e dell'efficienza.

Detto questo, certamente mi pare utopistica, fuori dalla realtà, l'idea di passare ad un Senato di tipo tedesco, nell'ambito del quale vi sono i rappresentanti dei governi locali. Ciò, infatti non tiene conto della nostra realtà, che prevede un Senato funzionante con un pezzo di classe politica ben presente e che ha anche un suo importante patrimonio di esperienza, di preparazione, di storia.

Quindi, da una parte bisogna tener presente la possibilità di un'integrazione con i presidenti delle regioni e dall'altra incidere sul versante delle competenze, probabilmente riducendo il numero delle leggi bicamerali - veramente enorme - e prevedendo altri due elementi ai quali attribuisco un'enorme importanza.

In primo luogo, se si vuole mantenere questo assetto - in cui il rapporto di fiducia è solo con la Camera dei deputati - bisognerebbe prevedere per le leggi necessarie per l'attuazione del programma di Governo una preminenza della decisione della Camera dei deputati. Ciò vuol dire che, se vi è un blocco o un orientamento contrario a quelle leggi, decide - magari a maggioranza qualificata - la Camera dei deputati.

Per quanto riguarda la seconda questione - anch'essa di particolare importanza -, poc'anzi avevamo detto che il problema più serio dei complicati assetti federali è che le materie non si possono dividere «con l'accetta»; non basta scriverle in Costituzione spostandole da un lato o dall'altro per far sì che il sistema funzioni.

Se questo è vero, è pur vero che i sistemi federali contengono delle clausole di flessibilità, come la legge fondamentale tedesca. Tali clausole di flessibilità consentono al Parlamento di intervenire anche in materia di competenze regionali, allorché sono in gioco i valori che riguardano l'unità giuridica ed economica dello Stato.

Infine, vedo con preoccupazione il coinvolgimento del Presidente della Repubblica nella risoluzione delle questioni di interesse nazionale. Ciò perché la decisione su quello che deve considerarsi interesse nazionale è massimamente politica; infatti, non si può stabilire a priori cosa è l'interesse nazionale.

Il testo di riforma, a mio parere opportunamente, sceglie un presidente organo di garanzia, non un presidente governante. Se vogliamo essere coerenti con questa posizione del Capo dello Stato, dobbiamo escluderlo dalle decisioni massimamente politiche come, ad esempio, quella che stabilisce cosa è l'interesse nazionale.

 

PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi.

 

MARCO BOATO. Signor presidente, sia noi che lei siamo po' affaticati, quindi rivolgerò al professor Pitruzzella domande abbastanza rapide.

Molte delle considerazioni relative alla seconda parte della sua relazione - da me condivise - sono coerenti e razionali rispetto alle ipotesi generali che lei ha prospettato all'inizio riguardo gli obiettivi. Da questo punto di vista le chiedo qual è il suo giudizio (critico o di riserva) rispetto al secondo e al terzo obiettivo che lei aveva indicato nella prima parte della sua relazione. Il primo obiettivo era quello del consolidamento relativo al passaggio alla democrazia maggioritaria, alla legittimazione del governo da parte degli elettori, alla separazione netta tra maggioranza e opposizione e al principio dell'alternanza; fra l'altro, obiettivi che personalmente condivido.

Invece, il secondo e il terzo obiettivo erano il rafforzamento del collegamento con i territori - anche per ridurre il conflitto tra Stato e regioni - e la funzionalità del sistema: governabilità, efficienza e rapidità istituzionale.

Da quello che emerge, a me pare - anche avendo a riferimento la sua relazione - che, paradossalmente, ci possiamo trovare di fronte non a un governo plebiscitario, ma ad un governo depotenziato da una correlazione con un Senato che non può essere sciolto, che non ha un rapporto di fiducia con il Governo, che viene eletto attraverso un diverso sistema elettorale - che può originare una maggioranza diversa da quella della Camera dei deputati - e che ha dei poteri enormi.

In base a tutto ciò, a me pare che il primo obiettivo forse può essere raggiunto, ma il secondo e il terzo risultano pesantemente compromessi dal testo così com'è stato pensato.
Inoltre, professore, nella prima parte del suo intervento (dopo aver delineato gli obiettivi) - anche se in modo garbatissimo e diplomatico - ha polemizzato con quelle forze politiche che, avendo sostenuto in passato il modello Westminster, adesso invece ne sono preoccupate.
Io sono fra coloro che hanno sostenuto questa ipotesi e non sono pentiti, quindi tutto ciò che possiamo fare in sede di riforma costituzionale per rendere coerente e conseguente quel modello, personalmente, io lo condivido.

In ogni caso, mi chiedo se, avendo a riferimento il quadro complessivo del disegno di legge approvato al Senato, venga fuori un modello di questo genere. Infatti, da una parte abbiamo questo strapotere del Senato, dall'altra l'articolo 28 del disegno di legge costituzionale - riguardante l'articolo 94 della Costituzione - afferma che il Primo ministro può chiedere che la Camera dei deputati si esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del Governo. In caso di voto contrario, il Primo ministro rassegna le dimissioni e può chiedere lo scioglimento della Camera dei deputati.

A me pare che questo sia uno di quegli elementi che - pur avendo a riferimento il modello Westminster, un rafforzamento del Primo ministro, il superamento del Presidente del Consiglio visto come primus inter pares -, in realtà porta invece ad un governo sottoposto ad un Senato potenzialmente ingovernabile. Quindi, al riguardo le chiedo se lei ritiene opportuno reinserire un'ipotesi - sia pure di scuola - di scioglimento del Senato. Infatti, da una parte abbiamo la Camera totalmente subalterna e dall'altro un Senato totalmente ingovernabile, due elementi che squilibrano totalmente il sistema.

 

KARL ZELLER. Signor presidente, il professor Pitruzzella ha giustamente evidenziato che le competenze tra Stato e regioni non possono essere separate nettamente. In passato vi era l'interesse nazionale - in seguito cancellato dall'ultima riforma costituzionale (in Germania vi è l'unità economica o giuridica per dirimere questo conflitto) - mentre oggi in Costituzione è presente il concetto della sussidiarietà. La Corte costituzionale nelle recenti pronunce ha fortemente criticato l'interesse nazionale che vigeva in precedenza, quindi per dirimere questo tipo di conflitti basta il concetto di sussidiarietà.

Lei ritiene che sia necessario introdurre altri principi, tipo l'interesse nazionale o il concetto di unità economica e giuridica, se oggi la Corte costituzionale non ne ha sentito la mancanza? La seconda domanda riguarda la procedura di revisione degli statuti speciali che, a mio avviso, nel nuovo testo approvato dal Senato, appare abbastanza debole. Cosa proporrebbe per rafforzare il carattere pattizio del rapporto tra lo Stato e le regioni a statuto speciale?

 

PRESIDENTE. Do la parola al professor Pitruzzella per la replica.

 

GIOVANNI PITRUZZELLA, Professore ordinario di diritto costituzionale della facoltà di giurisprudenza presso l'Università di Palermo. Premettendo che sono in sintonia con quanto rilevato dall'onorevole Boato, ritengo che, tra gli obiettivi della riforma, sia abbastanza centrato quello volto a consolidare il passaggio verso un parlamentarismo maggioritario.
Tuttavia, se il Governo ha di fronte un Parlamento di cui una delle due Camere è svincolata dal rapporto di fiducia, ha una maggioranza politica diversa e non è sottoposta neppure a strumenti di pressione come la questione di fiducia, corriamo il rischio di avere un assetto dualistico, nel quale, in realtà, il Governo ha difficoltà nella realizzazione legislativa del suo programma. Il rischio, quindi, come sta già avvenendo a livello regionale, sarà che, per governare, si ricorrerà a circuiti decisionali che, il più delle volte, il cui esito finale non sarà certamente una legge ma regolamenti o, addirittura, atti non normativi.

Sempre con riferimento agli obiettivi, mi permetto di osservare che bisogna evitare il pericolo di ritenere che la riforma possa essere scritta solamente dalla Camera dei deputati o dal Senato della Repubblica o che, comunque, essa non tenga conto della concretezza degli attori in campo.

Per tali ragioni, riterrei che vadano apportate significative modifiche al testo approvato, almeno per quanto riguarda la parte relativa ai poteri del Senato federale, cercando nel contempo di valorizzarne il ruolo.

Le alternative sono due: o si ritorna ad una Camera politica - eletta insieme alla Camera dei deputati, legata da un rapporto di fiducia, scioglibile e sottoposta alla possibilità di una questione di fiducia - e si crea una differenziazione funzionale tra i due rami del Parlamento, che serve a rendere più spediti i lavori (cosa che, secondo me, sarebbe stata auspicabile, anche se credo che ormai il processo politico abbia preso un'altra direzione e non si tornerà più indietro dalla contestualità delle elezioni o dall'idea del Senato come rappresentante dei territori); oppure, bisognerà cercare di rafforzare il legame con i territori - alludo alla presenza nel Senato dei presidenti delle regioni -, fare in modo che, in certi casi, come diceva l'onorevole Boato, si possa procedere allo scioglimento anticipato dell'organo ed introdurre meccanismi per i quali, in alcune ipotesi, prevale comunque la decisione della Camera politica.

Tutto ciò va portato a termine con realismo, giocando in modo da condurre in porto la riforma con l'accordo del Senato, altrimenti il risultato sarebbe quello di paralizzare il processo decisionale.

Riguardo alla polemica con le proposte sollecitate da alcune forze del centrosinistra sul governo del premier, ci tengo a sottolineare che, in Italia, il consenso su tale ipotesi di governo era vasto. Inoltre, non si tratta di una sorta di trapianto di meccanismi organizzativi derivanti da altre esperienze, ma dell'evoluzione naturale di un processo storico politico avviato dal tempo, per giunta con l'assenso di quasi tutti.

Credo, allora, che dovremmo lavorare per recuperare queste ragioni iniziali di unità, tenendo conto che molte delle critiche appaiono strumentali rispetto ad un modello che non reputo sia particolarmente rischioso, chiunque sia l'inquilino di Palazzo Chigi.

Semmai, avendo a cuore il problema del controllo sul potere, si dovrebbe lavorare di più sullo statuto dell'opposizione. Mi permetto di richiamare la vostra attenzione sul fatto che il testo approvato parla ambiguamente di opposizioni. Attraversando la Manica, ci accorgiamo che lì l'opposizione è una sola, come unica è la maggioranza. Bisogna quindi assicurare al capo dell'opposizione, che è giustamente contemplato nel testo, uno spazio uguale a quello del premier in Parlamento e soprattutto un'adeguata possibilità di incidenza sulla programmazione dei lavori parlamentari.

Inoltre, questo discorso vale anche per le Commissioni di inchiesta, le quali, già alla fine degli anni '60, venivano definite, da un autorevole costituzionalista, il professor Alessandro Pace, strumento della maggioranza. È indispensabile, in tale ottica, che esse siano uno strumento di controllo forte che possa essere richiesto dall'opposizione.

Per quanto attiene all'articolo 28, riterrei opportuno che fosse attenuato e reso più flessibile il meccanismo previsto che ritengo sia un'arma nucleare del premier nei confronti della Camera, mantenendo l'ipotesi di voto bloccato, che però non sia necessariamente collegato necessariamente alle dimissioni e allo scioglimento.

Le domande poste dall'onorevole Zeller sono molto stimolanti. Egli ha acutamente fatto riferimento al principio di sussidiarietà e al fatto che la Corte, proprio in relazione alla celebre sentenza sulla cosiddetta legge-obiettivo, ha utilizzato tale principio, tratto dall'articolo 118 della Costituzione, per arrivare all'idea, già sostenuta da tempo, secondo la quale le competenze non si separano con l'accetta. La sussidiarietà, infatti, comporta che una competenza ora sale verso l'alto, ora scende verso il basso. Ci si potrebbe chiedere se sia indispensabile una sua consacrazione nel testo costituzionale, essendosi già pronunciata la Corte. Probabilmente, ciò sarebbe opportuno al fine di stabilire quale sia la Camera che decide se far salire o meno la competenza. A mio parere, dovrebbe essere la Camera dei deputati, in quanto Camera politica, a dire se avocare verso l'altro una determinata competenza.
Riguardo agli statuti speciali, condivido la suggestione sollevata dall'onorevole Zeller in relazione al rafforzamento del carattere pattizio dei rapporti tra lo Stato e le regioni, che ritengo sia uno dei tratti fisionomici della specialità.


 

SEDUTA DEL 20 MAGGIO 2004

Pietro Ciarlo, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Cagliari.

 

PIETRO CIARLO, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Cagliari. Signor presidente, cercherò di limitare la mia esposizione all’essenziale, enunciando soltanto i punti fondamentali delle mie argomentazioni.
Ritengo che questo disegno di legge costituzionale nasca da tre esigenze istituzionali abbastanza condivise: la razionalizzazione della forma di Governo, il coordinamento ex ante della produzione legislativa, regionale e statale, non affidato soltanto ex post al giudice costituzionale, e la razionalizzazione delle ripartizioni delle competenze legislative, così come delineate dall’articolo 117.

Si tratta di tre esigenze istituzionali. La prima esigenza, che definisco politica, è stata quella di incrementare il potere legislativo regionale. Ciò ha suscitato nel nostro ambiente forti perplessità: questa esigenza non veniva avvertita come una priorità. Vi sono poi delle esigenze considerate consequenziali a questi interventi. In primo luogo, ridefinire il ruolo del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale. Vi è poi un intervento «ultroneo» di questo disegno di legge, da nessuno ipotizzato, riguardante la modifica dell’articolo 138 della Costituzione e, quindi, la procedura di revisione costituzionale.
Considero molto preoccupante il nuovo disegno dell’articolo 138 della Costituzione, e forse questo è il punto più delicato di tutto il disegno di legge perché, in pratica, si rende immodificabile la Costituzione modificata. Su questo punto interverrà anche il collega Giorgis, di cui condivido in larga parte le opinioni. Ometto, quindi, di trattarne oltre anche se annetto ad esso grande importanza.

A parte le reazioni emotive immediate suscitate da questo disegno di legge – preconcette da parte di alcuni -, man mano che si approfondisce la lettura del testo del Senato aumentano le preoccupazioni, anche se le esigenze istituzionali (le tre che ho prima ricordato) sono largamente condivise.

Sale, nel nostro ambiente, un dissenso sempre più forte, che avverto anche dal modesto osservatorio del comitato di presidenza (del quale in questo periodo faccio parte) dell’associazione italiana dei costituzionalisti. Un valore emblematico in questo senso assume, a mio avviso, la pubblicazione che è stata largamente diffusa a livello nazionale (perché è stata venduta nelle edicole insieme al giornale Il Foglio) e curata dalla fondazione Magna Carta, il cui presidente onorario è il Presidente del Senato.

L’opera si intitola «La Costituzione promessa», a cura di Calderisi, Cintioli e Pitruzzella. Questa pubblicazione, per espressa scelta degli autori, si pone in una prospettiva construens, cioè in una prospettiva che cerca di migliorare il testo del Senato. Tuttavia, ad una lettura del contenuto, del merito di questa pubblicazione, emerge che, ciascuno per la sua parte, tutti gli autori hanno criticato con estrema durezza il testo del Senato cosicché, da fonte non sospetta come è questa pubblicazione (peraltro curata da colleghi autorevoli con i quali ho una consuetudine di lavoro da lungo tempo), promana una critica molto serrata del disegno di legge del Senato.

Ognuno degli autori che è intervenuto sui diversi aspetti di tale disegno di legge lo ha criticato duramente e, alla fine, sommando tutte le critiche dei diversi autori, portate sui diversi aspetti del disegno di legge, il risultato è che di esso non resta quasi più nulla in piedi (condivido in pieno il contenuto dell’opera).

In estrema sintesi, ci sono alcuni aspetti che lasciano veramente perplessi. Innanzitutto, il fatto che, in caso di mozione di sfiducia, da ciò discenda automaticamente lo scioglimento (sono notizie che avrete già sentito anche dal professor Pitruzzella nel corso della precedente audizione), poi l’accoppiamento questione di fiducia-voto bloccato, che emargina completamente la Camera e il Senato dal dibattito legislativo. Tuttavia, ciò che lascia veramente sorpresi è la previsione (il professor Pitruzzella accenna soltanto a questo aspetto ma io insisto molto su questo punto) degli articoli 88 e 92 dove, per l’incarico al nuovo Primo ministro, la mozione stessa sembra non debba essere discussa e votata in Parlamento, bensì semplicemente sottoscritta.

Tra l’altro, anche negli studi curati dall’ufficio studi della Camera, la parola «mozione votata», non viene mai utilizzata. Ci sono anche altri elementi testuali – che ometto per ragioni di sintesi – che lasciano presupporre una volontà che la mozione sia soltanto sottoscritta. Ciò porta ad un effetto dissuasivo enorme perché, in realtà, si può, per così dire, «girare casa per casa» a far sottoscrivere ai singoli deputati la mozione: tanto basta, quindi, facendo venire meno completamente qualunque tipo di dialettica pubblica e assembleare, con una gravissima penalizzazione delle Assemblee medesime, della funzione rappresentativa, ed esponendo ciascun deputato, singolarmente inteso, a resistere alla pressione di chi è interessato alla sottoscrizione della mozione, la quale, peraltro, deve essere sottoscritta da appartenenti alla maggioranza che siano in numero non inferiore alla maggioranza assoluta dell’Assemblea. Si tratta di appartenenti a quella maggioranza che si individua nel momento dell’apparentamento tra candidato Presidente e candidati al seggio parlamentare.
Dunque, la maggioranza che poi dovrà sottoscrivere questa mozione che non verrà mai votata si forma in un momento pre-parlamentare. Allora, tutta la delicatissima procedura che riguarda lo scioglimento anticipato delle Camere, la sostituzione del Primo ministro, viene affidata a procedimenti extraparlamentari, che riguardano l’apparentamento preelettorale del candidato Presidente e dei candidati deputati e, poi, la sottoscrizione della mozione fuori dalle aule parlamentari.

Vi cito soltanto quanto afferma in questo libro di Magna Carta il professor De Vergottini a proposto dello statuto dell’opposizione, quando sostiene che lo statuto delle opposizioni si nutre di contraddizioni evidenti – sono parole testuali – e di arretratezza rispetto ad altre proposte già presentate, generando una pericolosa confusione. Non insisto su questo punto e vi riporto soltanto il giudizio.

Vi è poi una sostanziale marginalizzazione del Parlamento dove, in realtà, il Presidente del Consiglio, data questa extraparlamentarizzazione di molte attività, non sia neanche obbligato a venire a riferire o comunicare alcunché se, per esempio, una mozione viene sottoscritta fuori dalle aule parlamentari, non viene discussa, votata, mancando anche il momento (che oggi state vivendo) di riferire alle Camere.

La disposizione dell’articolo 58 è stata – giustamente – definita ridicola perché, per l’elezione al Senato, si fa un elenco di condizioni ma poi la disposizione si chiude dicendo che chiunque sia residente nella regione può essere eletto.

L’articolo 60, sempre per quanto riguarda il rapporto tra Senato e regioni, prevede che, in caso di scioglimento di un consiglio regionale, la legge stabilisca un termine abbreviato per il consiglio regionale successivo, per mantenere la _on testualità delle elezioni, con il risultato che, nelle regioni, si realizzerebbero due microlegislature: quella che è finita per lo scioglimento del consiglio e quella successiva, abbreviata per legge per mantenere la _on testualità.
Non voglio continuare ad insistere, ma l’elenco è lungo. Le critiche mosse al Senato federale sono note, a partire da quella del presidente della regione Lombardia, il quale ha sostenuto che di federale vi è soltanto il nome. Pertanto, il Senato, in base a questo disegno di legge, non si rappresenta come idonea sede di concertazione preventiva della legislazione tra Stato e regione: e questo, è per la verità, un giudizio veramente unanime.
Infine, la costruzione della funzione legislativa su una base materiale competenziale tra Camera e Senato è da tutti considerata foriera di infiniti conflitti e di un blocco istituzionale.
I costituzionalisti sono molto preoccupati – a parte l’importantissimo articolo 138 – da questo disegno di legge perché creerà un grande danno alle istituzioni della Repubblica e, soprattutto, delegittimerà le tre esigenze istituzionali vere che pure vuole affrontare.


 

Andrea Giorgis, professore straordinario di garanzie dei diritti fondamentali presso la facoltà di giurisprudenza dell'università di Torino.

 

ANDREA GIORGIS, Professore straordinario di garanzie dei diritti fondamentali presso la facoltà di giurisprudenza dell'università di Torino. Ringrazio lei, presidente, e 1'intera Commissione per 1'invito e per l'opportunità che mi viene in tal modo offerta di svolgere, in una sede così autorevole e prestigiosa, alcune considerazioni in ordine al sempre controverso tema dei meccanismi di tutela della rigidità della Costituzione.
Il mio intervento sarà esclusivamente concentrato sull'analisi dell'articolo 41 del disegno di legge ora all'esame di questa Camera.

Tra gli studiosi è opinione largamente diffusa che l'introduzione, nel nostro ordinamento, di un sistema elettorale maggioritario debba essere accompagnata da una riconsiderazione del complesso sistema delle garanzie costituzionali: ciò, essenzialmente, al fine di garantire il perdurare della supremazia della Costituzione nella (e sulla) dinamica politica.

Gli istituti di garanzia che sono fondati, in primo luogo, sulla previsione di maggioranze qualificate (non particolarmente elevate) rischiano infatti di perdere gran parte della propria efficacia sostanziale in presenza di sistemi elettorali che, attraverso una distorsione dei meccanismi della rappresentanza, tendono a costituire artificialmente in seno al Parlamento delle maggioranze di governo sempre più consistenti (che possono, in ipotesi, aver ottenuto il consenso anche solo di una minoranza del corpo elettorale) e, soprattutto, delle maggioranze di governo tendenzialmente sempre più indisponibili a praticare quell'insieme di convenzioni costituzionali che si affermarono sotto la vigenza del precedente sistema elettorale proporzionale e che, in ultima analisi, miravano a limitare e a circoscrivere l'ambito di operatività del principio di maggioranza.

Si pensi, ad esempio, alla facilità con la quale lo schieramento politico che prevale nella consultazione elettorale può procedere, nel formale rispetto delle disposizioni costituzionali, all'elezione di organi quali il Presidente della Camera, il Presidente del Senato e, soprattutto, il Presidente della Repubblica. Oppure si pensi alla facilità con la quale può essere attratto nella logica maggioritaria l'esercizio del potere di verificare i titoli di ammissione di deputati e senatori.

Analoga considerazione vale per le garanzie di tipo legislativo, e, in particolare, per quanto concerne le maggioranze che sono attualmente richieste per 1'approvazione dei regolamenti delle Camere e per 1'approvazione delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale: anche in questo caso - come è noto - la maggioranza politica che vince la competizione elettorale si viene (automaticamente) a trovare nella condizione di poter contare su di un numero di parlamentari sufficiente per approvare, sempre nel formale rispetto delle disposizioni costituzionali, sia una modifica dei regolamenti parlamentari, sia, ed è sicuramente ciò che solleva le maggiori preoccupazioni, una modifica della Costituzione.
Ora - in questo mio breve intervento - vorrei soffermare 1'attenzione proprio su quest'ultimo aspetto, che a me pare essere uno dei problemi più urgenti e nel contempo più difficili da affrontare e da risolvere: quello, appunto, della necessità di introdurre nuove forme di garanzia al principio di rigidità della Costituzione.
Il disegno di legge costituzionale (d'iniziativa del Governo) approvato dal Senato, in sede di prima deliberazione, il 25 marzo 2004, all'articolo 41, prevede l'introduzione di due significative modifiche alla vigente disciplina. In primo luogo, introduce, all'interno della (eventuale) fase referendaria, per il caso in cui nella seconda deliberazione la legge costituzionale sia stata approvata con una maggioranza inferiore ai due terzi, un quorum di partecipazione, analogo, ma con effetti opposti, a quello previsto, dall'articolo 75 della Costituzione, per il referendum abrogativo. La legge di revisione costituzionale, che sia stata approvata nella seconda votazione da ciascuna Camera con una maggioranza inferiore ai due terzi dei componenti e sia stata sottoposta a referendum, non potrà più, quindi, essere promulgata se alla consultazione non avrà partecipato almeno la maggioranza degli aventi diritto al voto. Per rendere possibile l'entrata in vigore di una legge di revisione costituzionale non sarà, cioè, più sufficiente 1'approvazione da parte della maggioranza dei voti validi, ma occorrerà altresì che la maggioranza dei cittadini si rechi alle urne.
In questo modo, com'è evidente, si tende a rafforzare la capacità interdittiva del pronunciamento popolare (e, in particolare, della richiesta di referendum) nei confronti di quelle leggi costituzionali che non siano state condivise da una maggioranza consistente dei membri delle Camere, pari almeno ai due terzi.

Nella misura in cui il quorum di partecipazione risulti difficile da raggiungere - anche e soprattutto perché magari si consolida un atteggiamento di non partecipazione al voto da parte di coloro che condividono il contenuto delle scelte parlamentari e dunque gli effetti che si determinerebbero a seguito del mancato raggiungimento del quorum stesso - tale modifica parrebbe, infatti, da un lato accrescere 1'interesse della maggioranza a ricercare accordi con le minoranze e dall'altro, e di conseguenza, rafforzare quel carattere «oppositivo» dell'appello ai cittadini alla volontà parlamentare, che la maggior parte della dottrina tendeva a considerare come, non solo normale, ma costitutivo del referendum medesimo.
L'introduzione di un quorum di validità del referendum - allorché vi sia un consistente numero di elettori che non è comunque interessato o disposto a recarsi alle urne - è, insomma, ragionevole ipotizzare che si dimostri una soluzione abbastanza efficace, se non per eliminare, quantomeno per contenere la tentazione (propria di ogni maggioranza) - e oggi sempre più forte dopo 1'introduzione di un sistema elettorale (prevalentemente) maggioritario - di cambiare, in maniera unilaterale, la Carta costituzionale. È, cioè, ragionevole ipotizzare che una simile modificazione costituisca un limite, anche se non insuperabile, al potere delle maggioranze di governo di approvare leggi di revisione costituzionale senza aver raggiunto un accordo con le opposizioni, e, poi, eventualmente, chiedere, esse stesse, proprio per sopperire alla mancanza di accordo, una conferma della bontà delle scelte effettuate (com'è avvenuto in occasione dell'approvazione della legge costituzionale n. 3 del 2001).

Lo stesso risultato - occorre però sottolineare - lo si sarebbe potuto conseguire ugualmente, e meglio, attraverso un'altra soluzione: innalzando il quorum deliberativo in seconda lettura, alla stregua di quanto prevedono molte Costituzioni democratiche europee. La Costituzione belga, ad esempio, all'articolo 195, prevede che la revisione sia approvata a maggioranza dei due terzi dei votanti e che siano presenti i due terzi dei componenti; in maniera analoga, la Costituzione austriaca, all'articolo 44, prescrive che le leggi costituzionali siano approvate da almeno i due terzi dei votanti; la Costituzione tedesca, all'articolo 79, prevede che la Legge fondamentale possa essere modificata solo da una legge costituzionale che abbia ottenuto l'assenso dei due terzi dei membri del Bundestag e dei due terzi dei votanti del Bundesrat; la Costituzione spagnola, agli articoli 167 e 168, prescrive il raggiungimento di maggioranze di due terzi dei componenti per le revisioni totali e per le revisioni della prima parte, e di tre quinti di ciascuna delle Camere - o eventualmente dei due terzi del Congresso - per le revisioni parziali della seconda parte.
Altre Costituzioni poi prevedono anche uno scioglimento intermedio delle Camere, o tra la fase dell'iniziativa e quella della deliberazione o tra la prima e la seconda lettura, separando così - forse non senza una qualche saggezza - la decisione sulla necessità di procedere alla revisione dalla decisione sul contenuto delle nuove norme: è questo il caso, ad esempio, della Costituzione greca.

Lasciando da parte il modello greco, che peraltro è adottato con formulazioni diverse anche in Belgio e nei Paesi Bassi, i pregi di questa diversa soluzione, ovvero di un mero innalzamento del quorum deliberativo, sono essenzialmente due: da un lato, quello di non contribuire ad alimentare ulteriormente un atteggiamento di astensione da parte del corpo elettorale - come invece rischia di fare la semplice introduzione di un quorum di validità - e dall'altro quello di scongiurare il rischio che alla logica (propria della democrazia rappresentativa) della mediazione e della sintesi, del et-et, si sostituisca la logica (propria della democrazia referendaria) del vincitore e dello sconfitto, del aut-aut. Una logica, quest'ultima che non è capace di soddisfare le esigenze del pluralismo e di rendere possibile 1'assunzione di scelte «a somma positiva» nelle quali tutti possono guadagnare qualcosa; una logica o, meglio, un sistema di decisione che appare di conseguenza il meno adatto per procedere alla definizione di regole che siano percepite come il risultato di un ampio confronto e del reciproco riconoscimento delle ragioni altrui, quali dovrebbero essere, com'è noto, le regole costituzionali.

Da questo punto di vista, la seconda modificazione che l'articolo 41 del disegno di legge approvato dal Senato prevede di apportare al vigente procedimento di formazione delle leggi costituzionali - vale a dire 1'abrogazione dell'ultimo comma dell'articolo 138 della Costituzione - appare criticabile.

Se tale modificazione diverrà efficace, qualora una legge costituzionale sia stata approvata dai due terzi dei componenti, sarà possibile attivare una consultazione popolare non gravata da alcun onere di partecipazione. Il raggiungimento di un ampio accordo tra i rappresentanti non sarà, cioè, più in grado di precludere lo svolgimento di una consultazione dei cittadini e, quindi, di assicurare 1'immediata entrata in vigore della relativa legge di revisione costituzionale, ma sarà in grado soltanto di escludere che l'eventuale astensione popolare assuma un qualche automatico significato giuridico.

A prima lettura, 1'introduzione della possibilità di referendum potrebbe forse apparire come un tentativo per ulteriormente aggravare il procedimento di revisione, e così ulteriormente garantire la rigidità della Costituzione. In realtà, l'effetto che una tale modificazione dell'articolo 138 Costituzione potrebbe determinare è l'esatto contrario.
Essendo sempre possibile chiamare i cittadini al voto, diventa sempre possibile - come si è appena ricordato - che alla logica della mediazione e della sintesi, si sostituisca, appunto, la logica del vincitore e dello sconfitto.

Se si volesse attribuire ai cittadini la possibilità di opporsi anche alle scelte del Parlamento assunte ad amplissima maggioranza, senza però nel contempo correre il rischio di vanificare 1'importanza e il valore del risultato di un simile processo di integrazione politica, sarebbe allora forse opportuno prevedere, in tale ipotesi, più che un quorum di carattere procedurale, un quorum di carattere, per così dire, sostanziale e di segno opposto a quello ipotizzato dall'articolo 41 del disegno di legge in esame, tale per cui la deliberazione parlamentare che sia stata votata da più dei due terzi dei componenti le Camere possa essere «abrogata» dal corpo elettorale solo se si pronuncia contro di essa, in maniera esplicita, una maggioranza qualificata dei cittadini aventi diritti al voto.
In ogni caso, al di là di questi ultimi rilievi, e della possibilità di immaginare soluzioni più convincenti, se fossi chiamato a esprimere un giudizio sull'articolo 41 del disegno di legge ora all'esame di codesta Camera, considerato in sé e per sé, tenderei ad esprimere un giudizio tutto sommato positivo.

Ma - e qui sta l'aspetto più problematico - è davvero possibile esprimere un simile giudizio senza considerare le altre disposizioni che sono contenute nel medesimo progetto di riforma? È insomma possibile esprimere un giudizio su di una modifica che, in ultima analisi, aggrava il procedimento di revisione, prescindendo da un giudizio sul contenuto delle norme costituzionali che tale modifica finirebbe in concreto per garantire?
In presenza di un sistema elettorale che tende a costituire artificialmente in seno al Parlamento delle maggioranze di governo sempre più consistenti, l'esigenza di aggravare il procedimento di revisione, e, in particolare, l'esigenza di fare in modo che le regole costituzionali vengano definite attraverso la logica della mediazione e della sintesi è, a mio parere, un'esigenza reale. Ma è, senza dubbio, un'esigenza altrettanto reale far sì che un irrigidimento procedurale delle regole costituzionali avvenga in relazione a regole costituzionali, che siano non solo capaci, dal punto di vista del loro contenuto, di garantire nel contempo decisione e rappresentanza, e quindi effettivo esercizio dei diritti di libertà, di uguaglianza e di partecipazione, ma soprattutto siano ampiamente condivise.
Ed ecco allora che ci si trova ancora una volta di fronte a un paradosso, per certi aspetti simile a quello evidenziato dal grande teorico del pluralismo Ernst Fraenkel, ai tempi della Repubblica di Weimar: quasi tutte le forze politiche concordano sulla astratta necessità di rendere le norme costituzionali più difficili da modificare da parte delle maggioranze di governo, ma ciascuna maggioranza di governo è disponibile a introdurre tale aggravamento della procedura di revisione solo dopo aver proceduto a modificare unilateralmente la Costituzione medesima. Insomma, vi è accordo sulla necessità di riaffermare il carattere rigido della Costituzione, ma vi è disaccordo sui contenuti sostanziali che il carattere della rigidità dovrebbe appunto garantire.

Individuare una soluzione tecnico-giuridica che riesca a risolvere il dilemma e a creare le condizioni di un doppio accordo - sulla «forma» e sulla «sostanza» - è assai difficile.
Del resto, il diritto costituzionale - inteso come limite al potere, in tutte le sue diverse manifestazioni, politiche, economiche e culturali, e dunque come garanzia del fondamentale diritto di condurre un'esistenza libera e dignitosa - vive e si consolida solo se le diverse forze politiche e sociali si riconoscono nei suoi principi di fondo e praticano un atteggiamento di costante ricerca di unità.

Tuttavia, se la maggioranza che al Senato ha votato a favore del disegno di legge costituzionale qui in esame deciderà anche alla Camera e nelle successive deliberazioni di non prestare ascolto né alle proposte delle opposizioni, in maniera tale da soddisfare quella fondamentale esigenza di confronto e di ricerca di unità sulla quale ho più volte insistito, né alle critiche che molti studiosi indipendenti hanno avanzato, sarebbe allora forse auspicabile che l'articolo 41 venisse stralciato o, quantomeno, che i cittadini venissero posti nella condizione di esprimere il proprio giudizio sulla proposta di riforma in maniera libera e dunque articolata, senza essere cioè costretti a pronunciarsi con un solo voto su di una pluralità di disposizioni tra loro palesemente eterogenee, come, d'altra parte, numerosi autori ritengono che l'articolo 138 della Costituzione comunque sempre imponga.


 

SEDUTA DEL 21 MAGGIO 2004

Umberto Allegretti, professore ordinario di diritto pubblico presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Firenze.

 

UMBERTO ALLEGRETTI, Professore ordinario di diritto pubblico presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Firenze.

Sul disegno di legge C. 4862, già approvato dal Senato, le mie considerazioni sono ispirate soprattutto da un criterio di coerenza applicato all'esame del testo; l'intenzione è di accertare se il modello adottato - a prescindere, poi, dalle valutazioni del Parlamento circa la scelta tra i modelli di fondo - si presti a rilievi circa la coerenza interna e la coerenza - ma in tal caso, naturalmente, si entra un po' anche negli aspetti legati al confronto dei modelli - con il sistema complessivo.

Nelle note che mi è stato gentilmente chiesto di lasciarvi, mi soffermo alquanto sul tema della forma di Governo e più brevemente su alcuni altri punti. Per economia dei tempi, però, nell'esposizione orale, vorrei soprattutto svolgere osservazioni riguardanti essenzialmente il modello di Senato adottato ed il suo funzionamento.

Nel testo del provvedimento, il Senato viene denominato federale; a tale proposito, mi sembra sorgano alcuni aspetti critici circa la pertinenza della qualifica ed il modo nel quale i congegni rendano o meno federale tale organo.

I modelli di Senato federale noti, essenzialmente, esemplificando - infatti a livello di diritto comparato si registrano molte varianti - sono due. Quello più antico, che mette capo al sistema americano e a quello svizzero, vede la presenza in Senato di rappresentanze che, pur elettive - dopo le riforme che tutti e due questi assetti hanno sperimentato -, sono rese partecipi del carattere federale attraverso la parità dei membri espressi (per quanto riguarda gli Stati uniti, ogni Stato esprime due membri). L'altro modello, più recente e più diffuso, si rinviene in Germania ed in Austria, paesi che ne offrono due varianti ma con una similarità di fondo legata al fatto che, in tal caso, sono rappresentati direttamente i territori attraverso le istituzioni di livello regionale (i Länder, ad esempio).

Il modello adottato dal testo senatoriale non corrisponde a nessuno di questi due testé descritti. Certo, di per sé, ciò non è rimarchevole in quanto non si tratta di dover seguire pedissequamente altri sistemi; tuttavia, il problema risiede nel verificare se vi siano altri congegni che consentano di raggiungere lo scopo identificato, quello di dare una rappresentanza ai territori. Ebbene, nel disegno di legge, tali istituti sono soprattutto offerti da strumenti collaterali, atteso il dato di un Senato elettivo. Tra gli altri, i requisiti di eleggibilità dei senatori; ma questi non mi sembra, francamente, che possano dar luogo ad una rappresentanza reale dei territori.

Certamente - come è stato notato da tanti - non è sufficiente in tal senso la pura residenza nella circoscrizione regionale dell'eletto, ma neanche, evidentemente, l'essere stati o l'essere senatori o deputati; ciò, se mai, dà luogo ad una rappresentanza nazionale, rappresentanza fino a quel momento interpretata da questi eleggibili. Quanto al requisito costituito dall'essere stati consiglieri regionali e locali, in tal caso il legame è puramente di formazione personale; insufficiente anch'esso a garantire una rappresentanza reale del territorio. Neanche se si trattasse di consiglieri in carica, il requisito potrebbe essere bastevole; essendo un elemento di tipo casuale, manca una investitura reale di rappresentanza tra l'ente e colui che, pure, ha fatto o fa parte ancora dell'ente. Meno ancora, evidentemente, possono funzionare ad uno scopo effettivo, almeno a mio avviso, i rapporti di informazione e collaborazione tra senatori ed organi regionali, anche perché le audizioni sono facoltative. Esse possono essere richieste dall'organo che, in tal senso, non ha però un potere autoritativo relativamente alle convocazioni.

Infine, la contestualità delle due elezioni è il punto più sottolineato, quello dal quale dovrebbe venire la garanzia di rappresentanza; però, a mio avviso, da tale circostanza, considerata con riferimento al sistema italiano, alla nostra esperienza continuativa - che proseguirà, gravando anche per il futuro - ed alla struttura propria della maggior parte dei partiti italiani, si deve inferire che l'effetto di trascinamento sarà piuttosto svolto dall'elezione senatoriale rispetto a quella dei consiglieri regionali (la subordinazione della scelta locale rispetto all'esigenza della contestuale elezione nazionale) e non viceversa. Tanto più che una verifica molto chiara di ciò si ravvisa in uno «schiacciamento», addirittura un po' paradossale, che avviene in caso di anticipato scioglimento. Se il Senato è regionale o federale, come si può pensare che una legislatura regionale - nel caso di scioglimento del Consiglio e di rielezione - venga a termine prima per garantire la contestualità con l'elezione senatoriale? Ciò rappresenta proprio la subordinazione delle elezioni locali all'elezione del Senato; se mai, si potrebbe pensare al sistema contrario, far decadere i senatori eletti nella singola regione nel momento in cui vi sia uno scioglimento del Consiglio regionale e una conseguente rielezione. Mi parrebbe più razionale, se il modello deve garantire - come anche lei ha detto, signor presidente, nella relazione che ho appreso dai resoconti - una valorizzazione, evidentemente, della dimensione regionale, raccordata con quella centrale. Dunque, in conclusione, al di fuori di una possibile rappresentanza diretta dei territori, non vi sono o, almeno, non sono stati trovati finora dei sistemi effettivi di rappresentanza regionale.

Quali sono - e al riguardo si entra nel confronto tra i modelli - i fini di un modello di Senato federale o regionale? I fini dovrebbero essere garantire la promozione e la valorizzazione delle autonomie - senza dubbio; ciò è chiaro per tutti - ma garantire nel contempo l'unità nazionale. Portando le regioni nella composizione di un organo centrale, dovrebbe essere meglio assicurata la possibilità per le regioni di farsi carico - reciprocamente e con lo Stato - dei problemi nazionali e, quindi, evitare le fughe verso posizioni di tipo separatista (quali che siano) e antisolidarista. Quindi, il fine di unità non è meno importante di quello di promozione delle autonomie, in un Senato autenticamente federale; come pure, la solidarietà tra le regioni (terzo aspetto) è un fine che impone che il Senato stimoli la reciproca cooperazione tra le regioni: il Senato deve costituire, appunto, un organo centrale nel quale ciò avvenga, senza che tutta questa serie di confronti si disperdano in commissioni varie e in rapporti esperiti unicamente con il Governo, come avviene a tutt'oggi. Allora, mi pare che tali fini - e inevitabilmente, al riguardo, si raggiungono i limiti del modello - possano essere perseguiti sensatamente soltanto attraverso rappresentanze territoriali dirette, ovvero elette direttamente dalle regioni, costituite di persone che siano in carica presso le regioni (e quindi garantiscano la piena compresenza delle due componenti, locale e nazionale, nel nuovo Senato). Gli strumenti si trovano, come dimostra il funzionamento soprattutto del Bundesrat tedesco; meno positiva è l'esperienza del Bundesrat austriaco. Non è il caso in questo momento di esaminarne le ragioni, ma una riflessione sui due modelli e, soprattutto, sull'esperienza italiana, mi pare possa aiutare a trovare una formula adeguata.

Però, sorge l'ulteriore quesito: il modello di Senato di cui al testo del disegno di legge, se non raggiunge o non può raggiungere i fini di cui abbiamo parlato, a quali altri fini viene creato? A me pare che l'intento sia quello di costruire un organo di contrappeso: certamente, di contrappeso rispetto al centralismo nei confronti delle autonomie, come emergerà subito, non appena verrò a trattare l'argomento delle funzioni; più in generale, però, di contrappeso al continuum Camera dei deputati-Governo.

A mio avviso, si deve parlare di contrappeso, e non di garanzia; infatti, signor presidente, a volte si parla del Senato come organo di garanzia ma gli organi politici, proprio perché politici, difficilmente sono di garanzia in senso proprio. Tuttavia, la garanzia può essere il prodotto di contrappesi e di un bilanciamento tra diversi organi.

Allora, il disegno di legge mostra di considerare questa funzione di contrappeso sia appunto nei confronti del tema centro-periferia, sia nei confronti della disciplina dei diritti fondamentali civili e politici, sia, anche, conferendo al Senato alcuni poteri relativamente all'elezione dei membri parlamentari della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura.

Al riguardo vi sono alcune osservazioni da svolgere sulle formule adottate, che in alcuni casi mi sembrano prestino il fianco a critiche sulla loro incongruenza. Ad esempio, quando si tratta la materia delle competenze della legge bicamerale, a mio avviso il contrappeso più naturale sarebbe la partecipazione del Senato al processo di legislazione su un livello di parità con la Camera, (infatti sono previste leggi bicamerali). Fra tali leggi bicamerali, però, alcune sono indubitabilmente giustificate nella formula e non sollevano problemi o critiche particolari. Ne mancano però alcune importanti, penso ad esempio alla determinazione dei livelli essenziali dei diritti, a norma dell'articolo 117, secondo comma, della Costituzione, lasciata alla legge unicamerale della Camera dei deputati perché rientrante fra le competenze esclusive dello Stato.

Questa determinazione dei livelli essenziali, trasversale rispetto alle competenze regionali, chiama in causa indubbiamente la necessità di un contrappeso rispetto ad indirizzi troppo centralistici. E quindi mi parrebbe abbia vocazione ad essere oggetto di legge bicamerale.
L'esame della legge finanziaria e della legge di bilancio, poi, rappresenta una delle sedi classiche in cui, nell'esperienza italiana, avviene spesso uno svuotamento delle leggi regionali con la prevalenza di elementi centralistici. Di ciò si è dato carico il disegno di legge in oggetto, ma solo nelle norme transitorie, che non credo siano sufficienti. Infatti, il criterio per stabilire il momento in cui la legge di bilancio e la legge finanziaria saranno unicamente delle leggi unicamerali della Camera dei deputati è ancorato a presupposti molto discrezionali e incerti (non nel quando ma nel merito). Quand'è che si potrà dire che vi sarà una piena attuazione dell'articolo 119 della Costituzione in riferimento al rispetto del cosiddetto federalismo fiscale? Non mi sembra sufficiente allora, demandare ciò ad una norma transitoria. Sebbene nell'esperienza tedesca ciò non avvenga, mi sembra che, a regime, nel caso italiano, ci si dovrà porre il problema se legge di bilancio e legge finanziaria debbano essere leggi bicamerali.

Vi è poi un altro aspetto da evidenziare, inerente alle leggi che riguardano la disciplina dei diritti fondamentali, civili (anche politici visto che si parla di elezioni) e la libertà di concorrenza che secondo il disegno di legge sono destinati a leggi bicamerali. Rileva però una certa sovrapposizione. Ed inoltre perché non vengono citati i diritti sociali? Che siano considerati dei diritti minori? Questo problema presenta comunque diverse sfaccettature politiche in cui non mi addentro. La libertà di concorrenza è invece promossa a libertà fondamentale: solo questa e non anche i diritti sociali? In uno Stato con disposizioni sociali come quelle della parte prima della nostra Costituzione (che rimangono intatte) questo mi sembra un aspetto problematico. È chiaro che al riguardo - lo ripeto - rilevano molte valutazioni politiche.

Tecnicamente in materia di diritti civili fondamentali esiste una certa sovrapposizione con la formula dell'articolo 117, per cui quando si tratta dei livelli essenziali di tali diritti, nei confronti della legislazione regionale emerge una competenza unicamerale della Camera dei deputati. Queste due formule vanno messe d'accordo, altrimenti non funzioneranno e daranno luogo ad innumerevoli difficoltà.

La legge unicamerale del solo Senato, come saprete, è di notevole ampiezza, visto che riguarda tutte le leggi recanti la fissazione dei principi fondamentali per la legislazione regionale. Mi pare eccessiva la potestà concessa al Senato da questo modello. Anzitutto perché si tratta di problemi che implicano una piena valutazione politica nel rapporto tra centro e autonomie in merito a quali debbano essere i principi. Che non venga interessata in maniera decisiva anche la Camera, cui è destinato solo un diritto di richiamo, mi sembra davvero poco.

Vi è poi il problema, rilevato da più parti, della non piena coerenza con il modello del rafforzamento del Governo e del primo ministro. In tal caso il Governo, non essendoci un rapporto di fiducia e non essendoci la potestà di scioglimento del Senato, si troverebbe in una situazione di inferiorità su un terreno molto importante.

Certo, il disegno di legge, nella elaborazione ultima del Senato, ha previsto il potere del Governo di porre una sorta di fiducia alla Camera che, come conseguenza, rende in qualche modo bicamerali anche queste norme. Ma si tratta di un modello ancora limitato a casi specifici. E forse è troppo impegnativo perché pone in questione, in ultima analisi, la possibile fiducia della Camera al Governo. Mi sembra eccessivo, casuale e difficile da sperimentare. Credo piuttosto che questo sia un altro terreno in cui intervenire con leggi bicamerali. Del resto, non constano in diritto comparato (anche se ciò non è decisivo) casi in cui si manifesti una superiorità del Senato rispetto all'altra Camera.
In tema di Corte costituzionale ritengo complesso aumentare, fino al livello previsto nel testo in oggetto, la rappresentanza politica nella Corte. Con sette membri su quindici eletti dal Senato e con la diminuzione dei membri provenienti dalla magistratura o eletti dal Capo dello stato, mi sembra si dia luogo ad una eccessiva politicizzazione della Corte. Questo a fronte delle tendenze esistenti di affermare che la Corte debba mantenersi nei suoi limiti.
Estromettere la Camera dall'elezione dei membri della Corte costituzionale mi sembra poi sia veramente troppo. La Camera nazionale deve necessariamente recitare una parte nella nomina dei membri della Corte costituzionale di estrazione parlamentare.
Manca in questo progetto una norma su un tema che rientra fra quelli problematici del nostro sistema: la tutela giurisdizionale avverso le decisioni delle due Camere sui titoli di ammissione dei loro membri, sulle ineleggibilità e sulle incompatibilità. In questi casi è ipotizzabile invece un ricorso alla Corte costituzionale come previsto da molti sistemi.
Per quanto riguarda l'articolo 117, primo comma, della Costituzione, in merito alla soppressione degli obblighi internazionali, come vincolo della legge sia statale sia regionale, so quali siano i problemi presenti nella formula attuale, che non può essere difesa in toto. Ad esempio vi sono accordi puramente detti esecutivi, accordi semplificati stipulati dal Governo oppure accordi in violazione dell'articolo 80 della Costituzione, che oggi vincolano la legge statale, a meno che non si adotti una interpretazione sensata ma un po' difficile dell'attuale norma.

Una delimitazione delle ipotesi previste all'articolo 117 della Costituzione potrebbe essere quella di fare riferimento ai trattati ratificati dalle Camere o comunque regolarmente approvati secondo la procedura prevista ed evitare così che il Governo possa, magari con procedure non legali, porre le Camere di fronte ad un vincolo. Più di così non mi sembra sia possibile. Ritengo invece che escludere gli obblighi internazionali dai vincoli della legge significhi compiere un passo indietro rispetto a quella cooperazione internazionale che nell'ambito del processo di globalizzazione tutti sostengono essere un punto centrale dell'evoluzione dei nostri sistemi.

 

PRESIDENTE. La ringrazio. Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per chiedere chiarimenti.

 

CARLO LEONI. Nel ringraziare il professor Allegretti per il suo intervento chiedo quale sia la sua opinione sul rafforzamento, o ulteriore rafforzamento dei poteri del premier. Lei ritiene che vi sia una oggettiva necessità di qualche forma di rafforzamento di tali poteri? E come giudica in questa materia il testo che ci giunge dal Senato?

 

GIANCLAUDIO BRESSA. Anch'io mi unisco ai ringraziamenti al nostro ospite. È del tutto evidente che quel test di coerenza richiamato dal professore nel suo intervento non viene superato dal testo approvato al Senato. A mio avviso il modello più adeguato e funzionale per una Camera federale è quello del Bundesrat, che però, a causa di problemi politici, più difficilmente può essere accolto dai nostri colleghi senatori.
Forse, varrebbe la pena di ragionare sul modello di tipo elettivo svizzero o statunitense. Mentre mi è chiaro che anche per un possibile modello italiano la parità delle rappresentanze territoriali potrebbe essere una garanzia, vorrei conoscere la sua opinione relativamente alle funzioni che questo Senato federale paritario potrebbe avere in Italia, posto che è difficile immaginare una assimilazione coerente con i poteri del senato statunitense.

 

CARLO TAORMINA. Credo che al professor Allegretti, così come ai professori che interverranno successivamente, dobbiamo chiedere chiarificazioni di carattere tecnico e non scelte politiche che non appartengono alla loro funzione. Concordo pienamente con il professore Allegretti sui poteri eccessivi spettanti al Senato delle regioni con riferimento al problema dei contrasti tra legge regionale e legge dello Stato o a quello della nuova composizione della Corte Costituzionale. Ciò determina le conseguenze indicate dal professore relativamente, in particolare, alla politicizzazione che determinerebbe sia la decisione sul rapporto tra legge regionale e legge dello Stato sia la decisione riguardo la Corte Costituzionale.

Mi pare che la relazione del professor Allegretti sia stata più distruttiva che costruttiva; vorrei pertanto concentrarmi maggiormente sul secondo aspetto. I criteri utilizzati dal testo normativo, analizzati per proporre le sue rilevazioni, a proposito della rappresentatività territoriale del Senato delle regioni, sono stati ritenuti insufficienti dal professore Allegretti. Egli ci ha parlato di casualità dei criteri attraverso i quali si accede al Senato delle regioni; se così fosse, effettivamente la rappresentatività territoriale sarebbe fortemente in crisi. Quale dovrebbe essere, allora, l'elemento decisivo per assicurare il raccordo tra territorio e Senato delle regioni?

A proposito dell'osservazione fatta sull'articolo 57, comma 7, della nuova Costituzione così come verrebbe modificata dal disegno di legge in questione, riguardante le possibilità di interpello sia da parte del Senato delle regioni, sia da parte delle regioni e sia da parte dei rispettivi appartenenti, è vero che in questo caso vi soltanto è un riferimento all'obbligo di essere sentiti, ogni volta che lo richiedono l'uno o l'altro. Tuttavia, mi pare di capire che il disegno di legge si preoccupa di stabilire i casi obbligatorietà, senza escludere che, a prescindere poi dalle modalità di attuazione, per altre ragioni l'interpello possa intervenire in termini ulteriori alle situazioni elencate, sulle quali non è possibile derogare dall'audizione e dal controllo.

Il professore Allegretti ravvisa una difficoltà di individuare in questo Senato, così come disciplinato dal disegno di legge costituzionale, una compatibilità con i fini che il disegno stesso individua. A me è parso di capire che le osservazioni fatte dal professore, tutte penetranti e degne della massima considerazione, riguardino la struttura piuttosto che le finalità istituzionali dell'organo che dovrebbe essere istituito. Se fosse vera la mia valutazione, probabilmente frutto di una non puntuale consapevolezza, allora perché il professore rimarrebbe perplesso rispetto alla possibilità del raggiungimento del fine istituzionale? Una volta eliminate anche le incoerenze interne alle quali faceva riferimento il professore, quali sono gli strumenti tecnici interni al modello affinché si possa raggiungere la finalità che il disegno di legge costituzionale persegue?
Quando il professor Allegretti parlava della legge di bilancio e della legge finanziaria avrà certamente tenuto conto del fatto che nel comma 3 dell'articolo 70 vi è un riferimento specifico ad alcuni aspetti che implicano la bicameralità. Tale comma, infatti, testualmente dispone: «La funzione legislativa dello Stato è esercitata collettivamente dalle due Camere per l'esame dei disegni di legge, anche annuali, concernenti la perequazione delle risorse finanziarie e le materie di cui all'articolo 119». Certo, non vi è alcun riferimento alla legge di bilancio, ma le implicazioni relative al federalismo fiscale non potrebbero in qualche modo attenuare la critica che il professor Allegretti ha formulato al riguardo?
Infine, a proposito dei cosiddetti diritti sociali di cui nel disegno di legge non vi sarebbe una sufficiente considerazione, faccio presente che esso richiama all'interno di determinati valori i diritti fondamentali, non i diritti civili, disciplinati dagli articoli 13 e 21 della Costituzione. Quando il professore Allegretti parla dei diritti sociali, su quali ritiene che dovremmo appuntare la nostra attenzione modificativa rispetto al testo pervenutoci dal Senato? A che cosa si riferisce?

 

PRESIDENTE. Prima di lasciare la parola al collega Boato vorrei ricordare a tutti i commissari una decisione presa in sede di ufficio di presidenza: il limite massimo di tempo fissato per ciascuno di noi per porre domande o chiedere chiarimenti è di tre minuti.

 

MARCO BOATO. Mi permetto di dissentire dal collega Taormina sul fatto che vi possa essere una distinzione così rigida tra l'aspetto tecnico e l'aspetto politico quando si parla di forma di governo o forma di Stato. Ovviamente alla fine è il Parlamento a decidere, ma le audizioni vengono fatte proprio per ascoltare dei pareri autorevoli che il Parlamento deciderà come utilizzare.

Vorrei chiedere al professor Allegretti di approfondire l'aspetto riguardante la composizione del Senato. Condivido l'obiezione del professore sul fatto che il tipo di contestualità affievolita subordina il sistema delle autonomie regionali al Senato e non viceversa.
Ha fatto poi un accenno alla possibilità di introdurre l'ipotesi che lo scioglimento delle regioni comporti anche la revoca del mandato dei senatori eletti contestualmente. Tuttavia, ha fatto anche un altro accenno all'ipotesi alternativa secondo cui i senatori dovrebbero essere eletti dalle regioni e fra coloro che sono in carica al loro interno. Lei sa che in questo caso esistono due ipotesi diverse: una riguarda l'aspetto della rappresentatività, cioè i consiglieri regionali, l'altra gli esecutivi regionali. Volevo chiederle se abbia un'idea più precisa al riguardo.

Ho qualche perplessità su una questione e per questo le chiedo anch'io, come il collega Taormina, sia pure sotto un profilo diverso, di approfondirla: l'ipotesi di inserire a pieno titolo tra le leggi bicamerali anche quelle che riguardano la manovra di bilancio inerisce, in competenza paritaria tra Camera e Senato, alla principale materia dell'indirizzo politico di Governo. Tuttavia, per quanto riguarda la Camera il rapporto fiduciario, sia pure in modo anomalo, esiste; per quanto riguarda il Senato tale rapporto non c'è, così come non è prevista alcuna possibilità di scioglimento del Senato, che, invece, nel disegno originario del Governo era presente.

 

PRESIDENTE. Do ora la parola al professor Allegretti per la sua replica.

 

UMBERTO ALLEGRETTI, Professore ordinario di diritto pubblico presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Firenze. Per quanto riguarda il rafforzamento del premier, la linea è comprensibile ma sembra eccessivo per due aspetti. In primo luogo, è addirittura superfluo perché il sistema sta raggiungendo - sia pur gradualmente nelle ultime due legislature, in particolare nell'ultima - una situazione che, di fatto, è quella che, più o meno, si vorrebbe garantire con norme formali manifestando ancora una volta il fatto che la forma di Governo parlamentare è elastica e si presta, secondo l'assetto dei partiti e il rapporto tra gli stessi, ad un diverso modo di funzionare. Indubbiamente, il nostro sistema aveva dato luogo ad un funzionamento insoddisfacente per l'eccessiva instabilità e la poca capacità decisionale dei governi, ma oggi, attraverso le modifiche della legge elettorale e una serie di prese di coscienza all'interno delle coalizioni e fra le coalizioni, si sta raggiungendo una situazione che, di fatto, non ha bisogno di norme formali, tali norme aggiungerebbero un irrigidimento eccessivo al sistema. La forma di Governo parlamentare ha il suo pregio maggiore nel fatto di accompagnare l'evoluzione delle situazioni sociali e politiche. Se si irrigidisse con un eccesso di norme formali che non sono presenti in quasi nessuno dei sistemi, si rischierebbe, di fronte all'evolversi delle situazioni, di avere da una parte o dall'altra una forma di Governo, costretta dalle norme costituzionali, non rispondente alla realtà.
Inoltre, questa serie di rafforzamenti del premier è eccessiva, in particolare, rispetto all'automatismo della fiducia. Ho visto che nella relazione del vostro relatore su questo punto c'è una lettura diversa, perché si potrebbe anche interpretare che nell'articolo 94 ci sia un richiamo implicito all'articolo 88 e, quindi, la possibilità di sostituire il premier, entro un certo termine, ad opera della stessa maggioranza anche nel caso di votazione di sfiducia. Tuttavia, la lettura più corrente è che in quel caso c'è l'automatismo, norma che sembra eccessiva; infatti, in Inghilterra e in Germania, che sono le forme di Governo parlamentare più assestate, non c'è questa rigidità.

La questione della nomina dei ministri esiste in alcuni sistemi e in Italia qualche volta è stato utile che ci fossero, sia pur eccezionalmente, osservazioni del Presidente della Repubblica rispetto alla nomina di un ministro: indubbiamente su questo si può discutere.
Un'ulteriore questione riguarda il fatto di delimitare in maniera troppo formale l'idea - sicuramente da tenere presente nella fisiologia del sistema parlamentare - che sia lecito non cambiare maggioranza ma tornare alle elezioni. Anche in questo caso, in una nozione di maggioranza che non è chiarissima, mi pare sussista un eccesso di irrigidimento della normativa.
L'onorevole Bressa chiedeva, una volta rilevato concordemente che il modello Bundesrat non trova praticabilità, se si possano adottare alcuni aspetti del modello elettivo, prendendo anche esempio dal modello USA. Recentemente tale modello non è stato studiato molto bene (depositerò due studi fatti negli anni scorsi sulla questione del Senato); l'indagine più penetrante sul Senato USA mi pare sia quella dello studioso Dehousse. Oggi il Senato degli Stati Uniti è pienamente nazionalizzato, più ancora - si dice - della Camera dei rappresentanti, nella quale non c'è la rappresentanza diretta degli Stati ma, almeno, degli interessi locali non filtrati dalle istituzioni dello Stato. Tutto ciò è più presente nella Camera che nel Senato, il quale partecipa alla grande politica nazionale, in particolare a quella estera.
Questo rivela che, quando i sistemi passano dalla forma di rappresentanza degli enti territoriali alla rappresentanza elettiva, come quelli degli Usa e della Svizzera, è molto difficile ancorare il Senato ad un ruolo di valorizzazione e di interpretazione delle esigenze locali. Quindi, è molto difficile lavorare all'interno dell'ipotesi elettiva. Quale raccordo si può pensare? Semmai, gli eleggibili dovrebbe essere consiglieri o elementi di giunta regionali perché, allora, sarebbe garantita la compartecipazione alle due cariche. Quindi, credo che solo la compresenza nella stessa persona di due mandati contestuali - uno regionale e l'altro nazionale - possa assicurare che ci sia davvero la rappresentazione degli orientamenti locali. Abbiamo già tanti esempi di elementi che hanno fatto carriera politica negli enti locali al massimo livello e poi, pur portando una certa esperienza di regionalismo all'interno del Parlamento, sono stati travolti dal gioco nazionale, che in Italia e nella nostra tradizione è molto stratificato (tradizione che non disprezzo affatto perché è quella di uno Stato unitario che, a mio parere, è bene che rimanga tale).

Mi pare che il bilanciamento fra le due esigenze potrebbe essere raggiunto solo se esistesse la contestualità delle cariche; questa è l'ipotesi che scaturisce anche dagli studiosi del sistema americano.

 

CARLO TAORMINA. Il consigliere regionale anche senatore?

 

UMBERTO ALLEGRETTI, Professore ordinario di diritto pubblico presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Firenze. Naturalmente esistono alcune difficoltà di compatibilità effettiva del lavoro che in Germania sono state risolte; non so se si avrà la capacità di lavoro dei tedeschi e la loro capacità di programmazione rigida delle sedute.

 

CARLO TAORMINA. Se dovesse rimanere la previsione attuale per cui nel conflitto tra legge regionale e legge dello Stato è il Senato federale a decidere, avremmo un rapporto di identità tra il controllore ed il controllato dal punto di vista della rappresentatività.

 

UMBERTO ALLEGRETTI, Professore ordinario di diritto pubblico presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Firenze. Il tema della struttura è collegato a quello delle funzioni, che non sono giustificate in quanto non possono essere di una Camera che si ispiri ad un raccordo con le regioni. Deve essere la Camera nazionale ad intervenire sull'interesse nazionale e sui principi, che sono anche la solidificazione dell'interesse nazionale. Il rapporto tra struttura e funzione è da studiare in maniera puntuale; i due elementi debbono essere risolti insieme, struttura e funzione sono strettamente legate tra loro ed agli obiettivi.

Negli studi che ho realizzato, che lascio alla Commissione, ho esaminato approfonditamente le funzioni, da me riassunte in tre (ma forse sono più di tre), della Camera regionale. Gli obiettivi manifestano la necessità di strutture di un certo tipo, non potendo essere raggiunti attraverso strutture che non siano coerenti con gli obiettivi, che - come ho detto - riguardano l'unità nazionale non meno che la promozione ed il rispetto delle autonomie.

Per quanto riguarda la disciplina con legge bicamerale dei diritti fondamentali, gli articoli sono quelli dal 13 al 21, relativi ai diritti civili (per questo motivo ho sintetizzato parlando di diritti civili). I diritti sociali, di cui reputo difficile attestare in questo modo indiretto in Costituzione il minor valore rispetto a quelli civili, sono soprattutto il diritto al lavoro, alla previdenza, alla salute e all'istruzione. In merito al diritto all'istruzione vi è un richiamo all'articolo 33, ma soltanto al sesto comma. Si tratta di un aspetto che non ho affrontato, ma nella parte sulla modifica dei poteri delle regioni vi sarebbero norme relative all'istruzione che non capisco come potrebbero intrecciarsi tra loro. Ciò è stato notato da più parti e sarà necessario considerarle nuovamente per rendere interpretabile la materia.

 

MARCO BOATO. L'istruzione è considerata nel secondo, nel terzo e nel quarto comma dell'articolo 117 della Costituzione.

 

UMBERTO ALLEGRETTI, Professore ordinario di diritto pubblico presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Firenze. Esiste, quindi, una sovrapposizione di diversi modelli non più governabile.

Quanto detto, vale anche per gli altri diritti fondamentali nella misura in cui anche essi ricadono nell'articolo 117 attraverso la legge unicamerale per i principi fondamentali. Mi chiedo, ad esempio, come si combinino l'articolo 70, terzo comma, e l'articolo 117. Non è chiaro.
Passando alle domande dell'onorevole Boato, una proposta che può essere considerata come una variante dei modelli generici ispirati al Bundesrat (nella sua versione tedesca ed austriaca) è stata presentata in Spagna ed andrà osservata attentamente. Sono in rapporto con un costituzionalista di Barcellona che ha studiato approfonditamente il tema. Penso sia possibile trovare una misura, non tanto intermedia, quanto complementare di rappresentanza dei consigli (che assicura la rappresentanza delle minoranze e, quindi, in un'ottica democratica è da salvaguardare) e delle giunte (fondamentale tanto da non aver bisogno di essere motivata), prevedendo anche esplicitamente nelle norme l'elezione di tre rappresentanti (in qualche caso un numero maggiore in relazione ad una rappresentanza ponderata delle regioni, come nel sistema tedesco), due della maggioranza ed uno della minoranza. Inoltre, il voto unitario della rappresentanza regionale, il pregio maggiore del sistema tedesco, potrebbe essere salvaguardato anche in questa ipotesi; il voto sarebbe deciso all'interno della delegazione regionale dopo una discussione tra maggioranza e minoranza.
Il modello è stato proposto in Spagna e mi sembra più consono al nostro sistema del «puro» modello tedesco, mentre il modello austriaco non va bene perché si tratterebbe di eletti dalle regioni che non devono essere consiglieri in carica. Il modello austriaco non funziona, è debole nella rappresentanza del territorio in quanto, non trattandosi di consiglieri in carica, non vi è l'elemento del duplice mandato.

Ho parlato in maniera dubitativa della manovra di bilancio; si tratta di studiare ulteriormente se il bilancio debba essere inserito tra le leggi bicamerali. Mi rendo conto che si tratta di un elemento fondamentale di indirizzo politico di Governo e questo aspetto andrebbe composto con l'altro che si trae dall'esperienza italiana, cioè che, purtroppo, è la legge di bilancio, la legge finanziaria quella in cui sono realizzati gli attacchi più virulenti alla reale forza degli enti locali, non solo delle regioni. Non credo sarebbe sufficiente una legge di coordinamento finanziario, ai sensi dell'articolo 119, che avrebbe sempre carattere molto generale.


 

Giovanni Guzzetta, professore straordinario di diritto pubblico presso la facoltà di sociologia dell'Università di Trento.

 

GIOVANNI GUZZETTA, Professore straordinario di diritto pubblico presso la facoltà di sociologia dell'Università di Trento. Ringrazio il presidente e i membri della Commissione per l'invito. Ho predisposto un testo che ho consegnato alla Commissione e che, mi sono reso conto, contiene molti refusi. Chiedo scusa per questo; sarà mia cura trasmettere un testo corretto.

Per ragioni di tempo mi soffermerò principalmente su due profili del progetto di riforma, che intendono perseguire due finalità molto importanti: stabilizzare la forma di Governo coerentemente con l'evoluzione in senso maggioritario del sistema politico e - seconda finalità del disegno di legge - completare la riforma regionale dello Stato nel senso del regionalismo cooperativo, colmando così una lacuna presente nella riforma del 2001 ed introducendo un raccordo organizzativo tra i diversi livelli di governo, realizzato mediante la creazione di un cosiddetto Senato federale della Repubblica. Vorrei sostenere alcune tesi, con riferimento a tali obiettivi.

Il primo obiettivo, quello della stabilizzazione della forma di Governo, è raggiunto, a mio avviso, anche se solo in parte; il secondo obiettivo, quello della federalizzazione della seconda Camera, viceversa, non mi pare possa considerarsi raggiunto.

Un'altra tesi che vorrei sostenere è che tra queste due circostanze, tra questi due limiti - per dire così - rischia di determinarsi una combinazione perversa, tale da precludere alcuni effetti positivi della riforma.

Per quanto riguarda il primo obiettivo, cioè la stabilizzazione del sistema politico in senso maggioritaro, la principale lacuna della riforma mi pare consista nella circostanza che la perseguita stabilizzazione istituzionale del bipolarismo si presenta come una stabilizzazione incompleta o, se volete, «zoppa». La logica bipolare - come è noto - imporrebbe che la rappresentanza politica e l'attività parlamentare siano articolate intorno alla contrapposizione tra due principali schieramenti: il primo, costituito dal blocco maggioranza-Governo-premier; il secondo rappresentato dallo schieramento sconfitto alle elezioni, il quale si propone come alternativa potenziale di Governo, attraverso la permanente esibizione di un indirizzo politico sostitutivo e concorrente con quello della maggioranza. Coerentemente con queste premesse, il disegno di legge assume che la stabilizzazione debba avvenire non solo in via politica, attraverso la spontanea convergenza e autodisciplina dei soggetti e dei partiti di ciascuna coalizione, ma che vi sia necessità di strumenti giuridico-istituzionali che rafforzino la coesione, la coerenza e la stabilità degli schieramenti.
La premessa, dunque, è che siano necessari incentivi e garanzie giuridiche per propiziare la stabilizzazione bipolare della rappresentanza. Tale obiettivo è perseguito coerentemente, a mio parere, con riferimento al blocco maggioranza-Governo-premier. Gli strumenti utilizzati sono vari e a voi noti: cito, esemplificativamente, la costituzionalizzazione del collegamento tra candidati e premier, non limitata solo al momento elettorale ma, appunto, proiettata anche nel corso della legislatura. In particolare, deve essere menzionata la cosiddetta norma «antiribaltone» di cui all'articolo 88, comma 2. A ciò si aggiunge la predisposizione di specifici poteri del Governo in Parlamento, finalizzati a consentire a quest'ultimo di disciplinare la propria maggioranza nell'attuazione dell'indirizzo politico ed un potere di scioglimento temperato, che garantisce contro tendenze centrifughe della maggioranza.
Ciò che rende la stabilizzazione «zoppa» o incompiuta, però, è la circostanza che analoghe misure di incentivo alla coesione e di rafforzamento di posizione non sono previste per l'interlocutore istituzionale della maggioranza nel sistema bipolare, cioè per l'opposizione. La coesione di quest'ultima, infatti, è rimessa sostanzialmente alla spontanea capacità di convergenza politica tra le sue componenti, mentre mancano quegli strumenti di incentivo giuridico che, invece, sono previsti per il blocco maggioranza-Governo-premier. Si tratta, in questo caso, di una soluzione che non convince, se si considera che l'opposizione non è solo lo schieramento residuale degli sconfitti ma anche il raggruppamento candidato alla successione di Governo, il quale svolge, oggettivamente, anche una funzione costituzionale, contribuendo al controllo politico sull'operato della maggioranza, spingendo il Governo ad un'assunzione pubblica e costante della propria responsabilità nell'attuazione dell'indirizzo politico e, soprattutto, contribuendo a riqualificare la funzione istituzionale del Parlamento come foro di discussione e confronto tra alternative concezioni di governo della cosa pubblica. Con riferimento a tale obiettivo, a mio avviso il disegno di legge in esame offre soluzioni, a dir poco, reticenti. Lo statuto dell'opposizione è sostanzialmente rimesso alla disciplina regolamentare, peraltro virtualmente disponibile da parte della maggioranza.
Le uniche previsioni sostanziali accolte in Costituzione non valgono a qualificare adeguatamente l'attività oppositiva in regime maggioritario. A parte la disciplina dell'elezione di un capo dell'opposizione e l'attribuzione della presidenza di talune Commissioni, l'unica disposizione di un certo rilievo consiste nel riproporre l'istituto di una riserva di spazi alle opposizioni, separati rispetto alla ordinaria attività parlamentare di attuazione dell'indirizzo politico. A tal proposito, oltre che ricordare la scarsa efficacia dimostrata da tali misure nell'esperienza trascorsa, preme sottolineare che si tratta di soluzioni non adeguate a qualificare la funzione costituzionale dell'opposizione e, cioè, la funzione di fronteggiare dialetticamente le iniziative del Governo e di mostrare all'opinione pubblica un indirizzo politico alternavo. Per svolgere tale funzione, l'opposizione ha bisogno di un ruolo da esercitare in contraddittorio, non di riserve un po' solipsistiche e spesso rituali, se mi consentite l'espressione. In un regime maggioritario, in cui all'opposizione è precluso in via generale un potere di codecisione sull'indirizzo politico, l'esigenza fondamentale da salvaguardare, infatti, è quella di ridurre la tendenza del Governo - tendenza innata in tutti i Governi - a sfuggire al rendiconto pubblico e costante delle proprie responsabilità.

Misure in grado di assicurare tale permanente contrapposizione politico-programmatica dovrebbero essere di altro tipo. A titolo meramente esemplificativo, mi limito a segnalarne alcune: la salvaguardia di un tempo congruo di reazione, per l'opposizione, alle iniziative politiche del Governo, onde predisporre la propria controffensiva mediante un'adeguata critica politica; la salvaguardia di efficaci poteri di sindacato che consentano di costringere il Governo, ed il suo premier, a giustificare, periodicamente, il proprio indirizzo pubblicamente di fronte al Parlamento (la recente vicenda del question time mi pare esemplare, in tal senso); una limitazione della possibilità della maggioranza di stravolgere, fino all'ultimo minuto, le proprie proposte, spiazzando così l'opposizione (mi riferisco, in particolare, alla prassi, attuata non soltanto nella presente legislatura, di proporre repentini maxiemendamenti con contestuale posizione della questione di fiducia, che rende per l'opposizione praticamente impossibile predisporre qualunque reazione); un ruolo privilegiato per l'opposizione nel sindacato ispettivo e nel potere di emendamento rispetto ai poteri della maggioranza parlamentare; il potere di provocare una maggiore pubblicità del dibattito parlamentare attraverso il diritto di richiedere, almeno in talune circostanze, la diretta televisiva; il potere di provocare l'istituzione di commissioni di inchiesta su iniziativa della minoranza; la dotazione di misure finanziarie; in ultimo, il riconoscimento all'opposizione di uno statuto non solo parlamentare ma anche costituzionale.
Come ricordato, l'opposizione non è solo una frazione parlamentare ma un'istituzione che concorre al buon funzionamento della forma di Governo. Mi riferisco a poteri e diritti nei rapporti con altri organi, a cominciare dal Capo dello Stato, nei rapporti con altre autorità nazionali e internazionali, nella partecipazione ad organi di garanzia o alla loro designazione e, infine, nella revisione costituzionale. A tali poteri di carattere politico, si dovrebbero inoltre aggiungere prerogative finalizzate alla garanzia della legalità nei processi parlamentari ed alla tutela giurisdizionale dei diritti.

Il tema della certezza della legalità parlamentare è di fondamentale importanza. L'idea del diritto parlamentare come diritto speciale, di fatto, spesso a disposizione della maggioranza, pone forti dubbi in un contesto in cui la dialettica non è più tra il Parlamento, che deve essere preservato, ed altre istituzioni, ma passa all'interno dell'istituzione parlamentare stessa. Si pensi ai poteri interpretativi del regolamento o alla legalità delle procedure decisionali. In questa prospettiva, dovrebbe essere perseguita, a mio parere, una ponderata apertura alla giustiziabilità, di fronte alla Corte costituzionale, dei rapporti interni alle Camere, secondo l'esempio praticato in altri ordinamenti costituzionali, a cominciare da quelli di Germania e Francia.

Un ulteriore aspetto è relativo al Senato. L'obiettivo - come ho affermato - è quello della istituzione di un Senato federale della Repubblica. Confrontando le soluzioni prescelte con l'esperienza comparata, si deve constatare che il raggiungimento di tale obiettivo appare sostanzialmente fallito. La conclusione sembra argomentabile considerando sia la composizione sia le competenze dell'organo. Quanto alla composizione, è noto che il problema della «federalizzazione» della seconda Camera si gioca intorno al modo in cui si costruisce la rappresentanza. Infatti, mentre nella Camera politica si persegue l'obiettivo di rappresentare le popolazioni, quella federale persegue la finalità di rappresentare le istituzioni federate. Nella Camera politica, dunque, sono espressi gli orientamenti politico-ideologici dei cittadini organizzati in partiti; nella seconda si persegue un diverso scopo e, cioè, dare voce agli interessi territoriali, i quali non coincidono necessariamente con le divisioni partitiche nazionanali. Insomma, i rappresentanti che siedono nella seconda Camera dovrebbero esprimere la volontà della propria collettività locale complessivamente considerata, non del partito o dello schieramento nazionale cui appartengono. È evidente, dunque, 1a differenza qualitativa tra questi due modi di concepire la rappresantanza.
La difficoltà di raggiungere tale obiettivo dipende dal fatto che, trattandosi di un organo dello Stato centrale - e il discorso vale particolarmente in un paese privo di tradizione federale come il nostro - la tendenza ineluttabile è quella verso una nazionalizzazione del conflitto dentro la seconda Camera. La tendenza è, cioè, alla riproduzione delle divisioni politico- partitiche generali. Il rischio è riscontrato persino in ordinamenti di lunga tradizione federale come gli Stati Uniti, l'Austria o la stessa Repubblica federale di Germania. Per contenere tal rischio di snaturamento della rappresentanza istituzionale degli enti, gli ordinamenti federali hanno escogitato differenti congegni, la cui applicazione è variamente modulata.

Nessuno di tali congegni è stato prescelto per il riformando Senato italiano. Non quello di assegnare un numero tendenzialmente paritario di rappresentanti a ciascun ente, indipendentemente dalla consistenza demografica degli stessi. Il progetto, infatti, non attua né il modello americano o svizzero della rappresentanza paritaria degli Stati, né quello austriaco o tedesco della bassa (3-12) o bassissima (3-6) escursione tra seggi degli enti territoriali più popolosi e di quelli meno popolosi. Da una proiezione sommaria da me compiuta, risulta che nel nuovo Senato italiano vi sarebbero regioni con un seggio (Valle D'Aosta), regioni con 7 seggi (Umbria o Friuli) e regioni con 22 seggi (Lombardia).

Lo stesso discorso vale per gli altri dispositivi di federalizzazione: l'investitura di secondo grado da parte degli organi degli enti territoriali, l'imposizione di un vincolo di mandato ancorato alle istruzioni ricevute dagli enti di provenienza, la previsione di un voto unitario per delegazione, e via dicendo.

Il disegno di legge prevede, viceversa, un'elezione diretta e la garanzia della libertà di mandato da esercitarsi in rappresentanza della nazione e della Repubblica.
L'unica misura strutturale prevista nel progetto è costituita, com'è noto, dall'elezione dall'elezione dei senatori contestualmente ai consigli regionali. Nulla assicura che tale misura favorisca il risultato desiderato. La previsione di elezione contestuale «scommette» sull'effetto di trascinamento della competizione regionale rispetto a quella nazionale. Il rischio però è che tale obiettivo si trasformi esattamente nel suo contrario. È cioè prevedibile che siano invece proprio le elezioni locali a venir risucchiate nella competizione nazionale e ad essere, così, fortemente condizionate dall'imporsi dei temi ed interessi legati all'agenda politica generale.

Se mi si consente il paradosso, sarebbe come se per europeizzare la rappresentanza parlamentare si abbinassero le elezioni politiche italiane a quelle europee. Ho dei dubbi che ciò consentirebbe di realizzare l'effetto desiderato.

Infine la scarsa regionalizzazione della seconda Camera mi pare persino «confessata» tra le righe dallo stesso disegno di legge, il quale, infatti, nei casi in cui vuol coinvolgere effettivamente la dimensione territoriale, prevede l'integrazione del Senato con rappresentatiti delle regioni. Mi riferisco al caso dell'elezione del Presidente della Repubblica (articolo 83), al Consiglio superiore della Magistratura (articolo 104) e alla Corte costituzionale (articolo 135). È evidente che tale integrazione non dovrebbe essere necessaria se il Senato fosse già, di per sé, una Camera regionale.
In conclusione è fortemente dubbio che, così come congegnato, il Senato possa realizzare quel collegamento stabile con i circuiti regionali, così da consentire la partecipazione di questi alle decisioni politiche nazionali.

Quanto alle competenze la soluzione lascia piuttosto perplessi.

Mi soffermerò su di un punto. L'ampiezza delle competenze sulle quali il Senato può esercitare un vero e proprio potere di veto nei confronti della Camera. Un potere di veto che, a differenza di quanto avviene ad esempio nell'ordinamento spagnolo, non è in alcun modo superabile.

È ben vero che, nell'esperienza comparata, sono previste competenze esercitate collettivamente dalle due Camere, ma si tratta di ipotesi tassativamente enumerate e, in genere, legate alle prerogative istituzionali degli enti o all'esercizio di una leale collaborazione nell'implementazione amministrativa della legislazione.
Nelle ipotesi previste dal secondo e terzo comma dell'articolo 70, invece, le competenze condivise sono molte e soprattutto appaiono suscettibili di interpretazione estensiva. Basti pensare all'intera legislazione di principio in materia di competenza regionale concorrente o alle tante materie previste dal terzo comma dell'articolo 70.

A proposito di queste ultime, mi limito a segnalare il caso della materia denominata «tutela della concorrenza». Secondo una recente giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 14 del 2004, seguita da altre pronunce conformi) tale materia non abbraccerebbe solo la regolazione della competizione nel mercato, ma costituirebbe «una delle leve della politica economica statale», comprensiva di «tutti gli strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell'intero paese». Si comprende bene che, cosi intesa, l'attribuzione di tale competenza assegna al Senato un potere di vincolare l'intera politica economica statale.
In conclusione su questo punto penso che la scarsa caratterizzazione federale dell'organo insieme all'ampio spettro di attribuzioni rischia di rivelarsi non solo inefficace rispetto all'obiettivo del decentramento, ma di riflettersi negativamente sulla forma di Governo.

La sottrazione del Senato al rapporto fiduciario con il Governo, che costituirebbe certamente una soluzione condivisibile qualora si fosse in presenza di una seconda Camera effettivamente regionale, priva il Governo di qualsiasi strumento di pressione su tale organo quando sia in gioco il proprio indirizzo politico.

Il rischio è dunque che anche i dispositivi previsti per la stabilizzazione del bipolarismo ed il rafforzamento della governabilità nel primo ramo del Parlamento, siano, nei fatti, completamente vanificati da un potere di interdizione e veto della seconda Camera, per giunta non disciplinabile con gli ordinari strumenti previsti per il rapporto di fiducia o del potere di scioglimento.

Quanto detto getta un'ombra pesante - mi pare - sul modo in cui funzionerebbe l'intero sistema. La scarsa garanzia dell'opposizione nella Camera bassa e la caratterizzazione sostanzialmente politica della seconda Camera, rischiano - tanto più se questa fosse eletta con un sistema proporzionale - di attribuire al Senato una impropria vocazione oppositiva e di farne il luogo di uno strisciante ostruzionismo al1'azione del Governo. Giustificato peraltro, proprio, dallo squilibrio tra maggioranza e opposizione alla Camera dei Deputati.
La propensione interdittiva e negoziale cui sembra vocato il progettato Senato, privo però della giustificazione «federale», rischia pertanto di sostituire alle pratiche della democrazia consensuale pre-maggioritaria una spinta verso una sorta di «consociazione tra istituzioni». In cui, cioè, il Governo deve costantemente contrattare 1'attuazione del proprio indirizzo politico con l'istituzione Senato. A questo punto vorrei offrirvi qualche spunto propositivo per la seconda Camera.

Se si esclude una radicale rivisitazione della struttura e delle competenze del Senato, politicamente impraticabile, mi pare che le possibili vie d'uscita rispetto a questo scenario siano sostanzialmente tre: ridurre il potere di veto assoluto della seconda Camera, limitandolo ad ipotesi fortemente circoscritte, e sostituendolo con forme di veto superabile, magari da una maggioranza qualificata della Camera bassa; reintrodurre, almeno su certe materie, un meccanismo fiduciario o comunque strumenti di deterrenza in capo al Governo nei confronti del Senato; modificare la condizione del Senato, abbandonando la via della seconda Camera integralmente regionale e perseguendo un modello di composizione mista - con una sorta di senatori elettivi e una parte di veri e propri rappresentanti regionali - che ne faccia una camera di conciliazione tra Stato e regioni sul modello delle conferenze o della cosiddetta «bicameralina». In aggiunta si potrebbe ipotizzare che i senatori di estrazione politica, oltre ad esercitare una competenza nella seconda Camera, siano istituzionalmente associati ai deputati nello svolgimento di alcune funzioni legate all'indirizzo politico, sul modello della Assemblea nazionale, prevista dal progetto della Commissione dei 75 e poi abbandonata in Assemblea costituente.

Degli aspetti tecnici di questa proposta mi sono occupato più dettagliatamente in uno scritto che, se mi è consentito, potrei lasciare agli atti della Commissione.

 

PRESIDENTE. Nel ringraziarla professor Guzzetta vorrei porle una brevissima domanda. Quando dice di perseguire una ponderata apertura alla giustizialità davanti alla Corte costituzionale nei rapporti interni alla Camere, intende solo in caso di lesione del rapporto di equilibrio tra maggioranza e opposizione o anche sul merito, come avviene, anche se con condizioni diverse, in Francia?

 

CARLO TAORMINA. A proposito della organizzazione dell'opposizione, che è un tema a cui siamo particolarmente sensibili, anche perché nella prossima legislatura potremmo essere all'opposizione, quindi che ci prepariamo il terreno...

 

SERGIO MATTARELLA. È quello che speriamo!

 

CARLO TAORMINA. E quindi ci penso prima; infatti, è meglio essere scaramantici, poi vedremo alla fine!

Sul tema potrebbe essere molto utile la comparazione. Lei ha detto che c'è la possibilità di intervenire su vari aspetti. Tenuto conto del tessuto da lei condiviso per quanto riguarda il rapporto tra maggioranza, premierato e via dicendo, le chiedo quale sarebbe lo strumento tecnico che, tenendo conto anche delle esperienze di diritto comparato, nell'ambito del nostro disegno di legge potrebbero essere oggetto di inserimento, senza modificare l'impostazione.
In secondo luogo, lei ha dato indicazioni importanti per quanto riguarda il Senato; ha suggerito di ridurre il potere di veto, un rapporto fiduciario con il Governo per evitare slittamenti di ogni genere e una composizione mista. Tuttavia, la riduzione del potere di veto, così come l'istituzione di un raccordo tra il Governo e il Senato delle regioni, va nella direzione di una cifra nazionale più che regionale del Senato.

Dal punto di vista della rappresentatività regionale in senso stretto, vorrei capire che tipo di modello è quello al quale lei si ispira e sul quale ha calibrato le sue osservazioni. Dal disegno di legge sembrerebbe di capire che si sia tentato di compiere uno sforzo al fine di conciliare le esigenze di rappresentatività nazionale, per evitare che il federalismo sia una fonte di dissociazione interna all'organizzazione dello Stato, e quelle di una rappresentatività regionale in senso stretto. I tre suggerimenti che lei ci ha dato, secondo la sua valutazione, non presentano una contraddizione interna?

 

CARLO LEONI. Ho un altro punto di vista per quanto riguarda la presunta necessità di un'ulteriore stabilizzazione della figura del Primo ministro, ma non intendo soffermarmi su questa sede. Per comodità di ragionamento, cercherò di pormi nella stessa ottica che lei condivide.

 

CARLO LEONI. Vorrei chiederle se non le sembra che quanto sto per leggere, che è una parte della nuova formulazione dell'articolo 94 della Costituzione, costituisca qualcosa che non rientra nel capitolo della stabilizzazione di Governo e maggioranza, ma rappresenta una forzatura del Governo nei confronti del Parlamento: il Presidente del Consiglio «può chiedere che la Camera dei deputati si esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del Governo. In caso di voto contrario, il Primo ministro rassegna le dimissioni (...)».

Chi sta vivendo l'esperienza parlamentare, non solo in questa legislatura, ma anche chi osserva e studia la corrente vita parlamentare, non può non vedere che il problema dell'Italia di oggi non è esattamente quello di un Parlamento che limita l'azione del Governo (vedi le leggi delega, i decreti-legge, eccetera).

Vorrei chiedere un suo parere non di carattere politico - questo è ovvio - sul secondo comma del nuovo articolo 94 della Costituzione; in altri termini, vorrei sapere se a suo giudizio quella previsione risponde ad una esigenza di stabilità del Governo oppure va oltre.

 

MARCO BOATO. Vorrei ringraziare il professor Guzzetta in quanto molte delle cose che lei ha detto non solo sono di grande interesse, ma non trovano obiezioni da parte mia.
Vorrei da lei un approfondimento, in parte sugli stessi temi affrontati dal collega Leoni precedentemente e, quindi, non tanto sulla questione del Senato o sullo statuto delle opposizioni, quanto sulla forma di Governo, che costituisce la parte che può apparire meno discutibile rispetto alle altre, come lei stesso ha accennato nella sua introduzione.
Oltre alle osservazioni del collega Leoni, che faccio mie, pongo l'attenzione su quanto da lei affermato relativamente alla cosiddetta norma antiribaltone, prevista dall'articolo 88, secondo comma, della Costituzione. Come viene da lei interpretata e, dal suo punto di vista, la ritiene adeguata? Infatti, qui ci troveremmo di fronte all'entrata in carica di un nuovo Primo ministro attraverso una mozione sottoscritta - non si sa dove né come - da una maggioranza dei componenti della Camera che appartengono alla maggioranza eletta nelle elezioni, senza un dibattito parlamentare, senza un voto di fiducia e senza un'approvazione di questa mozione.

Mi pare che il secondo comma dell'articolo 88, dal punto di vista costituzionale, ferme le finalità condivisibili, cosiddette antiribaltone, che condivido, costituisca un obbrobrio giuridico e difficilmente immaginabile nella sua concreta attuazione. Come interpreta il rapporto tra il secondo comma dell'articolo 88 è quanto prevedono gli articoli 92 e 94 in materia di scioglimento?

 

SERGIO MATTARELLA. Tra i tanti argomenti che lei ha trattato con estrema lucidità, ve n'è uno di fondo sul quale vorrei porle una domanda per capire se ho bene inteso la sua valutazione. La questione riguarda la posizione del Senato: in ogni sistema di democrazia rappresentativa, da sempre ci si basa sul sistema dei pesi e dei bilanciamenti. Mi pare che lei indichi nel sistema che ci perviene dal Senato un sistema di Governo fondato non sul criterio dei pesi e bilanciamenti, ma su due istituzioni (Governo e Senato) incomunicabili se non attraverso una contrattazione che può superare i contrasti che si possono realizzare. A differenza dal sistema dei pesi e dei bilanciamenti non vi è una distribuzione di funzioni, così come si è sempre fatto, ma una condizione in cui soltanto la contrattazione - come ho già affermato - può risolvere i contrasti.

Vi è un altro aspetto, al quale lei ha accennato, rispetto al quale vorrei una precisazione: il rapporto tra le due Camere. In realtà, da quanto lei ha affermato - ma per la verità, sembra così anche a me - emerge un disegno con una Camera ai limiti dell'onnipotenza (ossia il Senato) e la Camera dei deputati sostanzialmente recessiva e, nel disegno complessivo, marginale nel concerto delle istituzioni.

Mi sembra che questo dato emerga dalla sua esposizione e ne vorrei conferma.

 

MICHELE SAPONARA. Professore, vedo che lei, nel dimostrare sensibilità nei confronti dell'opposizione, prevede una parte dell'opposizione con diritti diversi; infatti, ha parlato di una differenziazione qualitativa tra i poteri dell'opposizione e quelli delle altre minoranze, pur sempre da salvaguardare, ma in misura diversa. Vorrei un chiarimento su questo aspetto.
Mi riferisco a quanto affermava in precedenza l'onorevole Mattarella: in sostanza, come si concilia l'accusa mossa a questo disegno di legge, che vede un premier forte, con il diritto di veto che è stato riconosciuto al Senato?

 

PRESIDENTE. Do la parola per la replica al professor Guzzetta.

 

GIOVANNI GUZZETTA, Professore straordinario di diritto pubblico presso la facoltà di sociologia dell'Università di Trento. Per quanto riguarda il tema della giustiziabilità, e quindi del sindacato della Corte costituzionale, io certamente immagino la possibilità di un sindacato sulle violazioni di tipo procedurale.

Sul problema del ricorso delle minoranze contro le leggi, personalmente ho qualche perplessità in più; tuttavia anche qui distinguerei tra il ricorso che riguarda i vizi formali delle leggi, cioè i vizi determinati dal procedimento parlamentare (per il quale secondo me l'opposizione ha pienamente titolo) e i vizi invece di tipo sostanziale, sui quali, nel caso si volesse introdurre questo sistema, bisognerebbe fare forse un lavoro di censimento. Ci sono infatti vizi sostanziali che, in qualche modo, incidono sul ruolo dell'opposizione e sul rispetto delle garanzie politiche (per esempio, penso a tutte quelle leggi che rischiano di non trovare un giudice, perché non c'è nessuno interessato alla loro impugnazione).
Viceversa, non sarei dell'idea di sottoscrivere la proposta che era stata avanzata nella Commissione bicamerale scorsa, di attribuire all'opposizione un ruolo di garanzia dei diritti fondamentali. Ho la sensazione che quella dei diritti fondamentali sia una questione che non necessariamente coincide con gli interessi dell'opposizione.
L'opposizione è pur sempre una parte, è pur sempre interessata alla realizzazione, per così dire, di obiettivi politici di successo. L'attribuzione di un ruolo di garante dei diritti fondamentali all'opposizione, secondo me non è opportuno. Preferirei forse pensare a modelli di ricorso diretto alla Corte costituzionale (con tutti problemi che ciò comporta); ma, insomma, la tutela dei diritti fondamentali, la sottrarrei alla competizione maggioranza-opposizione.

Un'altra domanda riguardava le garanzie e l'organizzazione dell'opposizione. Vedo qui due profili, di cui il primo riguarda una certa serie di norme di disciplina dell'opposizione che dovrebbero essere indirizzate esattamente allo stesso scopo cui sono finalizzate le norme che rafforzano il Governo e la maggioranza; si tratta cioè di incentivare la coesione dell'opposizione, e quindi di creare dei meccanismi di incentivo che garantiscano all'opposizione la sua coesione.

Altre forme attribuzione di potere dovrebbero invece muoversi in quella logica che cercavo di esprimere prima, e cioè essere finalizzate a far sì che l'opposizione sia messa in condizione di parlamentarizzare il conflitto politico, e quindi di avere gli strumenti per reagire e predisporre delle controffensive rispetto al Governo. Io ho cercato di enunciarne alcuni.
La mia convinzione (con questo rispondo forse anche un poco alla domanda dell'onorevole Leoni) è la seguente: sono perfettamente d'accordo sul fatto che la «deriva istituzionale» (peraltro non solo italiana) vada nel senso di un rafforzamento del Governo al di fuori del circuito parlamentare. Vi sono quindi regolamenti di delegificazione, decreti delegati, decreti-legge e via dicendo. Questa è una tendenza generale, che certamente assume forme parossistiche nel nostro ordinamento.

Il problema è che per contrastare questa tendenza, e quindi per «riparlamentarizzare» in qualche misura il conflitto politico, è necessario che il Parlamento diventi un organo decisionale o maggiormente decisionale. È quindi necessario, ovviamente nei limiti delle garanzie costituzionali, che al Governo e alla maggioranza, qualunque essa sia, sia dato il potere di assumere decisioni che passano attraverso il Parlamento.

Credo che ci sia un legame ineluttabile tra queste due cose. Sono convinto che un rafforzamento decisionale del Parlamento (che è la sede in cui per l'opposizione c'è l'enorme vantaggio di essere rappresentata, a differenza di quanto non sia nel Governo) potrebbe consentire anche una limitazione dei poteri del Governo di tipo normativo esercitati al di fuori del circuito parlamentare.

Le due cose però secondo me stanno insieme e quindi la strada che mi sembra da perseguire mi sembra quella di un rafforzamento parallelo di Governo e opposizione, con una distinzione di ruoli assolutamente ineluttabile. Le fughe dal Parlamento hanno rappresentato anche, rispetto alla storia italiana, una conseguenza della difficoltà decisionale nel Parlamento.

C'è un secondo profilo che vorrei sottolineare: la disciplina giuridica dei poteri del Parlamento ci consente di evitare quei fenomeni, ancora una volta, di elusione gravissima della Costituzione. Facevo cenno prima al fenomeno dei maxiemendamenti sui quali si pone la questione di fiducia. Si tratta sostanzialmente della introduzione nel sistema italiano del voto bloccato presente nella Costituzione francese: il Governo impone un testo interamente sostitutivo, pone la questione di fiducia e lo fa approvare. Tutto ciò rende completamente rituale ed inutile tutta la procedura parlamentare precedente, il sistema delle tre letture e via dicendo. Basta che il Governo arrivi all'ultimo minuto, imponendo il suo testo.
Allora, rispetto a questa riforma strisciante e giustificata dalla ineluttabilità della esigenza decisionale, causata dalla cosiddetta farraginosità (presunta o vera) delle procedure parlamentari, a mio parere, è sempre meglio che questi fenomeni vengano fatti emergere a livello costituzionale, perché questo costituisce già di per sé una maggiore garanzia.

Questa è la mia opinione, ovviamente si può poi discutere nel merito. In questo senso l'articolo 94 mi pare riproduca sostanzialmente il modello della fiducia, ma su questo poi tornerò.

 

CARLO TAORMINA. Siccome la domanda l'avevo fatta io e non l'onorevole Leoni, volevo una risposta. Le avevo chiesto indicazioni precise.

 

GIOVANNI GUZZETTA, Professore straordinario di diritto pubblico presso la facoltà di sociologia dell'Università di Trento. Certo, avevo solo fatto un collegamento fra argomenti analoghi. Le indicazioni precise sono in parte insite in ciò che ho detto: il problema è che il Governo deve essere messo in condizione di poter far approvare le proprie proposte, ma queste proposte devono essere in qualche modo chiare e definite con il massimo anticipo possibile. In questo senso, per esempio, quella norma che prevede che il Presidente del Consiglio si presenti in Parlamento ogni anno per comunicare lo stato di attuazione del programma va in questa direzione.

Forse bisognerebbe accentuarla negli aspetti profuturo, nel senso che il Presidente del Consiglio dovrebbe presentarsi non solo per dire quale sia lo stato di avanzamento del programma, ma soprattutto che cosa vuole effettivamente fare, e dovrebbe forse dirlo attraverso la presentazione di indicazioni programmatiche molto dettagliate, consentendo così all'opposizione di poter intervenire.

Per quanto riguarda la questione del Senato, le tre proposte che ho fatto sono in parte alternative. Se il Senato diviene una Camera effettivamente regionale, allora sì può pensare ad una strutturazione delle sue competenze che vada in questa direzione e che in una certa misura possa anche limitare l'indirizzo politico nazionale del Governo. Ciò sarebbe fisiologico, se vogliamo che in qualche misura le istanze locali vengano rappresentate: esse possono collidere in parte con l'indirizzo politico nazionale, per cui un minimo di frizione è previsto, anche negli ordinamenti federali. Se questa fosse la logica, allora il ragionamento sarebbe diverso.

Siccome io parto dal presupposto che questo Senato, così come di viene delineato, non sia un Senato federale, allora a questo punto, che cos'è? È una camera politica, composta diversamente, nella quale, anche per il meccanismo di non perfetta coincidenza tra le legislature che si può determinare, sì può benissimo creare una maggioranza politica diversa da quella del Governo. Basta che la Camera sia sciolta anticipatamente e il Senato permanga nella sua durata ordinaria, perché si creino degli sfalsamenti.
Se però entriamo nella logica di accettare che il Senato non sia una Camera delle regioni, ma una Camera politica, allora qui delle due l'una: o essa si inserisce nel circuito politico o se ne riducono le competenze. Altrimenti, il potere di veto del Senato rischia di diventare (in questo sono d'accordo, seppure senza estremizzare, con quanto qui precedentemente sostenuto) una specie di cuneo nel buon funzionamento del Governo.
Per quanto riguarda l'articolo 94, e il problema dello scioglimento, risponderò raggruppando un poco le domande.

Per quanto riguarda lo scioglimento, l'articolo 88, secondo comma, presenta un buon temperamento rispetto al modello dello scioglimento puro, attribuito al Primo ministro.
La logica alla base di tale disegno è che le elezioni sono il momento in cui si sanziona un collegamento tra una maggioranza e un premier. Di fronte all'eventuale rottura di tale collegamento in Parlamento, gli scenari sono due: o si ritorna immediatamente alle urne o si consente che la maggioranza sostituisca il premier. È necessario, però, perché rimanga il collegamento tra il momento elettorale e quello rappresentativo, secondo lo schema maggioritario, che quella maggioranza rimanga identica e che vi sia un punto di coerenza con il risultato elettorale.

Sono d'accordo con l'onorevole Boato sul fatto che la disciplina prevista al riguardo è formulata in modo piuttosto sfuggente - e si potrà certamente intervenire per una correzione - ma, a mio avviso, la scelta di fondo è senza dubbio condivisibile.

 

MARCO BOATO. Professor Guzzetta, ho precisato che ero d'accordo con lei sull'esigenza di cui questa norma si faceva carico, ma dobbiamo riflettere sul fatto che si avrebbe la sostituzione di un Primo ministro, e, quindi, anche dei membri del Governo, attraverso un pezzo di carta su cui qualcuno ha apposto una firma.

 

CARLO LEONI. Cosa avviene dopo che è stata presentata la mozione?

 

MARCO BOATO. Il problema è proprio questo: non c'è un dibattito e neanche un voto parlamentare, ma solo un pezzo di carta, sul quale qualcuno ha messo una firma, che comporta il cambio del Primo ministro e della composizione del Governo.

GIANCLAUDIO BRESSA. Il tutto poi avviene con una procedura extraparlamentare, non essendovi alcuna definizione parlamentare di maggioranza.

 

GIOVANNI GUZZETTA, Professore straordinario di diritto pubblico della facoltà di sociologia presso l'Università di Trento.

Sulla questione, a mio avviso, le possibilità di miglioramento sono numerose ed è certamente evidente che risulta necessaria una formalizzazione.
L'unico motivo per il quale può essere stato scelto questo sistema è che si sia voluto realizzare un parallelismo rispetto all'inizio della legislatura, nella quale non è previsto un voto di fiducia.

Per quanto attiene al Senato, ho già detto che credo che la soluzione prevista possa determinare una soluzione di conflittualità istituzionale molto forte, anche perché correremmo il rischio di conflitti di attribuzione costanti di fronte alla Corte costituzionale, competente a decidere sugli stessi in ultima istanza. Inoltre, il livello di conflittualità è potenzialmente molto elevato soprattutto nella misura in cui il Senato diviene il luogo in cui si può realizzare quell'opposizione che, alla Camera dei deputati, non è adeguatamente tutelata.

 

SERGIO MATTARELLA. La Corte diverrebbe così la regolatrice della vita parlamentare.

 

GIOVANNI GUZZETTA, Professore straordinario di diritto pubblico della facoltà di sociologia presso l'Università di Trento. Il rischio è proprio questo. Circa il discorso sollevato relativo ai pesi e ai contrappesi, nella mia ricostruzione, ci sono due tipi di contrappesi: un contrappeso politico, ed è il ruolo dell'opposizione, ed uno territoriale, che riguarda la forma di governo; il primo dovrebbe essere realizzato nella Camera, il secondo nel Senato, ma con una composizione radicalmente diversa.

Circa la domanda posta dall'onorevole Saponara che atteneva alle altre minoranze, insisto sull'idea che l'opposizione abbia uno statuto diverso dalle altre minoranze, proprio perché essa è caratterizzata dall'essere, quantitativamente e qualitativamente, il candidato più verosimile, realistico e attendibile alla sostituzione del Governo in carica.

 

CARLO TAORMINA. Bertinotti non è d'accordo su questo!

 

GIOVANNI GUZZETTA, Professore straordinario di diritto pubblico della facoltà di sociologia presso l'Università di Trento. È possibile che non lo sia, ma la cosa ovviamente non mi riguarda. Le altre minoranze dovrebbero essere garantite con poteri che riguardano intanto la propria posizione parlamentare, ma nella logica che si avvicina - al riguardo, forse, incontrerò qualche riserva da parte vostra - più al diritto di tribuna che al diritto di esercitare poteri paralleli e dialettici rispetto a quelli del Governo, il che significa anche incentivi differenziati all'aggregazione. Sarebbe un capovolgimento della logica, ancora attualmente presente, che la rappresentanza parlamentare sia governata attraverso un criterio di proporzionalizzazione. A mio avviso, l'opposizione non deve essere solo parlamentare, ma si tratterebbe di un'istituzione costituzionale: ad un «Palazzo Chigi» del Governo, dovrebbe affiancarsi un piccolo «Palazzo Chigi» dell'opposizione.


 

professor Leopoldo Elia, Presidente emerito della Corte costituzionale.

 

LEOPOLDO ELIA, Presidente emerito della Corte costituzionale. Vorrei anzitutto ringraziare la Commissione per questo invito, che mi onora e mi fa ritornare in aule che ho frequentato nella XII legislatura.

Devo dire che la delicatezza dei problemi che si affrontano in relazione a questo progetto di legge costituzionale è enorme, perché già si comincia a parlare di Costituzione «incostituzionale». Ciò denota una distinzione che, spesso, viene trascurata: in sede di revisione costituzionale non si esercita un potere costituente, ma si esercita, pur sempre, un potere costituito.

Il potere costituente, come fissazione dei principi supremi dell'ordinamento, si è esaurito nel dicembre del 1947 e, quindi, il potere di revisione deve svolgersi nell'ambito di quei principi allora fissati. Tra di essi, risultano quello che deriva dal costituzionalismo moderno e contemporaneo che, più che alla separazione dei poteri, tende alla non concentrazione di poteri in uno stesso organo o nello stesso titolare, e il principio democratico che, come avveniva in passato, impediva delegazioni di tipo totalitario integrale di poteri agli oligarchi dei partiti, e che, oggi, se venisse approvata questa legge, verrebbe violato, comportando una delega totalitaria, probabilmente integrale, ad una sola persona.

Si dovrebbe evitare, in base a quei principi supremi, che il popolo possa essere spossessato per cinque anni dall'esercizio della sovranità popolare e che il principio dell'esercizio (non della mera appartenenza), esplicato nell'articolo 49 della Costituzione che fa riferimento al concorso dei cittadini attraverso i partiti alla determinazione della politica nazionale, sia come sospeso per cinque anni.

Bisogna evitare che per cinque anni tutto diventi esecuzione di ciò che è stato deciso nell'election day e che il tempo scorra solo a vantaggio dei vincitori.
Invece, con questo testo tutto ciò non si evita perché esso è stato costruito attraverso una combinazione tra istituti propri della tradizione del Governo parlamentare (questione di fiducia, scioglimento delle Camere) e le regole antiribaltone.

Le regole antiribaltone del simul stabunt e del simul cadent realizzano automatismi incompatibili con la forma di governo parlamentare, anche razionalizzata.
Sembrava si fosse trovato un accordo anche con il relatore al Senato - si veda un numero di Amministrazione civile, relativamente ad un dibattito al quale ha partecipato anche il senatore D'Onofrio - sulla non trasferibilità di queste regole antiribaltone dai livelli locali (comunali, provinciali, regionali) al livello nazionale.

Ho sempre respinto come fuorviante il motto Segni che vede nel premier il sindaco d'Italia e mi appare fallace la similitudine che ha indotto in errore anche il titolare di un'alta carica istituzionale, allorché ha proclamato che il sindaco di Cernobbio aveva più poteri del Presidente del Consiglio dei ministri italiano.

Perché questo equivoco? Perché si sottovaluta un fatto fondamentale e cioè che nel Parlamento si mettono in gioco questioni che non vengono minimamente sfiorate in sede di consiglio comunale o regionale.

A livello nazionale si discute di cambiare leggi che disciplinano diritti e libertà dei cittadini, indipendenza della magistratura, pluralismo dell'informazione, meccanismi elettorali e rapporti tra politica ed economia. Come è possibile che il Parlamento, su questioni di questo genere, possa essere iugulato dalla strettoia rappresentata, per esempio, dall'insieme voto bloccato e questione di fiducia previsto dal questa normativa? Come è possibile che su temi di questo genere il deputato sia costretto a scegliere tra una difesa di quei diritti - e, quindi, la reiezione di alcune proposte - e lo scioglimento della Camera? Questo non è possibile e denota un salto di qualità tra quegli organismi consiliari di cui ho parlato prima e il Parlamento nazionale. Nel Parlamento nazionale ciò che può valere, può essere ancora tollerato in sede locale, non deve essere accettato.

In secondo luogo, vi è un problema di affidabilità dei partiti. Malgrado si facciano richiami a Westminster, si dimentica che i partiti parlamentari a Westminster sostengono il premier, ma riescono anche a controllarlo.

Nel quotidiano Il Foglio si sostiene che Eden, McMillan e la Thatcher caddero in base ad una congiura di palazzo. Non si è trattato affatto di una congiura di palazzo, ma di un emerso dissenso politico che ha avuto conseguenze anche in altri sistemi.
Dopo la sconfitta di Suez è caduto non solo Eden in Inghilterra, ma anche Mollet in Francia. Dove sono in Italia, in questo momento, quei partiti parlamentari in grado di controllare seriamente gli esponenti del potere esecutivo?

Quando l'amico Augusto Barbera mi obietta che il premier non può sciogliere contro la propria maggioranza perché, successivamente, non potrebbe essere ricandidato egli dimentica che il polo italiano non è il partito del bipartitismo inglese. Infatti, solo in quel caso un premier che riuscisse a sciogliere contro la sua maggioranza non sarebbe ripresentato successivamente come leader. In Italia, però, con due poli formati da più partiti, nulla toglie che il premier, leader di un partito, possa sciogliere ed essere ricandidato poiché, per esempio, nelle future elezioni potrebbe sperare di guadagnare consensi anche a danno di alcuni alleati; quindi, la situazione italiana è diversa e non dà gli affidamenti caratteristici di altri paesi.

Infatti, bisogna riconoscere che in questi altri paesi vi è una capacità dialettica che da noi, allo stato, manca in entrambi gli schieramenti.

La Thatcher aveva vinto per tre volte le elezioni eppure è stata sostituita. Il liberale Jean Cretien, Primo ministro canadese, aveva vinto tre elezioni di seguito, eppure è stato sostituito in corso di legislatura.

Quindi, questo accentramento come si esprime? Si esprime innanzitutto con il fatto che il premier - in base a questo testo - non è tanto il capo del governo, ma il governo stesso. Infatti, salvo quell'accenno al programma di governo che qualificherebbe certe norme relative ai principi fondamentali delle leggi quadro che, se di attuazione del programma di Governo, metterebbero la legislazione dal livello Senato (parola definitiva) a quello bicamerale, per tutto il resto è solo il premier che decide.

Egli decide tutto: lo scioglimento e la posizione della questione di fiducia attraverso quel congegno infernale che Sartori ha chiamato «bomba atomica» e consistente nel voto bloccato unito alla questione di fiducia. Ciò, fa sì che il Consiglio dei ministri - pur nominato - venga cancellato perché tutto è concentrato come scelta politica, come decisione di rilievo politico-istituzionale nel Presidente del Consiglio dei ministri.
Inoltre, il premier diventa direttamente legislatore attraverso questo voto conforme alla sua proposta; non si tratta solo di una priorità, ma anche di un voto bloccato.


Se non si accetta il testo del Primo ministro, si va alle elezioni. Siamo vicinissimi, per quanto riguarda l'ordine dei lavori della Camera, alla legge fascista del 1925.
Quindi, si ha una torsione della questione di fiducia del tutto particolare. Prima la questione di fiducia aveva come risultato, ove non fosse stata approvata dalla Camera, di far dimettere il Presidente del consiglio mentre qui il risultato principale della reiezione è lo scioglimento.
Le dimissioni del Presidente del Consiglio sono una conseguenza secondaria. La conseguenza fondamentale della torsione che deriva dalla questione di fiducia, di cui all'articolo 94, è qualche cosa di completamente trascendente. Non sono le dimissioni dell'esecutivo che vengono in luce, bensì lo scioglimento. Quindi, è completamente sconvolta la situazione della vecchia questione di fiducia, la quale comportava che se il Governo era battuto, come nel caso della Governo Prodi, questo si dimetteva.
Qui, invece, la sconfitta del Governo Prodi avrebbe comportato, immediatamente, lo scioglimento delle Camere. Ora, quando si dice, anche nel documento approvato dai giuristi di Magna Carta, che alcune rigidità potrebbero essere eliminate (anche nel libro che è stato distribuito si accenna a rigidità) per lo scioglimento automatico anziché semiautomatico (che deriva, per esempio, dall'approvazione di una mozione di sfiducia che comporta lo scioglimento), si suggerisce di togliere queste rigidità (anche il Presidente del Senato ha accennato a questo fatto).

Tuttavia, il principio del simul...simul sta proprio nelle rigidità! L'essenza del simul...simul è l'automatismo, è l'impossibilità di valutare situazioni sopravvenute, che possono avere il loro rilievo non solo in senso deteriore, come è stato detto (il trasformismo di Bossi, di Mastella e così via).

Pensiamo, per esempio, a Churchill, il quale abbandona il partito conservatore per passare al partito liberale e poi, da questo ultimo, ripassare al partito conservatore. In altre parole, ci possono essere dei passaggi, delle osservazioni, che rispondono a valutazioni politiche profonde.
Con queste norme, noi non saremmo potuti passare, in periodo di guerra, così come ha fatto, per esempio, la Gran Bretagna, da Chamberlain a Churchill! Non avremmo potuto fare i Governi di unità nazionale!

Quello che abbiamo di fronte è un vincolismo, un automatismo che, coniugato con il principio della personalizzazione del potere, dà luogo ad una situazione in cui, poi sul piano pratico, il premier, può esercitare una forte dose di deterrenza nei confronti della maggioranza e del suo gruppo. Tuttavia, non si deve dimenticare anche la reversibilità della deterrenza! La deterrenza, infatti, con la minaccia dello scioglimento, può essere esercitata non solo dal Presidente del Consiglio nei confronti della sua maggioranza ma anche da un piccolissimo gruppo di questa che ricatti il Primo ministro, per esempio, avvertendolo che, in caso nel caso rifiutasse di procedere a fare quello che gli si chiede, adottando, magari, una riforma piuttosto di un'altra, prendendo una decisione al posto di un'altra, potrebbe, da una parte, impedire che si abbia un nuovo Presidente del Consiglio dalla stessa maggioranza e dall'altra, passare all'opposizione, determinando lo scioglimento della Camera medesima.

Quindi, questa piccola minoranza potrebbe avere lo stesso potere di deterrenza che ha il Primo ministro. Ci sarebbe, allora, un rovesciamento che non va sottovalutato.
Si evocano ora, contro queste critiche, il progetto Salvi, il testo A alla bicamerale. Si tratta di un richiamo fuori posto perché se il testo Salvi prevedeva, da un lato, un potere del Presidente del Consiglio di scioglimento, come in Spagna, dall'altro, si prevedeva anche la possibilità, una volta che questo scioglimento fosse stato deciso, entro un certo numero di giorni, di impedire tale scioglimento, il quale recedeva di fronte ad una proposta di maggioranza di sfiducia costruttiva che fosse stata accolta dalla maggioranza della Camera (alla tedesca).

Quindi, il testo A di Salvi non c'entra e non c'entra neppure l'ordine del giorno da me fatto approvare in Senato il 16 gennaio del 2001, in cui chiedevo che il Presidente del Consiglio «emergesse» dalla stessa consultazione elettorale da cui promanava la maggioranza, perché questa era soltanto e semplicemente una ripulsa del sistema israeliano (o francese per quanto riguarda il Presidente della Repubblica), cioè, del sistema di fare emergere, in due elezioni separate, il vertice dell'esecutivo e la sua maggioranza. Quindi, non c'entra nulla con le critiche che muoviamo a questo testo!

Nello stesso programma Prodi, dove c'era chiaramente la volontà di non avallare mutamenti di maggioranza nel corso della legislatura, ci si rimetteva non ad una norma giuridica, bensì ad una convenzione. Si auspicava una convenzione, che è un accordo politico, per evitare questi ribaltoni! Quindi, né in Germania, né in Spagna, né in Svezia, né in Israele o in Francia, c'è un sistema a tenuta stagna, senza interstizi di sorta, come questo che si verrebbe a creare in Italia! Non c'è in Israele, dove, appunto, come ho già ricordato, in caso di dimissioni singole, c'era la special election, che poi è stata eliminata con tutto il resto di un sistema che non poteva funzionare (o che si è ritenuto non potesse funzionare bene) circa due anni fa.

Tuttavia, in Israele c'era la special election e se il Presidente del Consiglio si dimetteva volontariamente, non era sciolta anche la Knesset, che rimaneva, e si teneva un'elezione speciale per un nuovo Presidente del Consiglio. Così, pure in Francia dove, a parte la possibilità di coabitazione, vi è, perlomeno, la via d'uscita inventata da Giscard D'estaing nel 1974, per cui una minoranza può invocare, contro leggi ritenute incostituzionali, l'intervento immediato del Conseil Constitutionel (soluzione che manca totalmente da noi).
Tutto questo, ha dei riflessi molto forti sugli altri organi costituzionali. Un potenziamento del Primo ministro così violento, incide, naturalmente, anche sui poteri del Presidente della Repubblica e, molto indirettamente, anche su quelli della stessa Corte costituzionale, laddove si proceda, attraverso modifiche della sua composizione, ad un aumento del tasso di politicizzazione in un organo di giustizia costituzionale.

Ora, per quel che riguarda il presidente della Repubblica, il punto da confutare è anche di tipo storico. C'è una vulgata, legata alla presidenza Scalfaro, che non ha un fondamento storicamente attendibile, perché il cosiddetto ribaltone, di cui sarebbe stato complice Scalfaro, in realtà era stato preceduto da una situazione in cui il primo Governo Berlusconi non aveva la maggioranza in Senato già in partenza. È stato per un fenomeno di flessibilità che alcuni senatori del partito popolare hanno votato a favore del Governo Berlusconi. La situazione di «ribaltonismo» semmai era cominciata in Senato, ma dopo lo scioglimento del 1994, è determinato da leggi elettorali nuove.

In tutti i manuali di diritto costituzionale, a cominciare da quello di Mortati, troveremo questa giustificazione circa lo scioglimento delle camere. Né c'è stato un diniego di scioglimento, a proposito di Prodi, nel 1998, perché Prodi ha partecipato alla riunione dei capigruppo e ha acconsentito alla designazione di D'Alema. Nessuno ha chiesto a Scalfaro lo scioglimento, dopo il voto di ottobre del 1998.

Secondo me il problema è malposto, quando si invocano precedenti che non hanno reale consistenza. L'unica cosa per cui si può discutere veramente è se lo scioglimento Einaudi del 1953 avesse determinato una deformazione, in senso presidenzialista, del potere di scioglimento. Ma, per evitare la deformazione presidenzialista, basterebbe dire che lo scioglimento può essere proposto dal primo ministro e può essere accettato dal Presidente della Repubblica, in base a valutazioni che sono di estrema delicatezza circa la normale conservazione della maggioranza voluta dalle ultime elezioni, ma circa anche la possibilità che nel frattempo siano avvenuti fatti talmente gravi da poter giustificare una mozione di sfiducia costruttiva, che non sia vincolata alla partecipazione degli stessi membri di una maggioranza che non si sa bene come figurerebbe in Parlamento, poiché mancherebbe il voto iniziale di fiducia, con la conseguente violazione dell'articolo 67 della Costituzione circa la rappresentanza e la libertà da ogni mandato.

Il problema è quale contrappeso ci può essere per questo potere sterminato del premier. Il Senato è un punto interrogativo: questo Senato federale può costituire un freno ma può anche non esserlo, perché, a prescindere dal sistema elettorale, che non è più chiamato «proporzionale» nella legge costituzionale approvata dal Senato, anche nel caso in cui si applicasse un sistema proporzionale, come quello di tipo spagnolo, per l'elezione di duecento senatori (ricordiamo che il numero dei senatori elettivi dovrebbe scendere a duecento), si darebbe luogo a risultati maggioritari, per cui avremmo una Camera dei senatori specchio della Camera dei Deputati e non si avrebbe in questo caso alcuna garanzia.
I poteri del Presidente della Repubblica sono compensi o pericolosi doni avvelenati, come quello di stabilire l'interesse nazionale sulle leggi regionali, o poteri pericolosi, come quello sulla grazia, che impedirebbe al Parlamento di discutere della concessione di grazie anche se di natura politica (Moranino, terroristi alto-atesini). Il potere di nomina di alte autorità da parte del Presidente della Repubblica, se questa dovesse risolversi nella nomina di un presidente di garanzia, come nel caso della ex presidente della RAI, rischia di tradursi in un potere molto modesto.

Anch'io mi preoccupo della stabilità, pur sapendo che essa, se deve accoppiarsi alla efficienza di governo, esige insostituibili capacità di leadership politiche. La sfiducia costruttiva, anche nel rispetto dell'articolo 67 della Costituzione, è un'arma non trascurabile. Il primo governo Berlusconi non sarebbe caduto se D'Alema, Buttiglione e Bossi avessero loro dovuto designare il nuovo premier, né sarebbe caduto il governo Prodi, se coloro che hanno votato contro avessero dovuto designare un nuovo presidente del Consiglio.
Non va quindi affatto sottovalutata la capacità della sfiducia costruttiva, che in Germania ha funzionato benissimo come deterrente, tant'è vero che abbiamo un solo caso, quello del governo Kohl del 1982, in cui la fiducia costruttiva ha funzionato.

Anche lo scioglimento, come atto duumvirale, come lo aveva individuato Mortati, è un provvedimento che, esigendo il concorso sia della volontà del premier che del Presidente della Repubblica, offre elementi di garanzia per arrivare a quello che manca oggi, ossia un equilibrio complessivo nel sistema.

Si può cambiare forma di governo, ma se si accetta la separazione di poteri di tipo americano, o il sistema elvetico, con garanzia di durata dell'esecutivo: sono sistemi diversi che hanno un loro equilibrio.

Questo è un sistema che non ha equilibrio, che trascura il fatto che il famoso ordine del giorno Perassi, che tendeva a contenere le degenerazioni del parlamentarismo e a stabilizzare l'esecutivo è ormai un voto in gran parte adempiuto, con la legge elettorale, con i regolamenti parlamentari che impediscono l'ostruzionismo e scandiscono i lavori parlamentari attraverso il contingentamento.

Quindi, non si vede perché si voglia contraddire quello che è stato detto da personaggi così diversi: Bobbio, Dossetti, Ciampi, tutti hanno detto che la Costituzione su questo punto avrebbe bisogno di qualche ritocco e non di un capovolgimento così radicale come quello che ci viene presentato. A disposizione del premier viene messo a disposizione un arsenale pericoloso, soprattutto nel complesso dei congegni che gli vengono offerti e la cosa peggiore è la modifica dell'articolo 138 della Costituzione, che realizza un paradosso incomparabile. Se c'è stato dissenso nell'approvazione di una revisione costituzionale, tanto che non si sono raggiunti i due terzi della maggioranza qualificata, allora si vuole un quorum particolarmente elevato per il referendum oppositivo, mentre se si raggiungono i due terzi in sede parlamentare, allora basta qualsiasi quorum per approvare il progetto di revisione.
Ciò dovrebbe rendere ancora più attenti.

Si chiede una legittimazione reciproca delle forze politiche; ma la legittimazione reciproca non si proclama. Si consegue, e non con le esortazioni, sibbene con i fatti: la qualità liberaldemocratica di questa riforma diventerà il test principale delle possibilità di reciproca legittimazione tra le forze politiche.

 

PRESIDENTE. La ringrazio, professore Elia, per la sua relazione. Chiedo ai colleghi se desiderino intervenire.

 

MICHELE SAPONARA. Signor presidente, desidero ringraziare il professore Elia per la sua esposizione; personalmente, non sono un costituzionalista e non ho l'autorità morale del professore. Possiedo, però, un po' di memoria e ritengo che l'impianto alla nostra attenzione non meriti il pessimismo di cui è pervasa la relazione del professore, nella quale si contiene quasi un rifiuto del nuovo. Ricordo, in proposito, la cosiddetta «legge truffa», il maggioritario, i lavori dell'ultima Bicamerale ed il progetto Salvi, la riforma del titolo V della Costituzione. Quindi, si tratta di una riforma che è conseguente a tutto ciò e alla quale noi dobbiamo procedere; chiaramente, essa dovrà essere la più decorosa possibile. Quindi, comprendo i timori espressi.

Lei, professore, sostiene che il premier avrebbe troppi poteri. Ebbene, poc'anzi, in una precedente audizione, si è asserito che il Senato della Repubblica, il Senato federale, così come congegnato dalla riforma, dovrebbe costituire un freno - sino, addirittura, a bloccarle con potere di un veto - alle velleità del Presidente del Consiglio e della maggioranza. Al riguardo, pongo una domanda semplice e concreta. L'articolo 88 della Costituzione, secondo comma, verrebbe così riscritto dalla riforma: «Il Presidente della Repubblica non emana il decreto di scioglimento richiesto dal Primo ministro nel caso in cui, entro dieci giorni da tale richiesta, venga presentata alla Camera dei deputati una mozione, sottoscritta dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera nella quale si dichiari di voler continuare nell'attuazione del programma e si indichi il nome di un nuovo Primo ministro». Le chiedo, professore Elia, se tale norma non sia importante e, quindi, non valga a bloccare la «tirannia» del premier.

 

CARLO TAORMINA. Signor presidente, anch'io ringrazio il professore Elia, del quale tutti, in maniera diretta o indiretta, siamo stati allievi; pertanto, non possiamo prescindere dal suo importante intervento. Al di là delle preferenze che ciascuno di noi può avere per un assetto piuttosto che per un altro, evidentemente anche quello apprestato dal testo in esame -i cui contenuti possono essere più o meno condivisi - va considerato un modello. Naturalmente, tutto è perfettibile e le indicazioni fornite devono essere tenute in altissima considerazione.
Dunque, pur prendendo atto dell'esigenza di contenere i tempi dei nostri interventi, vorrei fare una osservazione considerando il tema in esame sotto un diverso profilo. Certamente, il nostro è un sistema politico caratterizzato non dal bipartitismo ma dal bipolarismo; peraltro, non va dimenticato che anche il bipartitismo al quale talvolta si fa riferimento parlando del caso inglese conosce non pochi temperamenti. Un elemento che unifica bipartitismo e bipolarismo è dato dal fatto che le campagne elettorali tra i due schieramenti si fanno sulla base dei programmi; programmi elettorali ai quali l'elettorato manifesta il suo dissenso o il suo consenso e rispetto ai quali si pone, poi, l'esigenza di darvi attuazione. Un'attuazione che deve essere puntuale e che, salvo l'intervento, in corso d'opera, di forti ragioni di modificazione, non può consentire alcuna deroga. Ragionevolmente, perché si verifichino contrapposizioni o difficoltà tali da determinare lo scioglimento delle Camere - anzi, della Camera -, esse dovrebbero riguardare elementi qualificanti del programma ed impedire, dunque, che esso possa trovare attuazione.

Detto ciò, vengo al tema del cosiddetto ribaltone; non si tratta soltanto di episodi interni al Parlamento rispetto a precise contingenze (affrontate, vorrei dire, senza il dovuto senso di responsabilità). Piuttosto, evitare il verificarsi di episodi del genere è la proiezione dell'impegno che si è contratto con l'elettorato rispetto al programma elettorale. A mio sommesso avviso, ciò non è di secondaria importanza.

Ebbene, tenuto conto di quanto già riferito - da lei anzitutto, a proposito, ad esempio, del pericolo insito nella doppia circostanza di un Presidente del Consiglio che può sciogliere la Camera e di una maggioranza che può opporsi al suo leader -; tenuto, altresì, conto del potere di veto del Senato federale (cui, pure, lei ha fatto riferimento); tenuto, infine, conto di quest'ultimo e di altri accorgimenti che potrebbero essere apportati - e se fosse possibile fornirci qualche suggerimento in proposito, la Commissione le sarebbe senz'altro molto grata -, non le sembra, professore, che la logica sottesa a questo disegno di legge sia l'indefettibilità della realizzazione del programma elettorale rispetto al patto stipulato con gli elettori? Potrà essere anche un'ipertrofia ciò che si celebra attraverso questo disegno di legge, ma non pensa che quella testé indicata possa essere la ragione vera piuttosto che la ricerca di poteri fortissimi quali quelli da lei evocati, addirittura ricordando l'esperienza fascista?

 

GIANCLAUDIO BRESSA. Signor presidente, non mi sento in condizioni di fare domande al professore Elia sulla questione della forma di Governo perché condivido interamente l'analisi da lui svolta, che assolutamente non considero, come ha detto il collega Saponara, un rifiuto del nuovo; mi sembra piuttosto un rifiuto dell'avventura di un modello squilibrato quale quello che, a mio modo di vedere, il professore ha, in maniera molto puntuale e lucida, descritto.

Invece, vorrei rivolgere una domanda su una questione molto marginale - che il professore solo incidentalmente ha affrontato - e che però ritorna spesso nelle nostre audizioni. Il presidente Elia ha fatto riferimento alla cosiddetta «norma Giscard» introdotta nel 1974 per consentire nuove forme di ricorso al Consiglio costituzionale. Ebbene, lei ritiene che questo tipo di opposizione dinanzi alla Corte debba avvenire solo per le lesioni procedimentali e procedurali nel rapporto tra maggioranza e minoranza o che possa anche avvenire per questioni di merito costituzionale inerenti alle leggi che vengono proposte e approvate?

 

PRESIDENTE. Non essendoci altre domande, do la parola al professor Elia per la replica.

 

LEOPOLDO ELIA, Presidente emerito della Corte costituzionale. Risponderò dapprima all'onorevole Saponara, chiarendo che certamente non vi è, da parte mia, un rifiuto del nuovo; ritengo, anzi, che alcune norme della legge n. 400 del 1988 andrebbero canonizzate in Costituzione per non lasciarle esposte a modifiche con legge ordinaria e per opporsi ai fenomeni di decostituzionalizzazione che continuamente si presentano.

Quindi, in coerenza con quanto abbiamo sostenuto, vi sono alcuni aspetti relativi al potere esecutivo che meritano di essere riveduti. Ma per quello che riguarda lo specifico articolo 88, ed il potere di scioglimento della Camera, affermo di non essere d'accordo con la restrizione della mozione di sfiducia costruttiva ai deputati che siano espressione della maggioranza vincitrice. Prima di tutto perché dubito che questa ipotesi sia in armonia con l'articolo 67 della Costituzione (si potrebbe obiettare che si tratta di un motivo ancora formale, considerato che in regime di partitocrazia questa regola ha subito molte attenuazioni) ma anche, e soprattutto perché quella norma promuove l'onnipotenza, oltre che del premier - quando funziona - anche di piccoli gruppi che sarebbero in grado poi di ricattare la maggioranza ed il premier stesso. A chi mi obietta che l'ipotesi di una riserva di sfiducia costruttiva all'interno dello schieramento fiduciario iniziale, esiste anche nella bozza Amato semplicemente rispondo che tale bozza non mi soddisfa.
Alle osservazioni dell'onorevole Taormina rispondo che certamente do atto delle intenzioni; quelle che hanno guidato almeno alcune di queste proposte, sono buone intenzioni ma la loro realizzazione non mi garantisce. Ossia la loro realizzazione non garantisce quel tanto di flessibilità che è propria della forma di Governo parlamentare, che naturalmente dispone di sue sanzioni interne, come si è visto nel caso Thatcher e nel caso MacMillan, ma anche in Germania dove, non dimentichiamolo, Adenauer è stato sostituito in corso di legislatura, da Erhardt e quest'ultimo, a sua volta, è stato sostituito da Kiesinger.
È quindi necessario un certo grado di flessibilità, che era stato escluso - peraltro in forme quasi grottesche - quando si è legiferato in sede costituzionale per le regioni, quando anche l'impedimento permanente, anche la morte del presidente della giunta regionale costringeva nuovamente al ricorso agli elettori. Per fortuna ora ciò lo si vuole evitare con una norma ad hoc.
Quindi la mia critica esige una precisazione, ed è una critica positiva nei confronti di alcune intenzioni, come il voler conservare in linea di massima la maggioranza che si è creata, salvo possibilità di integrazioni o sostituzioni minime, come può avvenire in corso di legislatura. Su tale evenienza però il giudizio migliore, il più obiettivo, lo può fornire il Presidente della Repubblica, congiuntamente con il Primo Ministro. Ma alle buone intenzioni si è contrapposta un realizzazione secondo una meccanica distorsiva, che dà luogo ad un «corsetto» talmente costrittivo da riuscire asfissiante.
All'onorevole Bressa dico che gran parte della mia risposta dipende dal quadro generale. Il sistema delle garanzie viene, purtroppo, del tutto trascurato in quanto il rinvio ai regolamenti parlamentari non garantisce nulla; non c'è nemmeno la possibilità di ricorrere alla Corte costituzionale su questioni come i «seggi fantasma» o questioni similari. Ma se il sistema rimane così poco garantito, anche per colpa del centro sinistra (che nella scorsa legislatura ha mancato al dovere di creare questo sistema di garanzie) e se rimane questo deserto di garanzie, allora io sono pienamente favorevole alla riforma Giscard, alla possibilità cioè di investire la Corte non solo di vizi relativi al procedimento legislativo ma anche di vizi relativi alla sostanza della Costituzione.

In tutto ciò vi è un interesse generale o meglio, ci sarebbe un interesse generale nello stabilire queste garanzie, perché la ruota gira, o può girare. È allora bene che queste garanzie ci siano per tutti, contribuendo a quella reciproca legittimazione di tutte le forze politiche, da me auspicata.


 

Audizione di Francesco Pizzetti, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Torino.

 

FRANCESCO PIZZETTI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Torino. Ringrazio la Commissione per avere avuto l'onore di essere stato invitato a questa audizione. Dico subito che mi iscrivo al gruppo di coloro che ritengono necessarie ulteriori riforme costituzionali per mettere in asse la nostra Costituzione con i mutamenti che già sono intervenuti nello scorso decennio, vuoi sul sistema politico, attraverso le riforme elettorali, vuoi sulla forma di Stato, attraverso le stesse modifiche costituzionali introdotte con le leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001.
Dico anche, però, che ritengo il disegno di legge in questione, sotto molti profili, un testo che non risolve i problemi che abbiamo di fronte, anche perché è tecnicamente confuso in quanto molte norme sono incoerenti fra loro, lasciando dubbi rilevanti. Ad esempio, non è mai chiaro se le mozioni vengano votate o meno, non è neanche chiaro se il primo ministro sia tenuto a dimettersi nel caso in cui la sua proposta sia respinta dalla Camera dei deputati e se sia tenuto a chiederne lo scioglimento; questo aspetto, tutt'altro che secondario, rimane equivoco. Trovo il disegno di legge in parte anche contraddittorio, perché da una parte mira dichiaratamente a rafforzare il Governo, ma dall'altra costruisce un Senato così forte e carico di poteri in un ampio spettro di materie da indebolire oggettivamente l'indirizzo del Governo, che in questa Camera, anche in materie che non sono specificamente legate alla dialettica centro-periferia, si trova costretto a ricercare il consenso di una Camera rispetto alla quale non ha alcun potere di indirizzo.

Il testo appare anche un po' arretrato, perché incentra tutto il rafforzamento del Governo sul potere del Primo ministro verso il legislatore, ma non costruisce alcuna nuova forma di governance. Anche il rapporto con le regioni è interamente risolto all'interno del Senato, che ha poi una struttura di raccordo con le medesime molto debole, così debole e pallida che, in certi momenti strategici, deve registrare l'ingresso diretto dei presidenti delle regioni nell'aula del Senato quando, ad esempio, si tratta di nominare i giudici della Corte Costituzionale o membri del CSM. È una forma di Stato tutta incentrata su uno dei due rami del Parlamento, in cui non vi è alcuna istituzionalizzazione di forme di governance corrette, nessuna costituzionalizzazione di forme già conosciute nel nostro ordinamento, come il sistema delle conferenze. Ricordo che l'onorevole Bressa, anche oggi presente, presentò, durante i lavori della Commissione bicamerale presieduta dall'onorevole D'Alema, una proposta di istituzionalizzazione delle conferenze come forma di raccordo fra i governi, coerente con l'obiettivo di cercare un equilibrio rispettoso anche del rafforzamento del Governo centrale e di quelli periferici.
Una parte di questa riforma, che io pregiudizialmente apprezzerei, è parzialmente razionalizzatrice in quanto tenta di migliorare alcune parti del Titolo V. Tuttavia di tratta di una razionalizzazione poco comprensibili. Si tolgono gli obblighi internazionali come vincolo per i legislatori, una conquista della riforma del 2001, senza che se ne comprenda la ragione, anche se si lasciano per fortuna gli obblighi comunitari; non si razionalizza neanche il contributo importante fornito dalla cosiddetta legge La Loggia, quando ha cercato di individuare le forme di partecipazione delle regioni al processo europeo, che nell'attuale articolo 117 della Costituzione è accennato ma non strutturato.
Si parla di una sedicente intesa che sarebbe possibile richiedere con le regioni a statuto speciale nel procedimento di approvazione degli statuti, ma poi non si comprende con quali modalità dovrebbe avvenire e quali effetti dovrebbe avere. Si stabilisce che debba avvenire entro sei mesi dall'avvio del procedimento; qualora non avvenga, si procede ugualmente, quindi deve intervenire dopo la presentazione del progetto di legge, tutt'altra cosa dall'unica intesa di cui abbiamo consapevolezza, quella con le confessioni religiose prevista dall'articolo 8 della Costituzione, da attuare prima della presentazione del disegno di legge in Parlamento.

Vi è dunque una serie di perplessità che mi inducono ad affermare che questo testo, oggettivamente, è fortemente carente e sostanzialmente insoddisfacente. Tuttavia, per valutare meglio queste riflessioni è utile che io chiarisca perché ritengo che ulteriori modifiche costituzionali siano importanti.

Ritengo che i fenomeni che si sono sviluppati nel decennio che è ormai alle nostre spalle abbiano già modificato il nostro sistema costituzionale. Vi è stata una modifica formale, attraverso le due leggi costituzionali che richiamavo prima; in altra misura, attraverso i referendum degli anni novanta che hanno registrato una spinta popolare alla modifica della forma di Governo. Quale è stata la grande richiesta che ha portato al cambiamento del sistema politico? Non soltanto quella di fornire stabilità al Governo, non solo quella di garantire all'Esecutivo ed al suo leader una capacità di governo più strutturata, ma soprattutto quella di concedere agli elettori il diritto di scegliere chi li deve governare. Ciò è avvenuto attraverso leggi elettorali che hanno spinto verso un sistema bipolare. Proprio perché la vera domanda riguardava il diritto degli elettori di scegliere chi deve governare, il sistema si è strutturato nei fatti attraverso un processo che vede ormai da due legislature coalizioni contrapposte che definiscono un leader, una coalizione di supporto ed un programma di governo. Su tutti e tre questi aspetti viene chiesto un voto agli elettori.
Allora, io credo che si debba strutturare un sistema che fornisca la garanzia che qualora si rompa l'accordo fra il leader e la sua maggioranza sia possibile ridare all'elettore il diritto di parola, ma che garantisca anche che se la maggioranza coesa, in nome del programma su cui ha ricevuto la fiducia dell'elettore, ritiene di cambiare il leader lo possa fare. Quindi, io credo che occorra un sistema armonico che non dia al leader il potere di controllo della maggioranza e non dia alla maggioranza il potere di cambiare il leader cambiando se stessa, quindi non dia la possibilità di uno sfaldamento della maggioranza e di una continuazione della capacità di governo. Sono favorevole a norme che chiariscano non lo strapotere del leader sulla sua maggioranza, ma la sua capacità di registrare se la propria maggioranza è coesa sulla proposta di governo, coerente con il programma di governo e, contemporaneamente, diano alla maggioranza stessa la possibilità di cambiare leader se questo non è più in grado di interpretarne la volontà, purché essa rimanga coesa e fedele al programma contratto con gli elettori.

La critica che ha svolto il professor Elia mi pare, per certi versi, ancora legata ad un'idea troppo incentrata sulla sovranità del Parlamento ma, per altri versi, perfettamente condivisibile. Occorre fare chiarezza. Cos'è il potere del leader nel 1994? Il leader mette in gioco se stesso? Se la maggioranza respinge la sua proposta, è obbligato a dimettersi? È possibile per la maggioranza che ha stipulato il patto con gli elettori, purché rimanga tale, cambiare il leader? Tutto ciò non è chiaro, tant'è vero che si continua ad usare il termine mozione di sfiducia, come se si dovesse rimuovere il Primo ministro come salvaguardia. Viceversa, dovrebbero essere previsti meccanismi in cui la maggioranza, nel momento stesso in cui non approva la proposta del leader, possa tranquillamente continuare ad attuare il suo programma di governo, modificando e individuando un diverso premier nel quale riconoscersi.

In ogni caso, è troppo e troppo poco ciò che è contenuto nel testo: è troppo perché non è chiaro il rapporto fra il leader, la maggioranza e il programma e come tutti e tre si raccordano con gli elettori, che sono i detentori della legittimazione dell'Esecutivo a governare; è troppo poco perché manca ogni altro strumento effettivo di governo. Tutto è giocato sul potere di ottenere il consenso della propria maggioranza in aula, in una sola delle due; in questo caso, c'è veramente molto da lavorare.
Per quanto riguarda la forma di Stato, si assiste ad un'ipertrofia del Senato, accompagnata ad un suo debole raccordo con il sistema delle regioni e delle autonomie locali. Il fatto che i senatori siano eletti contestualmente ai consigli regionali assicura troppo poco, tanto più in un contesto in cui, da un lato, si passa ad un Senato federale e, dall'altro, si continua a dire che tutti i parlamentari - quindi anche i senatori - non hanno un vincolo di mandato e rappresentano la Nazione e la Repubblica.

Allora, si tratta di capire quale sia la coerenza di un sistema così schizofrenico, in cui i senatori dovrebbero tutelare il sistema dei soggetti periferici, senza però avere con essi alcun vincolo, e sono, invece, allo stesso momento, come i deputati, rappresentanti della Nazione e della Repubblica e rispondono senza vincolo di mandato.

Anche i collegamenti tra il Senato e le regioni sono troppo deboli (i presidenti possono essere sempre sentiti dal Senato, i senatori, sempre se lo chiedono, possono essere sentiti dal consiglio regionale della regione in cui sono stati eletti). Fra l'altro, la norma attuale ha anche una strana formula, per cui i senatori possono essere sentiti nei consigli regionali della regione in cui sono stati eletti: prego almeno la Camera di correggere questa evidente svista lessicale del testo.

Credo che si debbano meglio definire i poteri reali del Senato, i suoi vincoli rispetto alle assemblee regionali e ai governi locali, nonché i rapporti - tutti da costruire perché in questo testo non si riscontrano - che assicurano il raccordo fra il Governo centrale e i governi regionali. In questo modo si darebbe al Governo centrale il potere effettivo di garantire al proprio elettorato il perseguimento del programma di governo anche nel rapporto con il sistema delle regioni e nel rispetto della loro autonomia e delle differenti competenze.
Questo testo solleva altri dubbi. Le riforme che sono intervenute, di fatto e di diritto, in questi anni, proprio perché incentrano tutta la legittimazione del sistema sul rapporto con l'elettorato e non più solo con il Parlamento, obbligano a dare un ruolo - di cui nel testo non c'è traccia sufficiente - alle minoranze e all'opposizione. Infatti, anch'esse sono espressione dell'elettorato e, quindi, ad un rafforzamento della maggioranza scelta dall'elettorato deve accompagnarsi un rafforzamento delle opposizioni, anch'esse conseguenza delle scelte dell'elettorato. Queste ultime sono opposizioni nel paese prima ancora di esserlo nel Parlamento e devono vedersi garantito un proprio ruolo in quanto pezzo del sistema democratico, importante tanto quanto la valorizzazione della maggioranza, di cui qui non c'è traccia.

Non si può lasciare al solo regolamento della Camera, come se fosse un fatto solo parlamentare, definire i ruoli delle opposizioni e al solo regolamento del Senato definire - tra l'altro non è neanche chiaro quali e cosa siano le opposizioni in Senato - le garanzie dell'opposizione. Se dobbiamo costruire la vera razionalizzazione della democrazia governante dobbiamo farci carico di questo problema, risolto il quale le critiche del professore Elia sono assolutamente condivisibili, così come sono condivisibili le osservazioni riguardanti l'esigenza di chiarire il rapporto tra il leader, la maggioranza e l'elettorato. Inoltre, in un sistema corretto di democrazia governante i diritti del pluralismo e del confronto democratico devono trovare uno status costituzionale maggiormente definito; questo è uno degli aspetti dei diritti dell'opposizione ma non l'unico, perché la stessa maggioranza deve avere il diritto garantito di poter dialogare con il proprio elettorato, così come l'opposizione.

È evidente a tutti che il sistema delle comunicazioni e il ricorso ai media devono trovare una garanzia costituzionale nell'interesse degli elettori, delle regole del gioco e della dialettica maggioranza-opposizione in Parlamento, di cui qui non c'è traccia.
Infine, in questo contesto il sistema delle garanzie, fondamentale, non è risolto, anzi per certi versi è reso ancora più complesso. In un sistema di forte decentramento - quindi, in una struttura di carattere federale - è necessario dare garanzie serie di funzionamento sia nei rapporti centro-periferia sia in quelli maggioranza-opposizione.

Questo non può risolversi nell'attribuire ad una sola delle due Camere, proprio a quella che dovrebbe rappresentare il solo sistema delle comunità territoriali, il compito di nominare in via esclusiva i giudici di competenza parlamentare che fanno parte della Corte costituzionale. Allora, è più corretto e più equilibrato il sistema attuale, che almeno ripartisce su entrambe le Camere tale nomina. Inoltre, che significato avrebbe dare alla sola Assemblea che rappresenta i sistemi periferici la nomina dei membri del CSM? Forse la magistratura deve tutelare soltanto il rapporto centro-periferie? Non si tratta di un potere dello Stato e della Repubblica in tutte le sue forme? E come si giustifica incentrare il CSM nel rapporto con il Senato, per la parte di nomina parlamentare, e poi mantenere la competenza esclusiva nella sola Camera dei deputati per ciò che riguarda la legislazione sull'ordinamento giudiziario? Come si giustifica prevedere l'esercizio della funzione legislativa da parte delle due Camere per le leggi in attuazione dell'articolo 125 della Costituzione sulla giustizia amministrativa di primo grado e poi mantenere la competenza esclusiva della Camera dei deputati per le leggi sulla giustizia amministrativa?
Ci sono troppe incongruenze nel sistema. Condivido pienamente le osservazioni del professore Elia sul ruolo del Presidente della Repubblica: secondo quale logica vengono aumentati i poteri del Capo dello Stato i merito alla nomina dei presidenti delle autorità di garanzia? Per quale motivo si considera soltanto la nomina dei presidenti e come viene «giocata» la nomina degli altri membri nella ripartizione tra Camera e Senato? Dove si collocano le autorità di garanzia? Le si evocano soltanto per definirne la nomina dei presidenti in capo al Presidente della Pubblica: è troppo poco. Le autorità di garanzia in un sistema equilibrato di democrazia governante e di corretto rapporto tra centro e periferie debbono avere da parte del legislatore costituzionale, così come la governance, ben altra attenzione.
Quale significato ha il fatto che il Presidente della Repubblica nomina il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura in un contesto, però, in cui i membri sono tutti di nomina della Camera delle rappresentanze territoriali? Mi sembra che in molti, troppi casi siano state effettuate scelte che sembrano rispondere ad una logica di equilibrio contingente dei ruoli dei diversi soggetti ma non ad un disegno razionale e compiuto.
Come si spiega che una riforma, che vorrebbe stabilizzare e portare a compimento il processo - come ho già detto, a mio giudizio già avvenuto - di mutamento della forma di Governo centrale e dei rapporti tra centro e periferia, veda un rinvio al 2011 per quanto riguarda la sua piena entrata in vigore? Come si giustifica una anomalia così forte rispetto ad ogni Costituzione a noi nota? Già la riforma del 2001 aveva una propria anomalia, il «famoso» articolo 11, che dichiarava non compiuta - come di fatto essa è - la riforma medesima in attesa della riforma del Titolo I. Ora si intende aggiungere un'altra più rilevante anomalia, quella di una riforma che si autodefinisce ad entrata in vigore differita (fate attenzione, non ad attuazione, ma ad entrata in vigore differita). Infatti, la seconda Camera rimane immodificata per l'intera prossima legislatura ma le si attribuiscano fin d'ora i nuovi poteri, fatto giustificabile se il Senato fosse già, sia pure in una pallidissima forma, rappresentanza dei corpi elettorali regionali.
Mi sembra che la riforma richieda molte riflessioni ed aggiustamenti, addirittura mutamenti di asse in certi contesti. Dico ciò con la passione di chi è convinto occorra - perché vitale per il paese - completare le modifiche intervenute in questi anni, ponendo completamente in asse la Costituzione formale ed il funzionamento reale del sistema. Il rischio è che se si sbagliano le scelte, si darà vita a riforme con troppe ombre e poche luci, dando ragione a chi, forse in modo troppo pessimistico, ritiene che sarebbe meglio non modificare nulla. Non sono di questa opinione e ritengo essenziale che modifiche vi siano, ma dovranno essere quelle di cui si ha bisogno, non quelle, come sembra, legate a disegni, congiunture e strategie di cui sfugge, obiettivamente, la razionalità complessiva.

 

PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi per le domande.

 

CARLO TAORMINA. Professore, a parte la difesa che lei ha fatto della relazione del professore Elia, su cui non concordo perché ha teorizzato l'esigenza della permanenza del «ribaltone», dico subito che condivido moltissime delle osservazioni da lei fatte, in particolare sul fenomeno da lei definito di ipertrofia del Senato delle regioni, sulla questione delle opposizioni e dell'esigenza che si pervenga ad un regime che costituzionalizzi le relative prerogative.

Lei ha rappresentato due interrogativi, ma nel far ciò ha fornito anche la risposta. È evidente che le mozioni si votano ed è chiaro che il Presidente del Consiglio nei riguardi del quale sia stata approvata una mozione di sfiducia non possa che dimettersi. Diversamente, si tratterebbe di uno stravolgimento dell'ordinamento costituzionale.
Eliminata allora l'ipertrofia del Senato, che nella logica del disegno di legge in esame aveva il compito di svolgere un contrappeso ai poteri del premier, e colmata la lacuna relativa all'opposizione (e dopo aver giustamente fatto riferimento alla costituzione materiale che in questi anni ha compiuto molto di quanto si sta cercando di realizzare con il disegno di legge), sembra di capire che la «filosofia» del disegno di legge su cui abbiamo chiesto il suo parere sia pienamente accolta da parte sua. Lei ha detto due cose importanti: ha sostenuto che il disegno di legge punta a disciplinare il rapporto tra leader, maggioranza ed elettori ed ha fatto riferimento all'esigenza di studiare attentamente il rapporto del premier rispetto alla maggioranza. Approdiamo, dunque, oggi ad un risultato che rispecchia la costituzione materiale in relazione al sistema elettorale, ai candidati premier che si confrontano e così via.

Dopo la sua «filippica» sul disegno di legge e l'indicazione di alcuni aspetti che non vanno (ma, ripeto, nel quadro di un'accettazione della filosofia di fondo), le saremmo grati di sapere quali dovrebbero essere (oltre a quelli già citati) le modifiche cui la Camera dovrebbe prestare attenzione?

GIANCLAUDIO BRESSA. P

oiché anch'io condivido in larga parte quanto detto dal professor Pizzetti, la cosa mi inquieta essendo accomunato ad un giudizio analogo a quello espresso dal collega Taormina...

 

CARLO TAORMINA. Non è certo una vergogna.

 

GIANCLAUDIO BRESSA. Non ho detto che sia una vergogna, ma che il fatto mi inquieta. È la prima volta. Non ho voluto formulare alcun giudizio. Lascio, comunque, al professor Pizzetti l'interpretazione corretta del suo pensiero.

Per quanto riguarda la forma di Governo lei, professore, ha detto in maniera molto chiara che le questioni da tenere presente, se intendiamo giungere a modifiche importanti, opportune e necessarie, sono tre: garantire la stabilità e la capacità del Governo e, terzo aspetto, garantire anche il diritto di scelta degli elettori. Non ritiene, però, che il modello approvato dal Senato abbia elementi di squilibrio tali da non riuscire a definire questi tre aspetti?

Non ritiene utile e opportuna, proprio per definire in maniera chiara la stabilità del Governo, una definizione della maggioranza parlamentare? Fino ad oggi, la nozione di maggioranza è stata desunta solo in sede extraparlamentare, al momento della presentazione delle liste, dall'apparentamento tra il candidato e il Presidente del Consiglio.
Inoltre, relativamente alla garanzia della libertà di scelta degli elettori, non ritiene che si debba tenere presente, comunque, l'articolo 67 della Costituzione e che, pertanto, non sia possibile incatenare un parlamentare allo schieramento attraverso il quale è stato eletto? Non ritiene che ci possa essere, invece, la possibilità, e la connessa responsabilità parlamentare, di modificare anche questo tipo di confine, definito dalle elezioni, magari stabilendo la clausola dell'obbligo di elezioni entro un termine predeterminato? In altri termini, lei rammenta il modello che era stato proposto nella scorsa legislatura e firmato da tutti i presidenti di gruppo dell'Ulivo? Esso prevedeva la possibilità di una modifica della maggioranza, la quale doveva essere certificata parlamentarmente al momento del suo insediamento, ma stabiliva che, ove la maggioranza fosse stata alterata, in qualche modo, ciò avrebbe comportato lo scioglimento delle Camere entro dodici mesi, perché la responsabilità parlamentare della modifica del voto avrebbe dovuto subire, entro tempi certi, una verifica da parte dell'elettorato.

 

MARCO BOATO. Signor presidente, mi scuso anch'io con i nostri interlocutori per il ritardo. Dal momento che devono ancora svolgersi alcune audizioni, già programmate per la seduta odierna, sotto il profilo metodologico credo che sia opportuno evitare, sia nelle relazioni, sia nel dibattito, ogni riferimento a quanto affermato dai relatori ascoltati in precedenza. Ciò sarebbe scorretto dal punto di vista formale, dal momento che chi è intervenuto in precedenza, anche se sta ascoltando, non può più intervenire, e sarebbe un po' anomalo ai fini del resoconto. Perciò, dal punto di vista procedurale, ritengo opportuno che ciascuno di noi si rapporti con l'interlocutore che ha di fronte.
Anch'io sono rimasto un po' stupito per le affermazioni del collega Taormina; del resto, il professor Pizzetti è l'interprete autentico di se stesso. Io ho annotato alcune espressioni tra cui: «testo tecnicamente confuso», «norme incoerenti», «testo fortemente carente e sostanzialmente insoddisfacente». Ho l'impressione che ciascuno di noi dovrebbe evitare di pretendere di attribuire ai nostri interlocutori le proprie idee, che possiamo manifestare in tutti gli ambiti, sia in sede parlamentare sia in sede extraparlamentare. Soprattutto, tutti abbiamo interesse ad ascoltare il parere di coloro che abbiamo invitato a intervenire.
Premetto che condivido alcune domande formulate dal collega Bressa, con una precisazione che mi riservo di effettuare alla fine del mio intervento relativamente al progetto della scorsa legislatura (che era nel dibattito ma non era nel testo). Il professor Pizzetti ha rilevato che non è prevista alcuna istituzionalizzazione di forme di governance, al di là del rafforzamento del ruolo del Primo ministro. Vorrei chiedergli di approfondire questo argomento e vorrei chiedergli anche se abbia indicazioni a riguardo.
In connessione con questo ragionamento, il professore ha fatto riferimento al lavoro della Commissione bicamerale e al fatto che, in questo testo, non è presente alcuna ipotesi di istituzionalizzazione delle Conferenza Stato-regioni e Stato-autonomie locali. Dal momento che ne abbiamo discusso e, ritengo, ne discuteremo ancora, le chiedo se questo implichi che lei è favorevole a un riconoscimento costituzionale di tali istituzioni, oggi previste soltanto in base a legge ordinaria.

Lei ha fatto riferimento, inoltre, alla questione dell'intesa per le regioni a statuto speciale. Si tratta di un tema che già è stato accennato nel corso di queste audizioni. Al riguardo, le chiedo quale formulazione riterrebbe corretta, laddove ritenga giusto inserirla in Costituzione.
Più volte, è stato da lei richiamato - e condivido questo richiamo, almeno sotto il profilo della coerenza - il mantenimento, sia pure con una formulazione diversa, della assenza di vincolo di mandato ex articolo 67 della Costituzione. Le chiedo se, nella sua ipotesi, l'assenza di vincolo di mandato debba essere differenziata nella formulazione o, in ipotesi, addirittura soppressa, per quanto riguarda la Camera e il Senato; la Camera, comunque, intrattiene un rapporto fiduciario con il Governo; il Senato, in questa ipotesi, non ce l'ha.
In connessione con questo - ma non è la stessa cosa, ovviamente - le chiedo se ritenga opportuna, comunque, l'ipotesi di una reintroduzione (nel testo originario del Governo era prevista) della possibilità di scioglimento del Senato, sia pure in casi diversi da quelli previsti per la Camera politica. Infatti, allo stato attuale, per come è configurato, nel Senato potrebbe succedere di tutto, compresi il blocco dell'attività del Governo e l'impossibilità di funzionamento. Nel testo attuale, proveniente dal Senato, non è contemplata alcuna deterrenza istituzionale e costituzionale nei confronti di questa ipertorfia dei poteri, cui si è fatto riferimento.

Per quanto riguarda lo statuto dell'opposizione, si è cominciato a discutere, nel dibattito parlamentare e, soprattutto, in dottrina (in quella dottrina che comincia ad essere pubblicata in questo periodo), sulla differenza fra statuto della opposizione e delle opposizioni. Lei ha fatto un cenno rapidissimo in merito ed ha parlato di minoranze e di opposizioni. Le chiedo se si sia trattato soltanto di un fatto linguistico, dovuto alla rapidità di eloquio, o se ritenga necessario - come io ritengo - rafforzare lo statuto delle opposizioni in sede costituzionale, senza rinviarlo alla sede regolamentare, tanto più che il regolamento è approvato dai componenti della maggioranza e non dell'opposizione. In altri termini, il regolamento parlamentare è approvato da chi non è all'opposizione e, perciò, è giusta la sua ipotesi relativa alla necessità che ci siano maggiori punti di riferimento in Costituzione. Le chiedo una valutazione circa la differenza tra le diverse opposizioni o minoranze, in Parlamento.
Inoltre, lei ha fatto riferimento ai diritti del pluralismo nel sistema delle comunicazioni. Le chiedo se ritenga che la materia debba essere affrontata nella seconda parte della Costituzione o se, pur essendo assolutamente condivisibile questa esigenza da lei prospettata (o, almeno, io la condivido), non sia, per altri aspetti, da inserire nella prima parte della Carta costituzionale.

Da ultimo, lei ha ricordato il tema alle autorità di garanzia. Giustamente, ha rilevato come vi sia un riferimento ad esse nel progetto di modifica dell'articolo 87, con la definizione, un po' anomala, di autorità amministrative indipendenti, laddove si tratta del potere di nomina attribuito al Presidente della Repubblica. Non vi è alcun altro riferimento in Costituzione al riguardo. Al di là della discutibilità o meno della nomina da parte del Presidente della Repubblica - questo è altro argomento - le chiedo se ritenga giusto costituzionalizzare le cosiddette autorità di garanzia.

 

PRESIDENTE. Vi ricordo che era stato convenuto che ciascuno intervento avrebbe avuto la durata di tre minuti. Non solo: se il professor Pizzetti dovesse rispondere a tutte le domande che avete formulato finora, impiegheremmo almeno un'altra mezz'ora. Perciò, pregherò il professore di consegnarci una documentazione scritta sia dell'intervento, sia delle risposte.

 

MARCO BOATO. Signor presidente, svolgiamo le audizioni allo scopo di audire.

 

PRESIDENTE. Ho capito, ma è lo stesso: rispettiamo i tempi e vedrà che riusciremo a fare tutto.

MARCO BOATO. Signor presidente, questa interruzione non mi piace, perché un collega della maggioranza ha superato i tempi previsti ampiamente e ripetutamente e nessuno ha detto nulla. Se lei deve fare questo richiamo, lo deve effettuare imparzialmente.

 

PRESIDENTE. Il richiamo è rivolto a tutti, perché abbiamo convenuto ieri, in sede di ufficio di presidenza, la durata di tre minuti per ciascun intervento!

 

MARCO BOATO. Signor presidente, io ho formulato molte domande e non ho svolto ragionamenti politici, mentre abbiamo ascoltato molti ragionamenti politici e non abbiamo obiettato.

 

PRESIDENTE. Invito il collega Leoni ad intervenire.

 

CARLO LEONI. L'accordo con le cose dette dal professor Pizzetti mi consente di porre una domanda molto particolare e quindi molto breve. Non so se il professore abbia avuto modo di concentrare la sua attenzione anche su questo argomento, ma approfitto dell'occasione - essendo un parlamentare nato ed eletto a Roma - per rivolgerle questa domanda. Quale è il suo giudizio sul modo in cui questo disegno di legge disciplina i poteri e l'ordinamento della capitale?

Credo che lei abbia visto questa parte o che avrà modo di esaminarla più dettagliatamente. Io ritengo che il testo sia confuso; infatti, prima si fa un richiamo a forme e condizioni particolari di autonomia, anche normativa, stabiliti dallo statuto della regione Lazio e poi, invece, si dice che la legge dello Stato ne disciplina l'ordinamento; quindi, sarei interessato ad un suo giudizio su tale argomento.

 

FRANCESCO PIZZETTI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Torino. Mi riservo, soprattutto sulle questioni più puntuali, di darvi un contributo in forma scritta, avendo, in questo modo, il tempo per farlo in maniera più meditata.

In primo luogo, vorrei rispondere alla domanda iniziale nella quale mi si chiedeva come mai fossi in accordo con la relazione del professor Elia, pur avendo accentuato l'aspetto del raccordo con l'elettorato, mentre il professor Elia, in qualche modo, ha sottolineato la sua preoccupazione per il mantenimento e la salvaguardia del ruolo del Parlamento. Credo che ci accomuni la preoccupazione derivante dal sistema complessivo che, per i tanti motivi che ho detto (non tocca a me interpretare il professor Elia, ma mi sembra che nella sua relazione fossero chiari i motivi che lo hanno spinto a dire le cose che ha detto), è preoccupante.
Non si può pensare che il testo, solo perché ha dimostrato di avere la comprensione dell'esistenza di alcuni problemi, sia da ritenersi valido, non considerando il fatto che nel suo complesso sia così squilibrato e anche (mi sembra di capire che anche l'onorevole Taormina condivida la lettura dell'ipertrofia del Senato e la carenza dello statuto dell'opposizione) carente su elementi essenziali. Ciò non è sufficiente a rintracciare un equilibrio complessivo che possa consentire una valutazione più serena; quindi, i due interventi - il mio e che quello del professor Elia - vanno assolutamente nella stessa direzione che è quella (molto più autorevole la sua, meno la mia) di avvisare la Commissione parlamentare dell'obiettiva e preoccupante incoerenza del testo complessivo.
In ordine alle domande specifiche che mi sono state fatte, non è facile in poco tempo delineare quali siano effettivamente i rapporti tra il Primo ministro - come più correttamente dice il testo - il Governo e la maggioranza che lo sostiene. Così come non è di poca cosa - e qui condivido l'osservazione fatta dall'onorevole Bressa - che si individui in modo più compiuto quale sia la maggioranza parlamentare, come cioè la coalizione che si è presentata all'elettorato diventi tale. Tale problema nel testo varato dal Senato in qualche modo emerge; infatti, si prevede che il candidato premier e la coalizione si presentano in qualche modo raccordati fra di loro di fronte all'elettorato, ma che la formalizzazione transita poi in Parlamento o almeno nella Camera dei deputati.
Come avviene la formalizzazione di questa maggioranza? Questo diventa, infatti, un momento fondamentale per lo stesso processo di formazione del Governo, rispetto al quale certamente il Presidente della Repubblica deve rispettare l'indicazione dell'elettorato, ma solo quando questa indicazione trovi nella Camera dei deputati la sua formalizzazione.
Quindi c'è un processo da mettere a punto, che il sistema parlamentare attualmente vigente ovviamente non fa emergere, ma che, se vogliamo portare il sistema a compimento, deve trovare una risposta; quindi, sono d'accordo, in questo senso, con quello che diceva l'onorevole Bressa e, naturalmente, su questo è importante che si lavori.

Rispetto alla questione riguardante lo statuto dell'opposizione, mi riservo di dare una risposta scritta, ma occorre naturalmente non rimetterlo unicamente al regolamento della Camera.
Mi è stato chiesto perché ho usato alcune volte la parola opposizione e altre la parola minoranza; l'ho fatto solo perché ho seguito il testo licenziato dal Senato, dove si parla di individuare forme di governo delle minoranze e non dell'opposizione, mancando appunto nel Senato federale il rapporto con il Governo; quindi, ciò fa pensare che nel varare questo testo si è immaginato che il Senato si possa articolare in maggioranza e minoranza. La norma è certamente incoerente con l'idea che il Senato debba rappresentare i corpi elettorali regionali; infatti, in questo caso si dovrebbe applicare un metodo diverso da quello di maggioranza e minoranza, ma questa è un'altra delle grandi lacune o incoerenze.
È chiaro che quando parlo di statuto dell'opposizione, intendo un riconoscimento formale di diritti e ruoli a tutte le liste e le forze che si siano presentate all'elettorato, indicando un leader di governo alternativo a quello che è emerso vincitore e coalizioni o schieramenti alternativi - diversi a quello che ha prevalso - ai quali occorre dare un riconoscimento costituzionale.
Mi è stato chiesto, inoltre, di ritornare sul punto riguardante il vincolo di mandato, su cui mi dichiaro molto perplesso. In primo luogo sono molto perplesso riguardo a questa strana formula - che è presente anche per il Capo dello Stato - per cui il deputato e il senatore rappresentano la Nazione e la Repubblica. Forse sarebbe meglio far chiarezza su questo punto; infatti, il Presidente della Repubblica continua a rappresentare la Nazione, i deputati e i senatori che prima rappresentavano la Nazione, adesso rappresentano anche la Repubblica.
Sarebbe giusto chiedere ai parlamentari di questa legislatura di far chiarezza su questi concetti, anche per non aggravare il compito della dottrina; vi chiedo, quindi, che senso abbia immaginare i senatori in qualche modo raccordati con le rappresentanze regionali e poi, con l'assenza di vincolo di mandato, renderli rappresentativi dell'intera Nazione e dell'intera Repubblica.
Devo dire che anche le forme di raccordo presenti sono da chiarire. Infatti, i senatori da un lato rispondono senza vincolo di mandato e sono rappresentanti della Nazione e della Repubblica dall'altro devono sentire i rappresentanti delle regioni su tutte le materie dell'articolo 70, cioè su ciò che riguarda il loro potere legislativo, definendo essi stessi nel proprio regolamento in che modo sentìrli e, per di più, chiedendo che siano ascoltati dopo che questi abbiano a loro volta udito i rappresentanti dei Consigli delle autonomie locali. Perché tutto questo meccanismo barocco e complesso, se poi, tanto, i senatori non hanno alcun vincolo di mandato?

C'è davvero troppo da chiarire!

A questo punto voi mi direte che avete fatto delle domande per chiarire alcuni punti ed io vi sto ripetendo quanto ho già detto. Ciò dimostra che i chiarimenti non possono che essere dati molto rapidamente e semplicemente; infatti, si tratta di capire se la domanda fattami postula la disponibilità a ripensare profondamente il sistema. Comunque non considero ragionevole la formula dell'articolo 67, soprattutto se estesa al Senato del quale si cerca, anche se senza successo, di definire una nuova e diversa natura; una di queste potrebbe essere l'istituzione delle conferenze, di nuove forme di governance.

Ho qualche perplessità nel costituzionalizzare troppo una forma strutturata; ho invece la convinzione che sia necessario chiarire un diritto costituzionale dei governi ad avere un rapporto fra di loro, parallelo al rapporto con il Parlamento, e che non si esaurisca nella Camera delle regioni, soprattutto se questa si chiama Senato federale e ha un vincolo pallido con i governi regionali.

Posso solo dire che abbiamo un grande esempio nel Trattato costituente europeo, che ha cercato di moltiplicare le forme di governance, soprattutto non alta, da parte dei parlamenti nazionali a difesa della sussidiarietà. Qui, invece, non diamo nessuna difesa alle regioni che non sia lo Statuto del Senato, al quale esse non sono presenti, se non a titolo di consultazione e sempre che siano consultate. Mancano forme di partecipazione diretta, che anche noi abbiamo riconosciuto alle regioni nel processo di elaborazione della posizione dello Stato italiano in sede europea e che adesso qui vengono del tutto trascurate.
Non penso solo ad una governance riguardante i rapporti tra i governi, ma anche tra i legislatori, tra le regioni e il sistema parlamentare centrale, che non possa risolversi sempre tutto è soltanto in un rapporto costretto dentro al Senato federale per la modernità cui dobbiamo dare una risposta.

In questo senso il presidente Elia ha detto che la formula dell'articolo 94 della Costituzione è un collare troppo stretto. Secondo me, concentrare tutto in un Senato così stranamente costruito e debolmente raccordato con le regioni costituisce davvero un collare troppo stretto per un sistema che avrebbe bisogno di molto più moderne ed elaborate forme di raccordo o - come amo dire talvolta, usando un termine che non ha traduzione italiana, ma che ormai è entrato nel linguaggio costituzionale grazie al contributo dato dalla cultura europea - moderne forme di governance.

Mi riservo di dare risposte pure in puntuali in forma scritta.

 

CARLO TAORMINA. Prendo la parola per chiedere soltanto che, dal momento che alle mie domande non è stata data risposta, sia data una risposta in forma scritta.

 

PRESIDENTE. Dipende se il professor Pizzetti lo ritiene opportuno. Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di Beniamino Caravita di Toritto, professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la facoltà di scienze politiche dell'Università «La Sapienza» di Roma.

 

BENIAMINO CARAVITA DI TORITTO, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la facoltà di scienze politiche dell'Università «La Sapienza» di Roma. Mi riservo di presentare un testo scritto e, poiché l'auditorio è tale da non necessitare spiegazioni, mi limiterò a dare conto di alcune mie idee rispetto al testo del disegno di legge.

Mi soffermerò soprattutto sulla parte che riguarda il federalismo e la composizione del Senato, ma vorrei fare qualche battuta anche sulla parte che attiene alla forma di Governo.
Innanzitutto, ritengo anche io - ma ciò fa parte della nostra caratteristica di costituzionalisti e giuristi - che il testo richieda ampi e approfonditi ripensamenti, correzioni, sistemazioni e messe a coerenza. Ciò posto, mi pare che, almeno su alcuni passaggi, il testo si muova in una direzione apprezzabile.

Il primo aspetto riguarda il ruolo del Presidente del Consiglio in relazione alle Camere e al Presidente della Repubblica. Credo che negli ultimi 10-15 anni ci sia stata un'evoluzione del sistema verso un collegamento tra la maggioranza e l'elettorato e tra maggioranza e Governo che ha trovato grandi spunti e grandi meccanismi che lo accoglievano attraverso leggi elettorali, attraverso alcuni ripensamenti dei regolamenti e alcune modificazioni, ma credo anche che questo non sia riuscito ad esplicitarsi fino in fondo. Le due vicende degli scioglimenti dei governi Dini del 1995 e D'Alema del 1998, costituiscono il momento in cui il sistema è andato in crisi. Il testo cerca di rispondere a questo passaggio.
Non mi soffermo sulle critiche forti nel caso Dini nei confronti della nomina del Presidente del Consiglio e meno forti nel caso D'Alema, perché in quel caso esisteva una maggioranza parlamentare che aveva indicato D'Alema, mentre non esisteva nel caso Dini, ma mi pare che il tentativo di questo testo sia quello di razionalizzare delle vicende che sono già dentro il sistema.

La mia sensazione è che il testo oscilli tra il governo di legislatura del premier e quello della maggioranza e non risolva questa contraddizione. In alcuni casi si è partiti probabilmente con l'idea del governo di legislatura del premier, ma il testo in altri casi va verso l'idea della legislatura di maggioranza. Mi sembra importante arrivare fino in fondo alla costituzionalizzazione del governo di legislatura di maggioranza e mi pare che l'aspetto delicato per ottenere questo risultato sia l'introduzione, all'interno dell'articolo 94, terzo comma, del richiamo all'articolo 88, ossia la possibilità che, anche nel caso di un voto di sfiducia, possa scattare la richiesta della maggioranza dei parlamentari di sostituire il premier sfiduciato.

Naturalmente vi sono alcuni elementi di coerenza del testo che vanno perfezionati e sui quali non mi soffermo.

Vorrei sottoporvi una mia critica, che ho già espresso in un'altra sede. Non voglio entrare nel problema che riguarda il fatto se i poteri del Presidente sono troppi oppure pochi. Credo che le grandi democrazie moderne, che hanno adottato una forma di Governo parlamentare, vedono una riduzione dei poteri del Capo dello Stato. Basta guardare a tutte le forme di Governo parlamentare, da quelle monarchiche a quelle repubblicane, per capire come questa linea di tendenza sia molto netta.

Tuttavia, vi sottopongo il problema che non appare condivisibile l'eliminazione della firma ministeriale su alcuni atti perché il sistema resta un sistema in cui gli atti del Presidente della Repubblica sono privi di responsabilità e la controfirma del ministro o del Presidente del Consiglio serve appunto all'assunzione di responsabilità rispetto ad atti che incidono nell'ordinamento, ma per i quali il Presidente, ai sensi dell'articolo 90, non è responsabile.

L'articolo 89, terzo comma, che elimina la controfirma del Primo ministro o dei ministri su alcuni atti del Presidente, mi pare un'incoerenza sistematica, perché rimarrebbero degli atti nell'ordinamento senza nessun soggetto responsabile.

Per quanto riguarda la Corte costituzionale, mi sembra positivo che si rimanga a quindici membri, ma probabilmente bisogna tornare alla nomina dei giudici di provenienza parlamentare da parte del Parlamento in seduta comune.
Sul tema della composizione del Senato e del federalismo, il testo è chiaramente carente, perché deriva dal Senato e dai senatori e recepisce in molti punti la vecchia logica del Senato di garanzia. Molti elementi fortemente discutibili (quali l'elezione dei membri del CSM da parte del Senato, l'elezione di tutti i giudici della Corte costituzionale da parte del Senato) non si spiegano nella logica del Senato rappresentante dei territori, ma si spiegano se si pensa che la discussione è sempre stata quella di un Senato quale Camera di garanzia. Allora, sono rimasti alcuni elementi di questo tipo che hanno portato all'aberrazione, come quella dell'elezione dei membri del CSM da parte del Senato.

Bisogna prendere atto che la logica del «Senato di garanzia» non ha senso. Primo, perché non vedo perché una Camera debba essere di garanzia, come se l'altra non lo fosse. Secondo, perché, nel sistema che si va creando, la logica che ci occorre è quella di un Senato che rappresenti i territori. Come rappresentarli?

Voi sapete meglio di me come vi sia una richiesta forte dal parte del mondo regionale, e anche da una parte della dottrina, di un Senato composto sul modello Bundesrat, cioè di delegati dei governi regionali. Mi pare che questa posizione sia politicamente poco percorribile, ma abbia anche delle difficoltà di tipo costituzionale: vi segnalo che in Germania, oggi, una apposita commissione sta discutendo la riforma del federalismo, dove fra l'altro è presente proprio questo punto dei poteri del Bundesrat.
L'idea della contestualità poteva essere interessante, perché significava legare insieme i momenti elettorali; certo, la contestualità affievolita è assolutamente un paradosso, è assolutamente una cosa priva di senso. Se contestualità ci deve essere, i senatori devono essere eletti sempre e contemporaneamente insieme ai consigli regionali da cui provengono. Eventualmente, anche con meccanismi di collegamento elettorale, ma su questo forse si può rinviare alla legge elettorale.

A me parrebbe altrettanto importante e significativo introdurre la presenza dei presidenti delle regioni nel Senato. Questo perché è l'unico modo per «controllare» l'esercizio delle amplissime discrezionalità regionali, e riportare al centro la discussione.
Sarei d'accordissimo con la costituzionalizzazione di un meccanismo di governance e su un richiamo al sistema delle conferenze. Temo però, da un punto di vista politico, che affrontare oggi il discorso sulla costituzionalizzazione delle conferenze significherebbe abbandonare ogni ipotesi di federalizzazione, di rafforzamento della rappresentanza dei territori da parte del Senato. Quindi, come dire, cosciente che quella è una soluzione, non credo che politicamente vada affrontata in questo momento. Si tratta naturalmente di una mia opinione.

L'articolo 117 della Costituzione. Il testo attuale di questo articolo rappresenta un problema. Tuttavia, il disegno di legge costituzionale approvato dal Senato ha fatto una scelta molto netta: la scelta di non modificare l'elenco delle materie. Voi sapete meglio di me che l'elenco delle materie è stato fortemente discusso, sia dall'attuale maggioranza, sia dall'attuale opposizione.Il Governo, nel 2003, aveva presentato un disegno di legge in cui ripensava l'organizzazione per materie dell'articolo 117. Quella proposta del Governo si è fermata.
L'idea è quindi, evidentemente, quella di non toccare l'articolo 117. Da costituzionalista studioso della materia, devo dire che l'attuale articolo 117 crea molti problemi. La giurisprudenza della Corte costituzionale è esemplificativa sul punto. Capisco tuttavia le difficoltà politiche. Esse consistono nel fatto che basta prendere anche solo una materia, e spostarla nell'elenco delle materie di competenza esclusiva dello stato, che questo si porterebbe dietro un «trenino» di altre materie che renderebbe l'operazione politicamente impraticabile.
Vi segnalo che c'è uno spunto interessante nel testo approvato dal Senato, anche se forse va perfezionato: si tratta del richiamo alla tecnica degli accordi, non solo per i beni culturali, ma anche per l'energia, le professioni e forse, le grandi reti di trasporto. Questo è un pò costituzionalizzare le due sentenze della Corte costituzionale che hanno cercato di mettere ordine in questa materia: la sentenza n. 303 del 2003 e la sentenza n. 6 del 2004.
Per quanto riguarda il tema devolution, personalmente non riesco a vedere in questo tema, nè le conseguenze drammatiche che qualcuno paventa, né la grande modifica che qualcun altro ipotizza. Molto rapidamente: organizzazione e assistenza sanitaria, secondo alcune teorie sono già parte della potestà legislativa esclusiva, ma in ogni caso, a prescindere dalla collocazione, rimane ferma la determinazione dei livelli essenziali in capo allo Stato, e quindi il quadro della potestà esclusiva regionale avviene all'interno di quella competenza.
Lo stesso vale per le competenze organizzazione scolastica, gestione degli istituti, e definizione dei programmi scolastici formativi di specifico interesse della regione, che avvengono nel quadro delle norme generali sull'istruzione, di competenza dello Stato, nonchè della determinazione dei livelli essenziali, sempre di competenza dello Stato. Su questo ricordo che il testo Moratti ha già previsto che le regioni possono intervenire sulla parte di programma di interesse regionale; vi ricordo altresì la sentenza della Corte costituzionale n. 14 del 2004, che ha ritenuto che fosse di competenza delle regioni la distribuzione del personale all'interno degli istituti scolastici. Quindi ciò è già nel quadro costituzionale vigente.

Il tema della polizia locale è più delicato, ma qui il problema è che la competenza regionale avrebbe sopra di sé la potestà statale (in tema di ordinamento penale e giudiziario, di ordine e sicurezza pubblica), e verso il basso deve comunque fare i conti con le competenze in materia di polizia amministrativa. Devo dire quindi che non trovo questa modifica, né in un senso, né in un altro, tale da poter spaventare, né da una parte, né dall'altra.
Richiamo la vostra attenzione sull'articolo 118, sotto il profilo del riferimento alle autonomie funzionali. Lo trovo positivo, perché nel sistema italiano ogni tanto c'è l'idea che il pluralismo sia solo quello istituzionale. L'articolo 114, ed alcune interpretazioni di tale articolo, si muovono nel senso di un pluralismo solo istituzionale: ricordo che il decreto legislativo n. 616 del 1977 prevedeva che solo agli enti territoriali potessero essere date funzioni amministrative. Allora, per evitare che questo fiume carsico di un idea giacobina, secondo la quale il pluralismo è solo istituzionale (e non anche sociale), ogni tanto riemerga, mi sembra positivo l'aggancio delle autonomie funzionali nell'articolo 118.
Concludendo il mio intervento, vorrei segnalarvi alcuni aspetti finali: primo, il problema del simul stabunt, simul cadent. Esso è stato affrontato, è uno degli argomenti di grande difficoltà degli statuti regionali. L'articolo 37 del disegno di legge prevede di modificare l'articolo 126 ultimo comma della Costituzione, temperandolo nel caso di morte o impedimento. Viene previsto che o un vicepresidente, o un presidente eletto dal Consiglio regionale, possa subentrare. Al Senato vi è attualmente una proposta Vizzini-Bassanini, che prevede il temperamento di questa regola, anche nel caso di impedimento del presidente, legato alla assunzione di compiti e funzioni di particolare rilievo (presidente del consiglio, ministro, eccetera). Anche questo mi pare un argomento da tenere in considerazione.
Vi segnalo poi il problema delle norme transitorie. Esse sono importanti, ma in esse si possono annidare incostituzionalità. Le norme transitorie rappresentano un passo avanti rispetto alla riforma operata con la legge n. 3 del 2001, ma proprio in esse si potrebbero annidare delle incostituzionalità. Il testo non dice nulla su quando scatterà (se cioè nel 2011 o nel 2010), perché non lo può dire, in quanto non può prevedere se ci saranno o non ci saranno scioglimenti nella prossima legislatura.

Ora, a parte le considerazioni tutto sommato condivisibili del professor Pizzetti circa questa riforma, che scatterebbe fra un numero di anni imprecisato (e quindi, come dire, veramente la politica poi non può giocare da qui a dieci anni), vi segnalo anche il problema che in questo quadro l'eliminazione del potere di scioglimento del Senato nella prossima legislatura non ha senso. Per quale ragione il Senato, fra il 2006 e il 2011, non deve essere sciolto? Perché? Perché, se rimane un Senato eletto nello stesso modo e comunque il meccanismo di elezioni contemporanee di senatori e consigli regionali? Questo è un nodo che non riesco a capire. Naturalmente, l'altro problema è che è difficile creare un Senato di 200 membri con la legge elettorale attuale, e quindi qui c'è il rischio che la legge elettorale per il Senato non si faccia mai.

Un altro problema ancora è quello della disposizione transitoria perché la proposta in esame non dice nulla riguardo a quando avverrà l'elezione dei consigli regionali; in tal modo, la legislatura regionale, se tutto funziona in ordine, durerebbe solo un anno.
Pur essendo sottintesa l'idea di una proroga delle legislature regionali, la mancata previsione della stessa potrebbe essere problematica ed è forse il caso che venga inserita una norma transitoria che preveda che le elezioni del consigli regionali e del Senato scattino insieme, fermo restando che, a mio avviso, appare molto grave e criticabile sia la composizione del Senato sia il meccanismo di contestualità affievolita.

 

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Caravita di Toritto per la relazione testé illustrata e do la parola ai colleghi che intendono intervenire.

 

GIANCLAUDIO BRESSA. Nel ringraziare il professore per gli spunti molto interessanti che ci ha offerto, vorrei porre alcune domande. La prima attiene alle disposizioni transitorie, che, più che tali, sono, per quanto vi è sotteso, un vero e proprio nido di vespe. Mi interessa conoscere la sua opinione riguardo al comma 12 dell'articolo 42 del testo approvato dal Senato, che è assolutamente incomprensibile: è possibile che, con una norma transitoria, che recita che «le disposizioni di cui al comma 11 si applicano in via transitoria anche nei confronti delle Regioni nelle quali, alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale, siano già entrati in vigore i nuovi statuti regionali (...)», si va a togliere efficacia agli statuti regionali che hanno già sciolto il nodo del simul simul?
Concordo con lei riguardo al rischio che si annida nel momento in cui si costituzionalizza il principio di governance e la Conferenza Stato-regioni, quello cioè di affievolire la possibilità di risolvere la questione del Senato federale, ma ritengo che il realismo ci imponga di non dimenticare che, una volta che il testo sarà approvato dalla Camera, ritornerà al Senato ed è quindi molto complicato immaginare ipotesi e soluzioni che possano prevedere una qualsivoglia forma di dissoluzione del Senato stesso.
Allora, piuttosto che continuare ad arzigogolare attorno a modelli improbabili, quale quello che uscito dal Senato, non potrebbe essere questa forse la soluzione meno dolorosa, in attesa che la questione della seconda Camera possa trovare una maturazione politica più piena?
Credo che mostri analoghi a quelli partoriti - non solo in questa occasione, ma ricordo anche le esercitazioni, piuttosto devianti, nel corso dei lavori della Bicamerale - relativamente alla Camera federale, dimostrino che probabilmente non siamo maturi per risolvere la questione.

È vero che la riforma del titolo V della Costituzione ci impone momenti di raccordo e di diversa definizione dei rapporti in essa contemplati, ma può darsi che questo sia il male minore rispetto all'immaturità della cultura politica in cui noi tutti ci troviamo a vivere in questo momento.

 

MARCO BOATO. Ringraziando il professor Caravita per le sue osservazioni ed associandomi a quanto rilevato dal collega Bressa, vorrei la sua opinione sull'opportunità di temperare l'articolo 94, terzo comma, con l'articolo 88, secondo comma, del testo approvato dal Senato. Più in particolare, quest'ultima previsione contempla l'ipotesi di presentazione di una mozione senza indicare alcuna ipotesi di parlamentarizzazione.
Sono d'accordo con lei sull'obiezione alla soppressione della controfirma. Credo, infatti, che la controfirma sia un atto di legittimità nei casi di potere esclusivo del Presidente della Repubblica ed è giusto che nell'ordinamento sia prevista un'attestazione di conformità dell'atto presidenziale. Se il Capo dello Stato nomina un giudice costituzionale che, per esempio, non è laureato in legge, è indispensabile che vi sia qualcuno che abbia il diritto di avvertire che per la controfirma sia necessaria una persona laureata in tale disciplina, fatta naturalmente salva la libertà del Presidente di scegliere chi vuole. Ricordo che, tra l'altro, abbiamo appreso che in Francia non vi è tale requisito per la nomina a giudice del Consiglio costituzionale.

 

BENIAMINO CARAVITA DI TORITTO, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la facoltà di scienze politiche dell'Università «La Sapienza» di Roma. Forse, però, tale requisito non è necessario perché deve trattarsi di professori in materie giuridiche.

 

MARCO BOATO. Era solo un esempio per ipotizzare che il Capo dello Stato nomini un giudice privo dei requisiti previsti dalla Costituzione. Comunque, in questi casi, è giusto che l'atto presidenziale sia controfirmato per attestarne la conformità all'ordinamento.
Circa quanto ha detto sulla nomina dei giudici costituzionali, vorrei avere la sua opinione riguardo a come il progetto approvato dal Senato ne ripartisce i poteri di nomina tra gli organi.
Concordo ancora con quanto rilevato sull'autonomia funzionale, ricordando, tra l'altro, che sono l'autore del testo originario sulla sussidiarietà orizzontale. Avendo peraltro sollevato l'esigenza che la Costituzione contenga, anche dal punto di vista stilistico, norme coerenti, mi chiedo se sia necessario aggiungere un comma all'articolo 118 della Costituzione che espressamente indichi tale concetto, quando basterebbe inserirlo nel quarto comma attualmente vigente.

Infine, vorrei conoscere la sua opinione su come è configurata la questione del cosiddetto interesse nazionale e sul ruolo del Governo e del Presidente della Repubblica e al rischio di politicizzazione recato dalle previsioni contenute nel testo della riforma, rischio sulla cui esistenza convengo.

 

PRESIDENTE. Do la parola al professor Caravita di Toritto per la replica.

 

BENIAMINO CARAVITA DI TORITTO, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la facoltà di scienze politiche dell'Università «La Sapienza» di Roma. Mi sembra che il senso dell'articolo 42, comma 11, del testo approvato dal Senato, se nulla viene previsto circa l'applicazione della norma, sia quello di fare in modo che la disposizione in esso contenuta non si applichi nel caso in cui una regione (come ad esempio, la Puglia) abbia già approvato lo statuto. Se il presidente muore o è impedito permanentemente, il presidente eletto con lo statuto potrà sempre dire di essere stato eletto sulla base dello statuto stesso e dichiarare che in tal caso non si applica la norma costituzionale. Qui, il problema è che lo statuto è stato scritto, perché non c'era altra soluzione. Ricordo che sulla questione le regioni si stanno scontrando drammaticamente. L'abrogazione delle parole «regolamentari» nell'ambito della legge costituzionale n. 1 del 1999 comportava che la potestà regolamentare passava subito alla competenza delle giunta o che, per tale conferimento, dovevano intervenire gli statuti? Non vorrei soffermarmi troppo a lungo ma vi ricordo che una tale problematica è aperta da ormai quattro anni.
Per quanto riguarda la Conferenza Stato-regioni ho preso in esame su Magna Charta gli Stati che si richiamano a modelli regionali e federali ed ho osservato che tutti hanno una seconda Camera in qualche modo rappresentativa delle regioni; rinunciare a tutto ciò significa abbandonare il sistema nel disagio.

Secondo me la Conferenza Stato-regioni, il cui utilissimo ruolo va potenziato e diversamente disciplinato, non risolve tutti i problemi di dibattito politico che un modello regionale impone; quindi, occorre una Camera di rappresentanza, mentre le relative valutazioni di opportunità politica spettano più a voi che a me.
Circa l'articolo 88, credo sia inammissibile una mozione senza un voto parlamentare, quindi se su ciò vi è un dubbio, è opportuno che venga chiarito.
Io penserei ad un richiamo dell'articolo 88 all'interno dell'articolo 94. La formula dell'articolo 94, secondo comma, secondo cui si applica l'articolo 88, di massima si può ripetere anche nell'articolo 94, terzo comma.

Per quanto riguarda la nomina dei giudici costituzionali rimango legato ad un vecchio articolo di Mortati in cui egli sosteneva che la composizione della nostra Corte costituzionale è da considerarsi di mirabile equilibrio. Non mi scandalizzerei se venissero apportate modifiche, in ogni caso credo che la composizione attuale della Corte costituzionale sia sostanzialmente equilibrata e può tranquillamente essere mantenuta.
Per quanto riguarda il meccanismo di interesse nazionale ha ragione l'onorevole Boato quando sostiene che è estremamente macchinoso, lungo e coinvolge il Presidente della Repubblica. In questo caso si potrebbe pensare a richiamare il tradizionale meccanismo relativo all'ordinamento tedesco per cui si possono approvare leggi delle due Camere che intervengono in casi particolari dettate da esigenze di unità.
Il problema delle normative cedevoli nelle materie di legislazione regionale sta diventando molto grosso. La maggior parte della dottrina e la giurisprudenza ritiene che non possano esistere norme di dettaglio dello Stato nelle materie di legislazione concorrente. Ciò, fa sì che se, ad esempio, viene introdotto un nuovo principio in materia di aeroporti esso rimarrà «appeso» fino a che la regione Molise non gli darà attuazione.
Bisognerebbe introdurre il principio secondo cui lo Stato, quantomeno nelle materie di legislazione concorrente, può intervenire con norme di dettaglio, naturalmente cedevoli rispetto al successivo intervento regionale.
Infine, debbo dire che non riesco a capire la ratio relativa all'abrogazione dell'articolo 116, terzo comma della Costituzione. Il regionalismo italiano è differenziato nei fatti e quel meccanismo permette una maggiore elasticità nel caso possa rivelarsi utile.
Inoltre, non avrei nulla in contrario per quanto riguarda i ricorsi della minoranza alla Corte costituzionale, come nel modello francese, austriaco, tedesco e spagnolo.


 

Aldo Loiodice, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Bari.

 

PRESIDENTE. Il professor Loiodice ci ha fornito un intervento scritto e una serie di proposte emendative, conseguenza del suo ragionamento sull'argomento oggi in discussione.
Do ora la parola al professor Loiodice.

 

ALDO LOIODICE, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Bari. Signor presidente, onorevoli deputati, vi ringrazio per avermi invitato.

Nelle mie osservazioni scritte - che mi permetteranno di risparmiare molto tempo - ho evitato di ripetere riflessioni e spunti desumibili dagli interventi precedenti che in gran parte ho condiviso, specie laddove hanno manifestato sensibilità costituzionale e capacità critica.
Quindi, mi limito a segnalare solamente alcuni punti che, in gran parte, si collegano a quanto già detto dai deputati e dai colleghi che mi hanno preceduto.

Vi parlerò del riparto dei seggi relativamente al Senato federale (articolo 57, quarto comma); dell'elettorato passivo (articolo 58); dei senatori a vita (articolo 59); della mancata proroga in caso di guerra del Senato federale (articolo 60, secondo comma); del quorum strutturale per le deliberazioni del Senato federale (articolo 64, terzo comma); dello statuto, dei diritti delle opposizioni e dei regolamenti parlamentari su questi temi (articolo 64); dei profili attinenti al ruolo dei parlamentari e, più in particolare, del profilo iniziale della convalida (articolo 66) e della formula relativa al profilo del mandato imperativo (articolo 67).
Riguardo la funzione legislativa mi soffermerò sul divieto di emendamenti (articolo 70, terzo comma) e sulle questioni di competenza (articolo 70, ultimo comma). Per quanto riguarda il Presidente della Repubblica mi occuperò della controfirma (articolo 89), e del giuramento dei ministri nelle sue mani (articolo 93).

Per quanto riguarda la forma di Governo concentrerò la mia attenzione sui poteri del Primo ministro e lo scioglimento delle Camere (articolo 88).

Mi occuperò poi del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, della reintroduzione degli obblighi internazionali come vincolo per la legislazione, dell'interesse nazionale e infine, per quanto riguarda le garanzie, del riparto dei giudici costituzionali e delle incompatibilità successive alla scadenza del mandato di giudice costituzionale, che considero una sanzione postuma.

Per quanto riguarda il riparto dei seggi relativi al Senato federale sarebbe opportuno un sistema paritario.

Il collegamento dell'elettorato passivo (articolo 58) alla qualifica rivestita di consigliere in carica o già consigliere, potrebbe essere rivisto, non avendo la funzione di radicare il Senato nel territorio ma solo un carattere estetico. Sarebbe opportuno riesaminare una serie di profili, tuttavia, se si rimane con questo testo e si chiede solo di suggerire emendamenti, allora, qualcuno bisogna indicarlo. Questa funzione estetica del collegamento con il consigliere comunale, regionale o provinciale, cioè la limitazione dell'elettorato passivo ad un numero così ristretto, non attribuisce al Senato un rapporto con il territorio, bensì riduce il numero dei potenziali eleggibili. Quindi, la ritengo una soluzione non comprensibile. Oppure, si potrebbe anche accogliere questa ipotesi lasciando che siano i consigli provinciali, comunali e regionali a stilare un elenco degli eleggibili ogni anno. In questo modo, almeno, farebbero qualcosa per avere un rapporto con il Senato!

 

MARCO BOATO. L'alternativa a tutto questo è avere la residenza un giorno prima!

 

ALDO LOIODICE, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Bari. Appunto! Come ho precisato all'inizio, non intendo dilungarmi oltre in ricostruzioni teoriche. Per ragioni di celerità di esposizione preferisco esprimere il concetto e poi, ognuno, potrà accoglierlo nelle sfumature che desidera.
Per quanto riguarda i senatori a vita, non capisco perché debbano essere solo tre quando poi il Presidente della Repubblica, per altro verso, ha un potere più elevato in altre questioni.
Per quanto riguarda la proroga in caso di guerra solo per la Camera dei deputati, mi domando perché si proceda a tale proroga: in caso di guerra è preferibile non fare elezioni! Allora, perché non si proroga anche il Senato, contestualmente ai consigli regionali, se proprio la contestualità deve rimanere in questi termini e con queste modalità?

 

MARCO BOATO. In quel modo si prorogano anche i consigli regionali!

 

ALDO LOIODICE, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Bari. Difatti, oppure «si spacca» la contestualità! In altre parole, il Senato federale è un problema che va risolto. Comunque, se in caso di guerra si fanno venti elezioni di consigli regionali, a questo punto, possono farsi anche quelle per la Camera. In un unico giorno si vota tutto: o non si vota, in caso di guerra, o votano tutti!
Comunque, non mi faccia il cosiddetto «tiraggio»! Alle provocazioni, poi, sono costretto a rispondere pur in mancanza di tempo!

 

PRESIDENTE. In Puglia lo chiamiamo tiraggio!

 

ALDO LOIODICE, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Bari. Per quanto riguarda il quorum strutturale, di cui all'articolo 64, terzo comma, in sostanza, la validità delle deliberazioni del Senato si ha quando sono presenti i due quinti dei componenti: inspiegabile! Per quale ragione? Perché non deve essere presente almeno la maggioranza?

 

MARCO BOATO. Perché le regole se le sono scritte i senatori che sono sempre senza numero legale!

 

ALDO LOIODICE, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Bari. Per quando riguarda i diritti delle opposizioni, di cui all'articolo 64, quarto comma, mi chiedo come si può attribuire il relativo statuto al regolamento parlamentare, approvato dalla maggioranza. Insomma, se la maggioranza vuole, concede qualche cosa, altrimenti non concede nulla! Se vogliamo rimanere con questo testo, per le disposizioni attinenti allo statuto delle opposizioni, si dovrebbe perlomeno prevedere, magari, una maggioranza di due terzi o di tre quinti, insomma, una maggioranza tale da inglobare le opposizioni nell'adozione o nella modifica di tale statuto: almeno questo!

In alcuni vostri interventi ho riscontrato delle proposte molto interessanti che andrebbero utilizzate e inserite nel testo, anche se in maniera sintetica. Questo testo, infatti, presenta alcune ridondanze che andrebbero eliminate (quando, invece, sono necessarie non ci sono).
Passando all'articolo 66, si deve segnalare che, mentre per la Camera dei deputati l'insussistenza dei titolo o la sussistenza delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità dei parlamentari sono accettate con deliberazione adottata a maggioranza dei tre quinti dei componenti l'Assemblea per il Senato federale, invece, si richiede la maggioranza dei componenti. Mi limito a segnalare questo.
Per quanto riguarda il divieto di mandato imperativo, articolo 67, interviene la Nazione come ulteriore entità rappresentata dai parlamentari. Tuttavia, la Nazione è un concetto diverso da quello di Repubblica (l'ho spiegato nel mio scritto). Si potrebbe, al fine di evitare ogni problema interpretativo, affermare semplicemente che ogni parlamentare esercita le proprie funzioni senza vincolo di mandato. Utilizzando i termini Nazione e Repubblica, la dottrina dovrà impegnarsi per spiegare il loro utilizzo contestuale.
Per quanto riguarda l'articolo 70, terzo comma, ultimi due periodi, ho delle perplessità riguardo all'ultima frase, laddove si prevede che sul testo proposto dalla Commissione paritetica non sono ammessi emendamenti. Questo è un aspetto ampiamente criticabile! Non è immaginabile che i meccanismi di eliminazione della dialettica parlamentare si moltiplichino (già ce ne sono molti). Si può rinviare, così come propongo negli emendamenti che ho presentato, al regolamento parlamentare, la definizione di meccanismi di accelerazione o di riduzione del tempo. Questa è certamente una soluzione più ragionevole.

Per quanto riguarda poi le questioni di competenza - articolo 70, ultimo comma - in effetti si pongono dei problemi relativamente alla competenza perché vi è, per legge, una distinzione per materie: è già difficile individuare le materie per cui, in caso di conflitto, qualcuno lo deve risolvere, ossia i presidenti o un comitato paritetico. La cosa può anche andare bene, però non si può affermare che la decisione non è sindacabile solo in sede legislativa perché si creano problemi di costituzionalità. Se, infatti, solo le leggi sono estromesse dal sindacato sulla competenza, a fronte dei conflitti di costituzionalità sollevati da ognuno, la Corte verrebbe investita di ogni questione solo perché è competente! Allora, o la questione viene risolta, definitivamente, secondo un'interpretazione unica non sindacabile (in questo caso, alla Corte non si può ricorrere), oppure, si deve prevedere un altro meccanismo! Al contrario, affermare che, in sede legislativa, la competenza non è attivabile è inutile, perché rimane sempre l'attivazione costituzionale!
La previsione dell'eliminazione della controfirma, di cui all'articolo 89, terzo comma, del ministro responsabile richiederebbe una riflessione molto più ampia. Comunque, quanto meno, per la concessione della grazia da parte del Presidente della Repubblica perché la controfirma non dovrebbe esserci? Lo stesso discorso valga per lo scioglimento della Camera: perché non dovrebbe esserci una controfirma? Il problema della controfirma esiste. Inoltre, in alcuni casi, per alcuni atti, l'istruttoria viene fatta dagli uffici ministeriali e le carte passano poi al Presidente che firma. Un po' di esperienza pratica deve essere tenuta in conto; non si può fare un testo della Costituzione senza sapere come funziona il mondo! Va bene, non si mette la controfirma, ma perché? Chi fa l'istruttoria? Il Presidente che fa? Non mi trattengo oltre su questo punto.

Per quanto riguarda il giuramento dei ministri, il Primo ministro giura nelle mani del Presidente della Repubblica: questo mi pare doveroso. Tuttavia, i ministri sono nominati e revocati dal Primo ministro. Allora, se questo rapporto è forte, il giuramento è opportuno che avvenga per i ministri nelle mani del Primo ministro. Perché si deve andare dal Presidente della Repubblica? Questo è un fatto, ovviamente, puramente estetico.
Il punto della forma di Governo riguardante i poteri del Primo ministro e la richiesta di scioglimento è quello più delicato. Ebbene, bisogna cambiare impostazione. Noi non viviamo né sotto un regime presidenziale, né sotto un regime parlamentare; siamo di fronte ad una sorta di innovazione costituzionale originale (che potrebbe essere anche apprezzata), salvo il fatto che il Primo ministro è tutto! È Parlamento, Governo, politica e anche opposizione (perché se governa la maggioranza, approva lo statuto delle opposizioni con essa). Mi pare eccessivo; lo rilevo dal punto di vista puramente tecnico.
Sarebbe opportuno - poiché il Primo ministro concentra in sè molteplici poteri, ed essendovi la contemporanea esigenza di definire un impianto capace di assicurare stabilità, ma anche il collegamento tra Presidente del Consiglio e maggioranza di Governo - che la previsione riguardante il potere di richiedere lo scioglimento fosse espunta dal provvedimento approvato dal Senato.

Del resto, un meccanismo idoneo a garantire efficienza e stabilità governativa esisterebbe già: quello fondato sul principio per cui le dimissioni presidenziali, seguite ad un voto non conforme alla proposta presentata dal Governo, determinerebbero il conseguente scioglimento della Camera. Pertanto, non comprendo le ragioni che inducono ad introdurre questa ulteriore possibilità.

Senza dilungarmi oltremodo in materia, vorrei soffermarmi su un'ultima considerazione. In un sistema come questo, cioè maggioritario, in cui candidati non vengono scelti con le elezioni primarie, ma nei modi che conosciamo, vi è un forte rischio di assoggettare la maggioranza parlamentare al Primo ministro. Come è avvenuto, accadrà, infatti, che il leader della coalizione esprimerà il suo consenso sui candidati della propria maggioranza: quel consenso diviene, così, condizione imprescindibile per l'inserimento della candidatura all'interno delle liste collegate al candidato Primo ministro. Al momento del rinnovo della legislatura, quello stesso candidato, per poter essere rieletto, sarà necessariamente soggetto e condizionato dall'approvazione del leader di riferimento, senza la quale non verrebbe riconfermato in carica.

Voi capite benissimo questo meccanismo, in ragioni del quale si afferma un totale assoggettamento della maggioranza parlamentare alla esclusiva volontà politica del suo leader. Tutto ciò mi pare eccessivo.

Proseguendo nella mia analisi, in collegamento a quanto appena evidenziato, vorrei indicare un'altra previsione che a mio avviso potrebbe ben essere eliminata, quella di cui all'articolo 88, lasciando inalterato tutto il resto, qualora lo si ritenga opportuno.
Per quanto riguarda il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, oltre al problema economico, se ne pone uno ulteriore; infatti, la norma, esattamente l'articolo 104, prevede che costui possa essere scelto tra tutti i componenti del Consiglio stesso. Ciò significa che anche un magistrato potrà diventare vicepresidente del Consiglio superiore.

Poiché la composizione del Consiglio superiore della magistratura è tale per cui il numero dei giudici è superiore a quello dei membri laici - infatti, la composizione del Consiglio superiore rimane del tutto invariata - ciò provoca uno squilibrio complessivo nell'organo. Tale squilibrio, peraltro naturale in ragione dell'autonomia di cui gode il Consiglio, rischia, però, di divenire eccessivo. Sarebbe, pertanto, opportuno che il vicepresidente fosse scelto tra gli eletti dal Parlamento.

Vengo poi all'articolo 117, primo comma, il quale, a Costituzione vigente, prevede che la potestà legislativa sia rispettosa non solo dei vincoli comunitari ma anche degli obblighi internazionali. I dubbi sorti intorno a tale disposto hanno condotto, nel testo in esame, a sopprimere il riferimento a questo vincolo. Tuttavia, tale eliminazione appare pericolosissima, per il semplice fatto che non è sufficiente l'articolo 10 della Costituzione per garantire il rispetto dei trattati internazionali, con il principio pacta sunt servanda. È bene dirlo chiaramente: le leggi debbono rispettare i trattati, ovviamente quelli di cui all'articolo 80 della Costituzione, cioè i trattati approvati con leggi. Non si può immaginare, dopo aver approvato un trattato internazionale e averlo ratificato per legge, che il giorno successivo il Parlamento o la regione possano adottare un provvedimento normativo che statuisca esattamente il contrario di quanto contenuto nel trattato stesso, stipulato poco prima. Non è sufficiente, per evitare tale rischio, il mero richiamo all'articolo 10 della Costituzione; né è concepibile vanificare quel cammino faticoso che la stessa giurisprudenza costituzionale ha compiuto per affermare che i vincoli internazionali non possano essere ignorati con leggerezza dal legislatore ordinario. Pertanto, ciò che è stato tolto, ritorni nel testo dell'articolo 117.

Per quanto riguarda l'interesse nazionale, molto si è detto in proposito. Qualora lo si voglia mantenere nel testo, mi domando perché debba essere valutato dal Senato federale che, in teoria, esprime l'orientamento delle regioni. Una legge che violi l'interesse nazionale dovrebbe, più propriamente, essere valutata dalla Camera dei deputati, che è l'organo preposto alla legislazione avente rilievo nazionale. Anche questo è un problema che, ovviamente, si ricollega al disegno complessivo di riforma. Infine, a proposito del riparto dei giudici costituzionali, ho già detto che l'attuale composizione mi pare preferibile per molte ragioni, mentre in relazione all'incompatibilità successiva alla scadenza del mandato di giudice costituzionale, la previsione appare eccessiva e sotto certi aspetti inutile. Innanzitutto, sembra inconcepibile che, decorsi i nove anni di mandato, un giudice costituzionale, una volta ritornato nelle vita professionale, universitaria, sociale, non possa avere ingresso in nessun circuito politico del management pubblico, potendo, invece, farlo in quello privato. Eppure, nessuno può garantire che un giudice costituzionale, negli ultimi tre anni di mandato, ad esempio, possa essere stato influenzato anche da appetiti attinenti al mondo privato. In tal senso, la previsione mi sembra del tutto inutile.

 

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Loiodice per l'intervento e la relazione trasmessa a questa Commissione, certamente utile nello svolgimento dei nostri lavori. L'onorevole Boato desidera, forse, intervenire?

 

MARCO BOATO. No, signor presidente, si è trattato di un errore. Del resto, il professore è stato sufficientemente esaustivo e chiaro negli argomenti trattati; in ogni caso, per eventuali profili non toccati dal suo intervento, ricorreremo alla relazione scritta, che ci consentirà di analizzare, in modo più compiuto e dettagliato, i nodi problematici relativi al disegno di legge approvato dal Senato.


 

Maria Elisa D'Amico, professore straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università dell'Insubria.

 

MARIA ELISA D'AMICO, Professore straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università dell'Insubria. Ringrazio il presidente e gli onorevoli deputati per avermi convocata in questa sede; certamente, chi interviene da ultimo ha perlomeno l'onere di sintetizzare al meglio il proprio intervento, con la maggior chiarezza possibile.

Cercherò di riuscirvi, avvalendomi in ogni caso del testo scritto che ho redatto per questa occasione. Mi riserverò, se possibile, di svolgere ulteriori approfondimenti, qualora si rivelasse necessario. Il mio testo è dedicato soprattutto ad un'analisi dei problemi relativi al rapporto fra Stato e regioni, articolata in tre punti. In primo luogo, mi sono concentrata principalmente sul significato della cosiddetta devolution e delle modifiche relative alle competenze esclusive regionali, alla luce degli interventi interpretativi compiuti dalla Corte costituzionale sulla riforma del Titolo V. Attualmente, infatti, non possiamo più leggere, come si faceva fino a solo un anno fa, il rapporto tra legislazione statale e regionale di cui all'articolo 117 in modo astratto, essendo piuttosto necessario comprenderne la valenza e le implicazioni soprattutto al reticolo interpretativo posto in essere dalla Corte costituzionale nell'ultimo anno. Vi spiegherò, dunque, quale significato attribuire, secondo la mia interpretazione, alla devolution considerata in questi termini.

In secondo luogo, intenderei affrontare il punto relativo all'interesse nazionale, questione molto problematica; infine, tratterò dei problemi creati dalla previsione del Senato federale - che secondo molti, cui il mio modesto parere si allinea, potrebbe essere anche più «federale» - ivi incluse le implicazioni sull'assetto della forma di Governo, come concepita dal disegno di legge.

In ordine al tema della devolution, ovvero a proposito delle modifiche da apportare all'articolo 117, quarto comma, della Costituzione, mi sono resa conto che parte delle preoccupazioni iniziali - comprensibili allorché, quella sull'articolo 117, pareva configurarsi come una modifica unica ed autonoma del titolo V della Costituzione - attualmente non avrebbero più motivo di sussistere, alla luce dell'impalcatura globale della riforma. In realtà, quello di cui soprattutto dovremmo preoccuparci - almeno a livello scientifico - è comprendere quale tipo di operazione ermeneutica la Corte costituzionale abbia compiuto, a partire da alcune decisioni importanti recentemente intervenute. Sembra essersi infatti verificata una netta e percepibile inversione di rotta della Consulta rispetto al filone giurisprudenziale inaugurato trenta anni fa.

La giurisprudenza costituzionale degli anni Settanta, si diceva, si è qualificata per aver svuotato di gran parte del suo significato la previsione di materie di competenza regionale, in seguito ad una protratta valorizzazione delle prerogative centrali. Rispetto a tale impostazione, invece, la giurisprudenza odierna sul nuovo Titolo V, se in parte concede allo Stato, in altra concede alla regioni, apparendo molto più equilibrata che in passato. Nel panorama attuale, si profilano però anche alcune tendenze significative che creano, a mio avviso, una trasformazione - in via interpretativa - della norma che tutti i costituzionalisti ritenevano essere la disposizione centrale della riforma del Titolo V. Mi riferisco, ovviamente, all'articolo 117, quarto comma, secondo il quale tutte le materie non nominate sono di esclusiva spettanza delle regioni.

La giurisprudenza costituzionale modifica profondamente il significato dell'articolo 117, quarto comma; nella mia relazione, ovviamente, cito tutte le sentenze relative e porto una serie di argomenti, opinabili ma sui quali ho maturato una certa convinzione.
Faccio riferimento, in modo molto sintetico, a tre filoni di giurisprudenza.
Nel primo, la giurisprudenza della Consulta avvalora l'esistenza di materie di esclusiva spettanza dello Stato che non devono essere considerate «materie», ambiti oggettivi definibili ma «funzioni». In pratica, esse sono in grado di penetrare in qualsiasi materia, e perciò anche in quelle di competenza esclusiva delle regioni; è una giurisprudenza in parte condivisibile, ma che in alcuni casi ha un impatto pesante, arrivando a consentire allo Stato di riappropriarsi, se vogliamo sposare questa interpretazione, di spazi che ormai si ritenevano pacificamente conferiti alla autonomia legislativa esclusiva delle regioni.
Il secondo filone è costituito, almeno per ora, da due sentenze molto problematiche - le ho criticate molto ed in varie sedi - in tema di sussidiarietà; in esse, la Corte costituzionale, praticamente, trasforma profondamente il significato della sussidiarietà. Da principio che nasce e deve essere applicato a livello amministrativo, avvicinando il potere pubblico al livello più vicino ai cittadini (quindi, un principio che spiega la sua natura a partire dal basso) si trasforma in principio che può consentire allo Stato di riappropriarsi di funzioni dall'alto. Inoltre, da un principio operante del diritto amministrativo, con la sentenza n. 303 del 2003, confermata dalla sentenza n. 6 del 2004, diventa un principio che può consentire allo Stato anche di riacquisire in via esclusiva competenze legislative concorrenti o, addirittura, esclusive delle regioni. Quindi, anche questo è un grimaldello con cui la Corte crea uno strumento tecnico per consentire allo Stato di riappropriarsi, pian piano, di poteri che si ritenevano pacificamente conferiti all'autonomia regionale.
Circa il terzo filone, più teorico, sarò molto sintetica (ma, per fortuna, spero di averlo chiarito sufficientemente nel testo scritto); vi sono due sentenze interessanti della prima giurisprudenza del 2002 in cui la Corte dichiara che il termine Parlamento non può essere utilizzato per i Consigli regionali. In altri termini, nei nuovi statuti regionali, non si può utilizzare il termine Parlamento in quanto il legislatore nazionale ha una qualità, una sostanza e, quindi, anche un nome diverso rispetto a quello regionale. Sono sentenze molto interessanti, anche queste molto discusse; evidentemente, noi pensiamo subito al fatto che, invece, in uno Stato davvero federale - per esempio, quello tedesco - tutti i singoli Länder, nel loro statuti, utilizzano tranquillamente il termine Parlamento, e nessuno si è mai scandalizzato. Quindi, anche ciò è un aspetto significativo; se qualifico diversamente l'organo, chiaramente devo dare una qualità diversa anche alla fonte. Quindi, è chiaro che questa giurisprudenza della Corte, in pratica, tende sempre, a mio avviso, a far sì che la legislazione statale abbia un peso ed un contenuto diverso rispetto a quella regionale.
Mi rendo conto di fare dichiarazioni che, espresse in tale modo, possono apparire alquanto gravi; ma voglio sostenere questa tesi in quanto mi convince scientificamente. Vi è tutta una giurisprudenza della Corte - le sentenze sono citate nel lavoro - in cui la Consulta, praticamente, fa esprimere all'articolo 117, quarto comma, esattamente il contrario del suo significato letterale. Ovvero, la Corte dichiara che la circostanza che una materia non sia nominata non significa che essa appartenga alla potestà esclusiva della regione. Quindi, sulla base di questo assunto, che esprime l'esatto contrario di quanto letteralmente dichiara l'articolo 117, comma quarto, la Corte riconduce alla potestà concorrente (ed in alcuni casi addirittura alla potestà esclusiva statale), materie importanti che la dottrina assegnava pacificamente alla potestà esclusiva delle regioni perché non erano previste dall'articolo 117, né al secondo né al terzo comma. Si pensi alla materia urbanistica, che la Corte riconduce al governo del territorio; a quella dell'edilizia; a quella dei lavori pubblici. Vi è, inoltre, una sentenza ulteriormente significativa in tema di mobbing; al riguardo, l'argomento della regione era il seguente.

Trattandosi, secondo quanto sostenuto dalla maggioranza della dottrina, di un fenomeno socialmente nuovo, come tutte le materie nuove esso avrebbe dovuto rientrare nell'elenco delle competenze esclusive regionali. La Corte dichiara che ciò non è assolutamente scontato; anzi, pur riconoscendolo come fenomeno socialmente nuovo, il giudice delle leggi riconduce il tema del mobbing ad una competenza statale già esistente. Dunque, pur essendo anch'io molto scettica circa la scelta di nominare alcune materie nell'articolo 117, quarto comma, tuttavia, alla luce di questa giurisprudenza costituzionale, nominare queste materie potrebbe significare, intanto, la necessità di sottrarle ad ulteriori interpretazioni riduttive da parte del giudice costituzionale. Comunque, si tratta, a mio avviso, di materie - l'assistenza scolastica, l'organizzazione sanitaria, la polizia locale - in cui gli aspetti di disciplina più minuti devono trovare una corrispondenza con i bisogni dei cittadini; materie che forse, nella storia della legislazione italiana, sono state anche eccessivamente centralizzate. Già più problematica, però, è la questione della polizia locale; anche in questo caso, tuttavia, esistono Stati federali in cui queste materie sono pacificamente assegnate a livello locale.

Non ritengo, però, che sia né corretto né possibile sostenere che la semplice introduzione esplicita di queste materie nell'articolo 117 provochi di per sé la sottrazione ai vincoli generali, cui tutte le maniere di competenza esclusiva regionale devono essere soggette. In particolare, trattandosi di materie che riguardano diritti sociali per eccellenza, è chiaro che l'istruzione e la sanità sono sicuramente soggette all'applicazione generale dei livelli minimi essenziali garantiti dall'articolo 117, secondo comma, lettera m).

Naturalmente, come ha già sottolineato il professore Caravita dianzi, l'introduzione esplicita di una potestà esclusiva delle regioni non può sovvertire l'assetto a più livelli che ognuna di queste materie contiene; dunque, a mio avviso, non è né fondato né possibile sostenere che, semplicemente nominando la materia istruzione al quarto comma, vengano meno il secondo ed il terzo comma dell'articolo 117. Si tratterà di ripartire le materie tra le diverse competenze; del resto, il fatto che una stessa materia possa essere frazionata tra legislazione esclusiva statale, legislazione concorrente e legislazione esclusiva regionale è un dato pacifico della giurisprudenza costituzionale. È proprio su tale campo che la giurisprudenza della Consulta si sta esercitando, soprattutto per quanto riguarda l'interpretazione del nuovo titolo V della Costituzione. Non condivido, in tale senso, le critiche in base alle quali si dichiara che si farebbe confusione. Invero, la confusione che si è verificata in questi ultimi due anni, alimentata anche dai conflitti costituzionali, non ha confronti nel passato. Quindi, non mi pare sussista tale problema.
Però, mi sembra, invece, importante lasciare alle regioni un nucleo minimo ma essenziale di materie, nucleo che potrebbe qualificare la regione come ente politico rispetto ai suoi cittadini, anziché come ente soltanto amministrativo. A tale riguardo penso all'esperienza di alcuni Stati federali; ad esempio, all'esperienza della Repubblica tedesca. Nella Repubblica tedesca la competenza esclusiva dei Länder in tema di istruzione è un dato pacifico ed è ammirabile una recente sentenza in cui il Bundesverfassuggericht - il giudice delle leggi tedesco - sostiene che, con riguardo al problema del velo nelle scuole, ogni singolo Land, in quanto comunità politica, deve fare una scelta, eventualmente anche drastica, tale da imporre poi precisi obblighi agli alunni e agli insegnanti; si dichiara, però, che è una scelta politica. Il giudice costituzionale tedesco ritiene perciò che vi siano certe scelte politiche - anche su temi importanti sui quali si misura il carattere stesso del pluralismo - che devono essere fatte dalle comunità territoriali. Quindi, questa è la lettura che ho dato della disposizione.

 

MARCO BOATO. Si prenda tempo per respirare, professoressa; non è un minuto in più o in meno che inciderà sull'economia dei lavori della Commissione.

 

MARIA ELISA D'AMICO, Professore straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università dell'Insubria. Sono abituata a parlare velocemente; in tal senso, sono forse rimasta influenzata dal mio maestro, il professore Onida; infatti, a lezione noi studenti, non capendo, gli chiedevamo a volte di fermarsi.
Vengo ora all'articolo 127; la disposizione del progetto di riforma reintroduce il limite dell'interesse nazionale ma lo reintroduce affidando questo potere al Governo il quale, appunto, può provocare una decisione del Senato federale ed il Senato federale, a sua volta, può rinviare la legge al Consiglio regionale.

Se il consiglio regionale non si adegua alle osservazioni del Senato, quest'ultimo può, come sappiamo, rinviare la legge al Presidente della Repubblica, il quale, in base al disposto della norma, può annullarla. Chiaramente questa norma è molto problematica anche perché è sintomo di un disagio. Sembra effettivamente che nel riparto fra le competenze legislative statali e regionali, manchi una disposizione, ad esempio come quella tedesca, che consente allo Stato di intervenire sempre con legge a tutela degli interessi generali e unitari dello Stato medesimo.

Questo tipo di introduzione, a mo' di sanzione, comunque preclude allo Stato un intervento attivo. Si tratta semplicemente di intervento in risposta, cioè si ha paura della regione che, tutto sommato, segue la sua strada e che questa legislazione possa essere bloccata. Con una norma di questo tipo, però, si preclude appunto un intervento unitario di cui lo Stato in alcune materie potrebbe avere bisogno.

Poi naturalmente, è anche molto problematica, come detto da più parti, l'introduzione di una forma di controllo politico affidato in parte al Governo e in parte al Senato delle regioni, il quale potrebbe avere interessi contrari, e che alla fine destina una forma di annullamento al Presidente della Repubblica.

Tra l'altro osservavo due aspetti tecnici che forse varrebbe la pena migliorare. Anzitutto nel testo della norma si fa spesso ricorso al termine «può». È allora chiaro che con tale formulazione ognuno di questi organi, il Governo, il Senato federale e il Presidente della Repubblica, dispone di una quota di potere discrezionale e, in teoria, potrebbe bloccare in qualche modo la decisione dell'altro. È poi chiaro che nel testo si potrebbe specificare meglio a chi spetta la titolarità effettiva del potere; in effetti il rischio è di una serie di veti reciproci.
Vi è poi il problema di un contropotere del Senato rispetto ad una decisione del Governo il quale, però, potrebbe avere un interesse fondamentale all'annullamento di quella legge proprio per riuscire a concretizzare il proprio indirizzo politico. Ne potrebbe anche scaturire un momento di attrito, uno dei tanti individuabili fra Senato federale e Governo.
Un altro aspetto da evidenziare è l'impugnazione che può essere fatta entro 30 giorni dalla pubblicazione della legge. Potrebbe quindi sorgere un problema di coordinamento fra questo tipo di giudizio, cioè un annullamento da parte del presidente della Repubblica, ed un eventuale giudizio di costituzionalità. La norma non si pone questo problema, forse dovrebbe porselo la dottrina, ma a quel punto cosa potrebbe succedere? Tra l'altro, potrebbe il Governo, contestualmente, da una parte chiedere di annullare la legge per interesse e dall'altra impugnarla perché è incostituzionale? Oppure una delle due azioni potrebbe bloccare l'altra?

A questo punto è chiaro che l'azione di richiesta dell'annullamento potrebbe bloccare l'altra. Sappiamo infatti che il termine per proporre giudizio di incostituzionalità è di 60 giorni dal momento della pubblicazione; oppure si potrebbe pensare ad una sospensione dei termini; ma se il Presidente della Repubblica non procede all'annullamento, il Governo potrebbe sempre ricorrere alla Corte costituzionale? Questo problema va approfondito, anche perché tale norma potrebbe rivelarsi un boomerang per gli interessi nazionali nel momento in cui il Governo non avesse una possibile sponda qualora una norma sia contraria all'interesse nazionale e sia anche incostituzionale.

In alcuni contributi della dottrina, con cui non concordo, si sostiene che, tutto sommato, questa norma è utile perché così si impedisce alla Corte di creare strumenti, tipo quello della sussidiarietà, con cui fare emergere e dare voce alle istanze unitarie, che devono essere sempre presenti. Intanto alcuni strumenti creati dalla Corte sono discutibili, come quello appunto in tema di sussidiarietà, poi mi sembra che in questo caso il rimedio sia peggiore del male.

Sono d'accordo anch'io che questo Senato avrebbe potuto essere più federale, prevedendo almeno la presenza dei presidenti delle giunte regionali. Emerge poi il grande problema delle competenze del Senato, che sono vastissime. Al riguardo però il difetto sta nel manico, è cioè vastissimo l'elenco contenuto nell'articolo 117, comma 3, della Costituzione, recante tutte le materie di potestà concorrente. In linea di principio è giusto che le materie riservate alla potestà concorrente di Stato e regioni (le leggi quadro, le leggi cornice) siano realizzate dalla Camera rappresentativa del territorio. Ciò in teoria è giustissimo, il problema è che materie come la distribuzione dell'energia, i porti e gli aeroporti, le grandi reti di comunicazione, sono materie problematicamente assegnate dall'articolo 117, comma 3, della Costituzione, alla potestà concorrente.

Non sono d'accordo con chi in fondo criticando tutti i poteri assegnati al Senato federale, ritiene però che sia giusto che questi poteri vi siano. Una parte della dottrina molto autorevole considera la trasformazione della forma di Governo come qualcosa di molto pericoloso e ritiene che la figura del Presidente del Consiglio abbia troppi poteri. Al tempo stesso, pur criticando che alcuni poteri siano dati al Senato, li si vuole mantenere in forma di contro poteri.

Allora, se si vogliono creare altri tipi di garanzie di bilanciamento bisogna seguire strade diverse. Ad esempio in Svizzera, uno degli Stati federali cui facciamo riferimento, il referendum è utilizzato in senso ampio, e rappresenta uno strumento importante per equilibrare il rapporto fra Governo centrale e governi dei territori. Ultimamente i Länder svizzeri hanno bloccato una legge federale in tema di sgravi fiscali, che aveva un significato importantissimo per il Governo centrale, e lo hanno fatto attraverso lo strumento del referendum. Ad esempio, allora perché non guardare ad altri strumenti e non concentrare invece tali poteri sul Senato. Perché a quel punto davvero si rischia sia di costruire male la forma di Stato e sia che questa abbia una ricaduta sulle forme di Governo la quale non raggiungerebbe i risultati prefissati.

 

PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire.

 

CARLO LEONI. Se ho ben compreso, lei ha affermato, in materia di devoluzione, che nominare in quanto esclusive, una serie di materie, può essere utile al fine di evitare che la giurisprudenza della Corte finisca per non considerare alcuni ambiti come effettivamente esclusivi delle regioni. Ma se fosse così, allora bisognerebbe nominarne molte di più, e non limitarsi a quelle elencate. Non credo sia effettivamente questa la ratio che ha portato a prendere questa decisione politica.

 

CARLO TAORMINA. Ho notato che la sua relazione è incentrata particolarmente sull'articolo 117 della Costituzione ed i suoi raccordi con la devolution. Le chiedo allora se ha approfondito o se può farlo (anche per iscritto) il tema della polizia locale che credo nel nostro dibattito diventerà un tema centrale. Mi riferisco in particolare sia all'individuazione di ciò che deve essere inquadrato nella polizia locale - il Senato al riguardo è stato abbastanza fumoso - sia per quello che riguarda i raccordi tra la polizia locale e quella dello Stato centrale.

 

MARCO BOATO. Ringrazio la nostra ospite sia per la sua introduzione sia per il testo che ci ha consegnato.

Mi pare che non condivida l'ampliamento del numero dei giudici costituzionali di nomina politica, né condivida l'esclusione della Camera dei deputati da questa nomina, al riguardo chiedo conferma.

Mi pare che la professoressa non abbia affrontato la questione della modifica ipotizzata dell'articolo 138 della Costituzione, che così come è configurata potrebbe addirittura portare in futuro all'impossibilità di operare nuove riforme costituzionali, perché l'ipotesi prevista di introdurre un quorum per il referendum oppositivo comporterebbe, qualunque fosse la volontà dei cittadini, la non promulgazione della ipotetica futura riforma costituzionale.
Un'altra questione riguarda l'esclusione, diversamente da quanto previsto nel testo originario del Governo, di qualunque ipotesi di scioglimento del Senato; mi interesserebbe conoscere il parere della professoressa D'Amico. Cosa ne pensa dell'ipotesi di introdurre questa possibilità in capo ad altri soggetti istituzionali? Allo stato attuale, infatti, la cosiddetta impossibilità di funzionamento del Senato potrebbe non avere alcun tipo di rimedio, pur avendo al tempo stesso un potere molto forte anche in materie che competono l'indirizzo politico del Governo.

L'attuale comma 4 dell'articolo 117 della Costituzione stabilisce che spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. Nel testo costituzionale e anche in dottrina non viene comunemente utilizzato il termine «esclusivo». In dottrina si preferisce utilizzare il concetto di competenza «residuale». Il nuovo comma 4, che ingloba ed innova il testo già approvato in prima lettura da Camera e Senato sulla cosiddetta «devolution», parla di competenza «esclusiva», termine che la professoressa ha correttamente utilizzato nella sua relazione odierna. Come tutti sanno il termine «federale» non compare nell'attuale costituzione, anche se nel dibattito preparatorio è noto che io e molti altri colleghi lo abbiamo chiamato in causa per definire la riforma. Dal suo punto di vista, prescindendo dalla recente giurisprudenza costituzionale, quale è la differenza tra il vigente comma 4 dell'articolo 117 della Costituzione e quello che si vorrebbe introdurre, che utilizza il termine «esclusiva» in riferimento alle materie regolate?

 

PRESIDENTE. Do ora la parola alla professoressa D'Amico per la replica.

MARIA ELISA D'AMICO, Professoressa straordinaria di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università dell'Insubria. Mi riservo di approfondire le questioni affrontate oggi e di fare avere alla Commissione un ulteriore testo scritto. Vorrei approfondire in particolare il problema della polizia locale, sollevato dall'onorevole Taormina, anche perché mi sto occupando da tempo della mancanza da parte delle regioni di competenze penali. Indubbiamente, se si decide di creare una polizia locale occorre trasformare la natura di alcuni reati e illeciti.

L'onorevole Leoni giustamente fa presente che bisognerebbe nominare anche altre competenze regionali; dato il trend giurisprudenziale della Corte costituzionale, in alcuni casi attualmente questo sarebbe opportuno, poiché in tante decisioni, che riguardano anche competenze esclusive statali o competenze concorrenti, le competenze regionali residuali vengono assorbite. In questo caso, essendoci già un livello generale di istruzione e una competenza concorrente, può accadere che alle regioni non residui neanche l'organizzazione scolastica. Stesso discorso vale per la sanità e per la tutela della salute. Nominare queste competenze regionali significa comunque mantenere questo aspetto circoscritto.
È vero che la modifica dell'articolo 117 della Costituzione parla di potestà legislativa esclusiva e, quindi, è chiaro che nell'intento originario queste materie di potestà regionale siano sottratte a vincoli generali derivanti o dalle materie statali di competenza esclusiva o, addirittura, dall'intersecazione con materie di competenza concorrenti. A mio avviso questa interpretazione potrebbe fondarsi su un aspetto letterale, tuttavia bisogna considerare anche il concreto assetto ed il rapporto fra le materie, su cui non possiamo più ragionare in astratto, perché esiste una giurisprudenza che ha creato un reticolo pesante e rassicurante per chi non vuole che attraverso questo articolo ogni regione possa fare ciò che vuole, ignorando anche i livelli minimi essenziali, non essendoci formule di raccordo. Bisogna tenere conto di questa giurisprudenza costituzionale, in quanto consente una lettura più riduttiva e non eversiva, ma anche più condivisibile di questo tipo di riforma. Tutto sommato se leggiamo l'intera giurisprudenza costituzionale possiamo vedere che la riforma del Titolo V non ha cambiato molto l'ordinamento. Se poi pensiamo che le regioni su molte materie non si sono attivate autonomamente, senza considerare tutta la vicenda statutaria. È chiaro che questa giurisprudenza, se può, interpreta la legislazione partendo da quello che esisteva prima; in questo modo costruisce un reticolo da cui è difficile sottrarsi semplicemente perché si introduce il termine «esclusiva». Naturalmente la futura giurisprudenza costituzionale potrebbe anche smentirmi.

La modifica dell'articolo 138 della Costituzione mi lascia perplessa, ma anche su questo punto vorrei tornare in maniera approfondita nel testo scritto che invierò successivamente.
Sul problema dello scioglimento del Senato, sottrarre quest'ultimo dal circuito della fiducia è, ovviamente, il modo chiaro per attribuirgli la natura di seconda Camera come nei vari Stati federali. Comunque, non si può accettare la subordinazione totale della politica locale nei confronti di quella nazionale, cioè il fatto che, comunque, nel momento in cui venga sciolto un consiglio regionale, non ci sia un contestuale rinnovo parziale del Senato. La possibilità di reintrodurre ipotesi di scioglimento, a mio avviso, sotto certi aspetti potrebbe essere auspicabile ma potrebbe creare anche molti problemi perché, comunque, introdurrebbe un nuovo sistema ibrido.

Ritengo che - come ha già detto il professor Caravita - la composizione della Corte sia molto equilibrata e passare da cinque a sette, forse, non creerebbe troppi problemi. Comunque, bisognerebbe ragionare approfonditamente sul fatto che da questa decisione sia esclusa totalmente la Camera politica. Credo sarebbe molto più equilibrato, soprattutto se i giudici di nomina parlamentare rimanessero 7, che fosse il Parlamento in seduta comune ad eleggere i giudici della Corte costituzionale, come avviene attualmente.


 

SEDUTA DEL 25 MAGGIO 2004

Marco Olivetti, professore straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Foggia e di

 

Luca Antonini, professore straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Padova.

 

MARCO OLIVETTI, Professore straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Foggia. Ringrazio il presidente e la Commissione tutta per l'opportunità che mi viene offerta con questa audizione. L'oggetto del quale mi occuperò sarà essenzialmente il tema della forma di Governo, anche perché sulla forma di Stato e sulla cosiddetta devolution ho avuto già il piacere di intervenire in questa stessa sede un anno fa; quindi, poiché quel progetto di riforma è stato trasfuso quasi intatto in una parte del disegno di legge attualmente sottoposto al vostro esame, si potrà rinviare a quelle considerazioni, benché si possa registrare qualche modesto progresso nello scenario complessivo. Nel complesso, comunque, ritengo ancora valida gran parte delle considerazioni proposte allora.

Quanto alla forma di Governo, vorrei precisare il punto di vista assunto: la professione che io e il collega Antonini svolgiamo, quella di professori di diritto costituzionale, ci porta ad assumere alcune posizioni di partenza, che quasi sempre prendono avvio dalle teorie del nostro grande padre fondatore, cioè il barone di Montesquieu; pertanto, vi chiedo di perdonarmi la pedanteria, se muoverò da una sua brevissima citazione per anticipare quanto tenterò di spiegare.

Scrive Montesquieu nello Spirito delle leggi, capitolo quarto, libro undicesimo: «La libertà politica non si trova che nei governi moderati, ma essa non è presente sempre, in tutti gli Stati moderati: essa esiste solo laddove non si abusi del potere. Ma è un'esperienza eterna che ogni uomo che ha del potere è portato ad abusarne; egli si spinge fino a dove incontra limiti. Perché non si possa abusare del potere, occorre che, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere» ovvero - per usare l'espressione in lingua originale - «le pouvoir arrê te le pouvoir», forse la frase più famosa della storia del diritto costituzionale. Questo presupposto rimarrà il riferimento di fondo nel corso dell'esposizione che vi proporrò.
L'altro punto di riferimento essenziale sarà rappresentato dalla transizione costituzionale in corso, che tutti, e sicuramente voi meglio di me, conosciamo. Tale transizione rende tuttora necessario apportare alla nostra forma di Governo alcune modifiche che, appunto, consentano, come dice il titolo di un volume recentissimo, curato dai colleghi Stefano Ceccanti e Salvatore Vassallo, «chiudere la transizione» apertasi tra il 1992 ed il 1993. Il disegno di legge costituzionale di cui voi vi occuperete, e sul quale noi esprimeremo un parere, si muove, appunto, nell'ottica di chiudere la transizione dal regime parlamentare proporzionalistico e multipartitico ad un sistema - forse non più parlamentare - maggioritario e bipolare.

Mi sembra si debba muovere da una constatazione, dal mio punto di vista positiva, consistente nell'abbandono delle prospettive presidenziali e semipresidenziali che hanno dominato lo scenario della XIII legislatura. Ritengo che ciò sia positivo non solo perché questi sistemi sono estranei alla tradizione costituzionale italiana, ma anche perché si porrebbero in contraddizione con l'obiettivo di completare la transizione, la quale si sinora dislocata nella direzione del rafforzamento del Presidente del Consiglio, non del Presidente della Repubblica. Il disegno di legge si pone in questo alveo e quindi deve essere verificato rispetto all'obiettivo che si pone, ovvero occorrerà verificare se le misure che esso propone siano adeguate al completamento della transizione menzionata, e se siano proporzionali all'obiettivo (cioè necessarie e sufficienti, ma non superiori alla misura, per conseguire lo scopo, anche alla luce di quanto la comparazione costituzionale ci insegna).
Chiedo scusa per essermi dilungato in questa premessa e passo subito a svolgere alcune considerazioni che potrebbero apparire eccessivamente tecniche, ma mi sembra sia questo l'approccio che mi viene richiesto in questa sede. Del resto, i rappresentanti della sovranità popolare siete voi e voi avete la competenza politica a valutare l'opportunità politica di una o di un'altra soluzione istituzionale. Le mie considerazioni tecniche muovono, ovviamente, dai criteri di valore che ho espresso prima.

Il primo problema da esaminare è relativo alla formazione del Governo: dal disegno di legge approvato dal Senato emerge che il Presidente del Consiglio, ovvero il Primo ministro, non viene eletto direttamente dal corpo elettorale. Anche questo mi pare un aspetto positivo, che inserisce il modello proposto nella transizione. D'altro canto, pur essendo collegati alla maggioranza parlamentare, il Governo e il Presidente del Consiglio avrebbero con essa un rapporto più complesso di quello delineato dall'attuale Costituzione; in particolare, si introdurrebbe nell'articolo 92, secondo comma, la formalizzazione della candidatura alla carica di Primo ministro. Si tratta della cosiddetta «indicazione» del Primo Ministro. Da questo punto di vista, non vi sono innovazioni sostanziali, ma semplicemente un consolidamento di una situazione costituzionale realizzatasi dopo le riforme elettorali dell'inizio degli anni novanta.

Ciò che mi chiedo, invece, è se sia necessaria ed opportuna una simile scrivere tale regola, perché, alla luce del diritto comparato, in nessun Paese europeo, neanche in quelli ove dal risultato elettorale scaturisce di norma una maggioranza parlamentare e l'indicazione di un Primo Ministro chiamato a guidarla (si pensi al caso della Spagna ed alle elezioni del 14 marzo), le rispettive Carte costituzionali contemplano tale meccanismo di indicazione, affidandosi, invece, ad uno strumento più noto alla nostra esperienza, il voto di fiducia parlamentare che segue la nomina da parte del Presidente della Repubblica, non vincolata (almeno formalmente) all'indicazione di una candidatura sulla scheda elettorale.
Si possono qui ravvisare, pertanto, alcuni elementi di rigidità ed eccessi di «razionalizzazione» (per usare categorie note al diritto costituzionale della prima metà del novecento) che caratterizzano il disegno di legge costituzionale approvato dal Senato, e che rischiano di essere controproducenti in un testo costituzionale, il quale, se entrerà in vigore, dovrebbe avere almeno l'aspirazione di durare per un periodo considerevole, e non essere troppo connessa alle circostanze in cui ha visto la luce.

Quanto alla nomina e alla revoca dei ministri, si è compiuta una scelta assolutamente necessaria e condivisibile quando è stato previsto quel potere di revoca che la nostra Costituzione è una delle poche dell'Europa occidentale a non contemplare (e in proposito, mi sembra vi sia un consenso totale, sia nel mondo politico, sia in dottrina); ciò che invece può destare qualche perplessità è, anche in questo caso, un'apparente dettaglio. In primo luogo, mi riferisco al fatto che la nomina e la revoca siano rimesse totalmente nelle mani del Presidente del Consiglio. Certamente, ritengo che nessuno possa ragionevolmente desiderare che questo potere sia effettivamente condiviso con il Presidente della Repubblica, come anche il potere di nomina dei ministri, il quale ultimo, nell'attuale Costituzione, benché formalmente spettante al Presidente della Repubblica, sostanzialmente rientra nelle attribuzioni del Presidente del Consiglio.

Ciò che però alcuni hanno sottolineato (così anche il professor Amato, in base alla sua esperienza, non tanto di professore di diritto costituzionale, quanto piuttosto di ex Presidente del Consiglio) è l'utilità della camera di compensazione rappresentata dalla nomina formale da parte del Capo dello Stato, che può consentire allo stesso Presidente del Consiglio dei margini di manovra in più. Apparentemente, quindi, si tratterebbe di una deminutio ma, nella sostanza, è un'ulteriore margine di manovra rispetto alla coalizione dalla quale egli proviene. D'altra parte, si tratta di un check (Montesquieu e Madison ritornano), di un elemento di controllo che potrebbe risultare utile.
Lo stesso dicasi per la revoca. Ritengo che tale previsione senza un passaggio in Consiglio dei ministri, fosse anche semplicemente di comunicazione (con la conseguenza, magari un po' comica, che i colleghi del Presidente del Consiglio potrebbero apprendere di una revoca eventuale dai giornali), e senza un controllo del Capo dello Stato, si tradurrebbe in una mancanza di cautela.

Naturalmente, stiamo ragionando di aspetti di dettaglio e tuttavia la mia analisi muove proprio da simili dettagli e lo scenario viene fuori dall'insieme di tutti questi. Dietro queste modifiche dell'articolo 92 vi è ovviamente l'idea che il Primo ministro determini la politica del Governo (così come recita l'articolo 95, secondo comma). Il termine «determina» significa che la sede di determinazione si sposta nell'organo Primo ministro, il quale diventa una specie di organo monocratico, anche se, formalmente, il Governo resta un organo collegiale, per cui non si va verso un assetto di tipo presidenziale puro.
Per quanto riguarda il terzo punto, cioè l'illustrazione del programma, così come già accade oggi, dopo la formazione del Governo, il Primo ministro si presenta alle Camere per la sua illustrazione. Questo atto è configurato dal disegno di legge di riforma come giuridicamente obbligatorio, come accade nella situazione attuale, ma la differenza rispetto ad oggi è che non vi sarebbe più un voto di fiducia iniziale, e che si adotterebbe il meccanismo della cosiddetta fiducia presunta, proprio perché il Primo Ministro verrebbe indicato dal corpo elettorale sulla base delle candidature a tale carica nell'ambito del procedimento per l'elezione della Camera dei deputati.

A questo proposito, mi permetto di sottolineare un'ipotesi che forse non è stata evidenziata finora. L'articolo 92 del disegno di legge di riforma muove dall'idea che la legge elettorale favorisca la formazione di una maggioranza: «la legge disciplina l'elezione dei deputati in modo da favorire la formazione di una maggioranza collegata al candidato alla carica di Primo ministro». Questo «favorire» la formazione di una maggioranza può esser un obiettivo già raggiunto dall'attuale legge elettorale, magari perfezionata da una riforma della stessa; tuttavia, «favorire» non è «garantire». Del resto, per immaginare leggi elettorali che assicurino la formazione di una maggioranza, o si adotta un sistema del tipo di quello in vigore per i comuni o per le regioni (che però è nettamente diverso rispetto a quello previsto attualmente per il Parlamento) oppure la certezza del risultato non c'è. Anche nel notissimo sistema inglese, identico al nostro ma senza la quota proporzionale,

ci sono stati casi in cui nessun partito ha conquistato la maggioranza in Parlamento, soprattutto nell'Ottocento, ma anche in tempi relativamente recenti: da ultimo, nel febbraio del 1974, le elezioni in Inghilterra partorirono quello che, tecnicamente, viene chiamato un hung Parliament, un Parlamento appeso, proprio perché privo di maggioranza.
Allora, la questione che dobbiamo porci è che cosa succeda in questo caso. In altre parole, se la legge elettorale non assicura, non determina, la formazione di una maggioranza e non c'è più il voto di fiducia iniziale, ne segue che - è la soluzione implicita nel sistema - il Presidente della Repubblica nominerà un Primo ministro di minoranza. A questo punto, però, si ha un paradosso, perché questo Premier di minoranza sarebbe protetto dalle stesse clausole di garanzia del Governo che proteggono un Premier avente dietro di sé una maggioranza. Anzi, costui risulterebbe più protetto perché non vi sarebbe la possibilità di sostituirlo in caso di utilizzo del potere di scioglimento ai sensi dell'articolo 88, perché per la sostituzione del Primo Ministro tale disposizione richiede una mozione di sfiducia firmata dalla maggioranza dei deputati che sostengono il Governo. Poiché tale maggioranza non vi sarebbe, perché le elezioni non l'hanno prodotta, il Premier di minoranza sarebbe protetto di più di uno maggioritario.

Questa è una mia ipotesi di lettura e può darsi che abbia interpretato male il testo, ma la ritengo una contraddizione di cui bisognerebbe farsi carico.

Un ulteriore punto, a mio avviso particolarmente delicato (uno di quei dettagli apparenti con cui il disegno di legge introduce disposizioni fortemente problematiche) riguarda la questione di fiducia.

Come sapete, si tratta di uno strumento noto alla prassi parlamentare e previsto dai regolamenti di Camera e Senato. Ben diversa, però, sarebbe la questione di fiducia prevista dall'articolo 94, secondo comma, di questo disegno di legge perché qui si combinerebbe il voto di fiducia - la questione di fiducia, appunto - e il voto bloccato.

Si potrebbe obiettare che ciò accade già oggi. Quando, infatti, il Governo pone la questione di fiducia, l'oggetto di tale questione è bloccato: l'articolo viene votato così com'è, decadono gli emendamenti e su di esso si vota prima che su qualsiasi altra proposta.
Però, oggi, questa possibilità è limitata esclusivamente ad un articolo, ad un emendamento, ad una mozione o ordine del giorno, ad una risoluzione, mentre non è possibile porre (almeno allo stato della prassi e fatte salve evoluzioni recentissime di cui non sono a conoscenza) la questione di fiducia sull'intero disegno di legge. Inoltre, alcuni disegni di legge sono esplicitamente o implicitamente esclusi da questa previsione. Per esempio, ciò vale per le leggi costituzionali. Tale ipotesi è stata sollevata proprio nel corso di questa legislatura, ma mi sembra prevalente l'idea di escluderla, posto che la ratio stessa della legge di revisione costituzionale dovrebbe portare ad escludere la questione di fiducia su di essa. Inoltre, attualmente, la decisione di porre la questione di fiducia viene presa dal Presidente del Consiglio il quale, però, propone tale decisione al Consiglio dei ministri, che esprime un assenso, secondo la legge n. 400 del 1988.

Invece, in questo caso, avremmo una questione di fiducia decisa esclusivamente dal Primo ministro: non c'è nessun riferimento al Consiglio dei ministri. In astratto, potrebbe riguardare qualsiasi oggetto: una legge costituzionale, la verifica delle elezioni, l'autorizzazione a procedere (magari, di un deputato dell'opposizione). In altre parole, se non ci sono oggetti esclusi, la questione di fiducia si potrebbe applicare ad ogni caso.
Si potrebbe rispondere che limiti potrebbero essere previsti dai regolamenti parlamentari, ma mi permetto di obiettare che, una volta prevista la suddetta ipotesi in Costituzione, risulterebbe più difficile circoscriverla nei regolamenti parlamentari. Resterebbe, inoltre, la novità della questione di fiducia su un intero disegno di legge); è vero che, attualmente, si usano degli escamotages, come i maxiemendamenti, ma, a parte il fatto che si tratta di deviazioni che, forse, prima o poi, bisognerebbe decidersi a definire incostituzionali, si tratta sempre di escamotages particolarmente complessi, che comunque vengono usati, in genere, una volta ogni due o tre anni (il più delle volte nel corso dell'esame della legge finanziaria).
Ad ogni modo, in caso di voto contrario, così come recita l'articolo 94, secondo comma, il Governo si dimette e può chiedere lo scioglimento della Camera al Presidente della Repubblica. Qui abbiamo veramente qualcosa che è ignoto al diritto comparato perché dalla minaccia di dimissioni (questo è, in sostanza, la questione di fiducia, posto che o si approva una certa misura o il governo si dimette) si passa alla minaccia di scioglimento.
Quindi, siamo oltre il meccanismo analogo della Costituzione della Quinta Repubblica e, forse, oltre la stessa prassi parlamentare inglese. È vero che il Senato, rispetto al testo governativo, ha modificato leggermente questa formulazione. Nella versione originaria, infatti, si diceva che - in caso di voto contrario - la Camera avrebbe dovuto essere automaticamente sciolta: è stato quindi apportato un correttivo che va apprezzato, pur restando dal mio punto di vista eccessivo l'intero meccanismo; si prevede che, nel caso di voto contrario sulla questione di fiducia, il Primo ministro possa chiedere lo scioglimento (che, quindi, non è automatico). In realtà, il Primo ministro potrebbe rendersi conto di essere, al limite, non ricandidabile nella sua stessa coalizione e, quindi, rinunciare a chiedere lo scioglimento. Si applicherebbe, allora, il famoso articolo 88, secondo comma, cioè, la scelta di un nuovo Primo ministro da parte della maggioranza uscente. Le condizioni di realizzabilità della sostituzione in corso del Primo ministro rimangono, comunque, molto gravi. Anche in questo caso, si mette in moto un automatismo da cui è poi difficile tornare indietro.

Sottolineo anche che la questione di fiducia è un'arma rivolta più contro i dissidenti interni alla maggioranza che contro l'opposizione. Questo mi sembra abbastanza evidente ed è stato così anche prima del 1988, quando essa serviva per fare venire allo scoperto i franchi tiratori.
C'è anche una pseudo-questione di fiducia, prevista al Senato, cui accenno senza entrare nel merito, dove si intravede, tra l'altro, la difficoltà di coordinare questa forza del governo alla Camera con la forza di resistenza che ha il Senato (so che di questo punto si occuperà specificamente il collega Antonini e non vado oltre questo cenno).

Qualche parola vorrei però spenderla anche sul potere di scioglimento della Camera dei deputati, che ha già fatto capolino nel meccanismo che ho appena citato. Viene introdotta dall'articolo 88, primo comma, la proposta di scioglimento da parte del Primo ministro sotto la sua esclusiva responsabilità. Si introduce così una formulazione che è presente nell'articolo 115 della Costituzione spagnola del 1978. Si prevede però la possibilità di bloccare la richiesta di scioglimento con la presentazione di una mozione di sfiducia costruttiva, che però non viene chiamata così perché questo è uno dei meccanismi che generano panico in buona parte della classe politica - non so il perché - e in tanti miei colleghi. Personalmente, invece, appartengo a quel gruppo di pochi «indiani» superstiti che considerano questo meccanismo la chiave della razionalizzazione del Governo parlamentare.
Si tratta, però, di una sostanziale sfiducia costruttiva, molto diversa da quella spagnola e tedesca; infatti, quando in Spagna il Primo ministro (lì denominato Presidente del Governo) chiede al Re lo scioglimento delle Cortes, se l'opposizione ha già presentato una mozione di sfiducia costruttiva il potere di scioglimento risulta paralizzato, ma solo nel caso in cui venga eletto successivamente un nuovo Governo. Quindi, il risultato sostanziale del meccanismo spagnolo (e, ancor più, di quello tedesco) prevede che nella contesa tra sfiducia costruttiva e scioglimento, in qualche modo prevalga la prima. In questo caso, invece il potere di scioglimento del Primo ministro può essere bloccato soltanto con il famoso meccanismo previsto dall'articolo 88, secondo comma, già citato in precedenza.
Vi è qui il fenomeno delle cosiddette norme antiribaltone, una peculiarità italica che si spiega con quello che il professor Elia ha in passato chiamato horror ribaltonis. Si tratta di uno dei dati ricorrenti del costituzionalismo italiano degli anni Novanta, la cui ratio è sicuramente condivisibile. Penso sia un'acquisizione della nostra cultura costituzionale dell'ultimo decennio far sì che i governi coprano un'intera legislatura. Al riguardo, il problema è rappresentato dal costo che si è disposti a pagare per raggiungere questo obiettivo, l'eccesso di rigidità che talora si introduce per raggiungerlo e, forse, la lesione dell'articolo 67 della Costituzione; quest'ultimo, certo, può vedere ridefinito il proprio significato da una legge di revisione costituzionale, ma c'è da chiedersi se talune forme di irrigidimento della rappresentanza politica non finiscano per porsi in tensione con il principio supremo della democrazia rappresentativa, il quale rappresenta forse un limite alla stessa revisione costituzionale.

La mobilità dei parlamentari e di parti delle coalizioni certamente è da considerarsi un'anomalia che dovrebbe essere ricondotta entro limiti più ridotti rispetto a quelli che abbiamo conosciuto negli anni novanta. Si tratta però di un fenomeno che non può essere eliminato in radice. Il caso più noto di transfuga parlamentare del Novecento è quello di Winston Churchill che da membro del partito conservatore passò con i liberali. In seguito egli tornò a far parte dello schieramento d'origine, divenne Primo ministro e guidò il suo paese verso il raggiungimento di risultati non marginali.

Passando alla mozione di sfiducia, prevista dall'articolo 94, essa, ove approvata, produrrebbe in primo luogo l'obbligo di dimissioni del Governo e, in secondo luogo, lo scioglimento automatico della Camera. In questo caso si nota, a mio avviso, questa particolare passione per gli automatismi costituzionali - che nello scorso decennio ha segnato anche altre riforme come, ad esempio, la riforma di governo regionale - che, probabilmente, porta il sistema delineato nel disegno di legge costituzionale sottoposto al vostro esame fuori dal calco del Governo parlamentare, poiché in questo caso il Parlamento viene privato in radice della possibilità di esprimere un nuovo Esecutivo. Neanche in Inghilterra, del resto, la sfiducia produce automaticamente lo scioglimento anche se, di solito, quest'ultimo è l'effetto più ricorrente.

Per quanto riguarda il Senato federale vi sono due possibili letture: si può trattare di un rafforzamento ulteriore del Primo ministro - poiché non vi è più il bicameralismo perfetto -, oppure - poiché il Senato è potenzialmente sottratto all'indirizzo di maggioranza - di un vero e proprio freno.

In questo caso, aleggia un equivoco molto diffuso, rappresentato dal «Senato di garanzia» che si intreccia con il modello del Senato rappresentativo delle entità territoriali. Non è chiaro quale sarà il volto di questo Senato, non vi sono meccanismi evidenti affinché si possa trattare di un Senato rappresentativo delle regioni, e ciò perché l'unico meccanismo finalizzato a fare del Senato la Camera delle Regioni (la contestualità tra l'elezione dei consigli regionali e l'elezione del Senato) può produrre due opposti effetti: la regionalizzazione del Senato o, al contrario, la «nazionalizzazione» delle elezioni regionali, che si è verificata ad esempio nelle elezioni regionali francesi dello scorso aprile. In quest'ultimo caso, il fatto che le elezioni di tutti i Consigli regionali abbiano avuto luogo nella medesima data, ha prodotto una dinamica politica di tipo nazionale, che ha sanzionato il Governo in carica. Nel caso italiano, si verificherebbe una doppia omogeneizzazione: dei risultati delle elezioni dei diversi Consigli regionali fra loro e del risultato delle elezioni senatoriali.
A questo punto del discorso vorrei proporre un raffronto tra il disegno di legge di riforma costituzionale e il testo A dell'articolato Salvi che, a mio avviso, avrebbe meritato miglior sorte nella scorsa legislatura. Com'è noto, nell'ambito della Commissione bicamerale presieduta dall'on. D'Alema furono presentati dal relatore sulla forma di governo, on. Salvi due testi alternativi: il testo A, che prevedeva un modello paragonabile a quello attuale, ed il testo B che descriveva un modello semipresidenziale. Tra i due prevalse il secondo, in circostanze un po' rocambolesche che molti ricorderanno.

Nel testo A dell'articolato Salvi, effettivamente, sono presenti forti analogie con il testo che in questi mesi state esaminando: la nomina e la revoca dei ministri da parte del solo Primo ministro, la proposta di scioglimento e la candidatura alla carica di Premier. Vi sono però anche alcune differenze, tutt'altro che marginali; in primo luogo, non era prevista la questione di fiducia, ma veniva semplicemente contemplato il potere di chiedere di votare un provvedimento entro una data determinata. Tra l'altro, non vi era lo scioglimento automatico in caso di sfiducia, mentre era prevista la sfiducia costruttiva che avrebbe paralizzato il potere di scioglimento: dunque, si tratta di due scenari ben diversi.
Il testo A dell'articolato Salvi ci avrebbe portato ad un regime parlamentare europeo (Spagna, Germania, Svezia), mentre il testo di cui discutiamo oggi ci porta ad esplorare una terra sconosciuta nell'ambito del diritto costituzionale.

Se facciamo riferimento ad altre forme di governo, avremo un Premier più forte del Presidente americano - naturalmente facendo i dovuti rapporti tra le dimensioni e l'importanza dei due Paesi (e tenendo conto, in particolare, del fatto che negli Stati Uniti il potere del Presidente si dispiega soprattutto in politica estera, settore che lì ha molta più importanza che da noi) - sia, per alcuni aspetti, del Presidente francese. Tra l'altro, nel caso della Francia sono previsti alcuni checks che da noi mancano, come, ad esempio, il ricorso delle minoranze alla Corte costituzionale.

Per quanto riguarda Israele - dove il Primo ministro, tra il 1996 e il 2001, veniva eletto direttamente - vi erano una serie di casi in cui non si prevedeva l'automatismo dello scioglimento, ma soprattutto vi era un sistema proporzionale puro con uno sbarramento all'1,5 per cento il quale impediva che il Primo ministro avesse una maggioranza organica disposta a sostenerlo. Dunque il Premier delineato nel disegno di legge di riforma sarebbe più forte anche del Premier elettivo israeliano.

L'unico parallelo possibile è quello con il sistema britannico, ma anche in questo caso, a mio avviso, vi è una differenza fondamentale. In Inghilterra, infatti, vi è un check, un sistema di controllo fortissimo, sia nei confronti del Primo ministro sia nei confronti del capo dell'opposizione, rappresentato dal partito al quale il Premier (o il leader dell'opposizione) appartiene. Il partito è di solito lo strumento principale che dà forza al Primo Ministro e che lo sostiene lealmente in Parlamento, consentendogli di realizzare il programma politico sulla base del quale il Premier e il suo partito hanno vinto le elezioni parlamentari. Ma il partito è anche la principale sede di controllo del potere del Primo Ministro, in quanto è qui che talora naufragano le scelte politiche più impopolari (che rischierebbero di far perdere al partito di maggioranza le elezioni successive, o anche la sua identità politico-programmatica). E si possono ricordare molti casi, più o meno recenti, dalla caduta - nel 1990 - della signora Thatcher per l'impopolarità della poll tax da essa voluta alla fine degli anni ottanta, sino alle recenti resistenze incontrate dal governo di Tony Blair su questioni-chiave come l'intervento in Irak e la riforma del sistema educativo, oppure, se si vuole guardare al capo dell'opposizione, alla sfiducia del gruppo parlamentare che nell'ottobre scorso ha travolto il leader conservatore Iain Duncan Smith. Tutti episodi che dimostrano una forza del partito rispetto al Premier che manca nel nostro Paese, ove semmai la resistenza principale viene dalla struttura delle coalizioni (che non a caso verrebbe colpita duramente con la questione di fiducia prevista in questo progetto).
Vorrei concludere il mio intervento ponendomi una domanda un po' provocatoria e, se volete, un po' paradossale. È chiaro che il progetto di riforma sottoposto al vostro esame prevede un notevolissimo rafforzamento del Primo ministro.

Mi chiedo se questa non sia l'unica risposta alla grande domanda che, forse, tutti dovremmo porci. Sconfinando leggermente dal mio campo, vorrei accennare al processo di declino del nostro Paese, in vari campi, dall'economia, alla società, in particolare dal punto di vista demografico. È evidente che non si tratta di un declino legato, almeno nei suoi effetti decisivi, ad una concreta maggioranza parlamentare, ma esso impone di porci altre domande, ben più radicali. Il nostro sistema democratico (e in particolare le regole sulla formazione della rappresentanza) è idoneo a far fronte a questo declino e a ridare al Paese capacità di futuro? L'unica risposta può essere davvero il potere personale forte del Primo ministro?
Ricordo che le ACLI recentemente hanno lanciato la proposta, che ha destato una certa eco, di attribuire il voto dalla nascita, facendo votare, per delega, fino ai diciotto anni, le madri in nome dei figli. La finalità è quella di orientare la competizione politica soprattutto su questioni che interessino le famiglie con figli e le giovani generazioni e che diano pertanto apertura al futuro, in una società soggetta a rapido invecchiamento. Mi chiedo se questo non sia un segnale, insieme a tanti altri, dell'esigenza di trasformare le strutture della rappresentanza per rendere la nostra democrazia idonea ad affrontare le sfide e se non sia semplicistica una risposta basata solo su Primo ministro molto forte (forse, troppo).

 

PRESIDENTE. Ringraziando il professor Olivetti, do ora la parola al professor Antonini.

 

LUCA ANTONINI, Professore straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Padova. Signor Presidente, onorevoli deputati, ringraziando per questo invito, ricordo che questa è la terza volta, nel giro di due anni, che vengo ascoltato presso questa Commissione sui medesimi temi. Rinviando, perciò, a quanto già rilevato in precedenti audizioni su questioni come, ad esempio, la devolution, vorrei lanciare una provocazione.

Leggendo una rivista giuridica della fine degli anni '80, ci troveremo, sicuramente, la sconsolata, tranquilla certezza che nulla sarebbe cambiato. I costituzionalisti, già allora, scrivevano che era tempo di riforme per adeguarsi ad un contesto profondamente cambiato, ma avevano la certezza che nulla sarebbe stato portato a termine nei prossimi anni.
Gli anni '90, invece, sgretolano un assetto che, fino a poco prima, sembrava incrollabile: la democrazia italiana viveva nel limbo disegnato nel 1947 e la nostra Costituzione risultava di fatto blindata, non essendovi stato mai alcun suo mutamento, a differenza dell'esempio costituzionale tedesco, che, in particolare, riguardo al rapporto tra Länder e Stato centrale, ha subito più di venti cambiamenti.

In quegli anni, appunto, parte il movimento di riforma; tra le tante scintille, quella principale è rappresentata dalla vicenda «Tangentopoli», scintilla patologica, quindi, non certo fisiologica. Questo è un dato che merita di essere preso nella dovuta considerazione, perché spesso ha rischiato di favorire la deriva verso il cosiddetto decisionismo, dimostrata, ad esempio, dalla risicatissima maggioranza con la quale è stata approvata la riforma del titolo V della Costituzione.

Si prescinde dalla capacità di tenuta del sistema, come si può constatare dalla mancata adozione definitiva dello statuto da parte delle regioni, dopo cinque anni dall'approvazione della riforma ad essi relativa.

Assistiamo a fenomeni come la sentenza n. 265 del 2003 della Corte costituzionale che mette fuori campo tutti i regolamenti delle giunte regionali, nonostante ci siano state dichiarazioni degli organi statali che creavano un legittimo affidamento in relazione a quei regolamenti.
A mio avviso, il contrappasso di questo decisionismo è evidente: c'è una distanza tra paese reale e paese legale, testimoniata dalla scarsissima partecipazione popolare al primo referendum costituzionale della storia della Repubblica italiana, quello del 7 ottobre 2001 relativo alla riforma del titolo V della Costituzione cui, infatti, partecipano pochissimi italiani, sebbene riguardi una trasformazione epocale del nostro ordinamento.
Questo test ha dimostrato che il gap tra paese reale e paese legale non si risolve semplicemente con le alchimie dell'ingegneria costituzionale, in quanto la questione attiene non tanto al rapporto tra le istituzioni quanto a quello tra le stesse e i cittadini.
Vorrei focalizzare quali sono le contingenze che caratterizzano questo progetto. Già subito dopo l'approvazione della riforma del titolo V, si parla di riforma della riforma. L'esigenza viene quindi immediatamente manifestata e arriva a concretizzarsi in due tentativi diversi, approvati dal Consiglio dei ministri: la riforma costituzionale La Loggia ed il disegno di legge costituzionale sulla devolution, la prima superata dal progetto in discussione ed il secondo in esso inglobato.

Guardando alle caratteristiche della contingenza storica del progetto oggi in discussione, si constatano dati davvero interessanti: anzitutto, non è, come qualcuno crede, il frutto di una pensata estiva, perché rappresenta la sintesi di proposte avanzate in più occasioni sia dalla maggioranza dall'opposizione; cade poi in un momento in cui, in Parlamento, c'è una maggioranza in grado di decidere, la quale non sa, però, almeno stando ai sondaggi, se sarà tale nella prossima legislatura, per cui le regole che verranno poste adesso potrebbero andare a vantaggio di quella che oggi è la minoranza.

C'è quindi una condizione ambientale, da un certo punto di vista, ideale al lavoro su questi aspetti della Costituzione. In particolare, i capitoli interessati attengono al premierato, al Senato federale, all'interesse nazionale, e alla devolution.

Riguardo alla forma di Governo, il professor Olivetti si è già soffermato con attenzione facendo riferimento all'esigenza di un Premier indicato e di un rapporto non più semplicemente di elezione ma di determinazione dell'indirizzo politico e di sovraordinazione rispetto ai ministri.

Ritengo che, nel progetto iniziale, probabilmente, era troppo sacrificato all'altare della stabilità il ruolo della Camera dei deputati ed il rischio di una deriva verso una democrazia plebiscitaria era effettivamente alto.

A mio avviso, si poteva parlare dell'oltranzismo del «tutti a casa», in quanto il meccanismo per il quale dalla posizione della fiducia da parte del Premier conseguiva lo scioglimento automatico effettivamente sembrava ridurre il Parlamento - come qualcuno ha detto - ad «una caserma agli ordini del Primo ministro». Reputo, quindi, opportuni i temperamenti introdotti nel passaggio al Senato.

C'è da dire che la giustificazione al rafforzamento di quel principio simul stabunt simul cadent così forte è stata ravvisata nell'esigenza di rispettare nell'elezione del vertice dell'Esecutivo, quella sovra rappresentazione analoga alle elezioni tipiche delle forme di governo di transizione, ove vi è un premio in seggi per la maggioranza. Credo però che questo sia un argomento che prova troppo; in fondo, anche ogni parlamentare è eletto direttamente.

Mi sembra, quindi, che la sintesi di bilanciamento tra l'esigenza della stabilità e quella della democraticità sia stata opportuna, pur con i limiti che ha messo in evidenza il collega Olivetti.
Evidentemente il modello del 1947 sacrificava la capacità decisionale rispetto all'esigenza di garantire la massima democraticità ad un paese che usciva da una esperienza totalitaria. Oggi le richieste sono diverse, dobbiamo fronteggiare un'evoluzione che richiede decisioni veloci che sono difficili da garantire con mille parlamentari che deliberano una legge; quindi, occorre un nuovo punto di equilibrio.

Secondo me, però - e qui torno alla considerazione iniziale sul rapporto tra ai cittadini con le istituzioni - il rafforzamento dei poteri del Premier deve essere bilanciato - per far fronte alle sfide che vengono da un contesto che è cambiato e non è più quello del 1947 - da una rete di salvataggio; altrimenti, il rischio della personalizzazione del potere è forte. Occorre quindi ridare protagonismo alla sovranità popolare, che non si esaurisce semplicemente nel voto, ma si esprime anche in altre forme; come dicevano già Crisafulli ed Esposito «non basta votare per essere liberi».

A tal proposito penso alla modifica che è stata fatta al Senato all'articolo 118, al principio di sussidiarietà orizzontale che ritengo molto importante. Il testo vigente prevedeva una «larva» di sussidiarietà orizzontale quando recita: «Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini». Nel testo approvato dal Senato, invece, il potere pubblico riconosce e valorizza l'autonoma iniziativa dei cittadini; quindi, la «larva» diventa «farfalla», perché si usa lo stesso predicato che viene utilizzato nell'articolo 2 della Costituzione, quando si parla dei diritti inviolabili dell'uomo e delle formazioni sociali, cioè c'è riferimento a qualcosa che preesiste, come è giusto che sia. Non si tratta più della gentile e graziosa concessione del potere a favore dell'autonoma iniziativa dei cittadini, ma del rispetto di qualcosa che viene prima.

Questa, penso, sia un'evoluzione importante che rende giustizia - almeno più di prima - alla tradizione di welfare society che è stata una delle migliori caratteristiche della storia italiana e implementa la rete di salvataggio che è data, appunto, dal protagonismo della società civile che diventa qualcosa di indispensabile in un sistema bipolare, dove governa un Premier rafforzato; altrimenti, ci sarà sempre, di fronte a questa tendenza alla personalizzazione del potere, il rischio di una distanza tra paese legale e paese reale.
Su tale punto sarebbero ancora auspicabili passi in avanti per combinare sempre più strettamente sussidiarietà verticale ed orizzontale. La sussidiarietà è importante anche perché dà una nuova tutela alle autonomie funzionali, di cui alcune - come le Camere di commercio - erano rimaste «orfane» di protezione costituzionale; ciò non era in sintonia con un'idea di federalismo moderno, come si è cominciato a configurare negli ultimi anni, parlando di decentramento polifunzionale, quindi del trasferimento delle funzioni statali, non solo agli enti territoriali, ma anche alle autonomie funzionali. Quindi, la tutela costituzionale delle autonomie funzionali è, assolutamente, in linea con un'ottica di federalismo moderno che sappia coniugare libertà ed efficienza.
Mi propongo adesso di affrontare il punto più delicato che è quello riguardante il Senato federale, su cui le opinioni sono tante e, per la maggior parte, critiche anche all'interno della dottrina. Io ritengo, invece, che era difficile fare meglio su questo punto. Già Mortati nel 1947 diceva che il sistema regionale italiano (parlava delle poche competenze che le regioni allora avevano) necessitava di una rappresentanza a livello nazionale. In un discorso all'Assemblea costituente affermava: «La riforma regionale non sarebbe completa, essa anzi sarebbe frustrata nei motivi e negli intendimenti che hanno informato l'istituzione, sarebbe deviata dalle finalità politiche che l'hanno promossa, se non trovasse il suo svolgimento e la sua collocazione nell'ordinamento del Parlamento (...). Donde la necessità di dare alle regioni una voce specifica in Parlamento...». È necessario rendersi conto che il bicameralismo paritario italiano, già allora, era una anomalia rispetto a tutti gli altri sistemi; nasceva, infatti, per garantire la massima democraticità ad un paese che usciva da un esperienza totalitaria.

La mancanza di una Camera territoriale è la più grande lacuna del titolo V della Costituzione, che lo rende realmente ingestibile; infatti, il sistema delle conferenze andava bene in un modello di federalismo solo amministrativo, mentre in un contesto di federalismo legislativo i poteri limitati concessi a tali organi non sono più adeguati.
Tale assenza rende ingestibile la riforma del titolo V della Costituzione e ciò è dimostrato dall'enorme e spaventoso contenzioso costituzionale che si è sviluppato nel giro di pochissimo tempo.

Credo che la Bicameralina possa essere ritenuto un palliativo assolutamente inadeguato; infatti, ogni disegno di legge riguardante le materie regionali avrebbe dovuto essere esaminato in cinque sedi: Conferenza dei presidenti delle regioni, Conferenza unificata, Bicameralina, Camera dei deputati e Senato della Repubblica, con navette, ogni qual volta che veniva introdotta una modifica. Tutto ciò complicava e rendeva ingestibile il procedimento legislativo, in un contesto che richiede decisioni rapide.

La necessità di revisione del bicameralismo paritario, tuttavia, si è sempre scontrata con l'enorme difficoltà politica del costringere i riformatori a riformare se stessi, ad un vero e proprio «suicidio». Questa morsa politica ha fatto sì che in Italia il progetto di revisione del modello bicamerale del 1948 non sia mai riuscito a decollare.

Dal 1991 sono stati presentati alle Camere 43 progetti: da quello elaborato in quell'anno da questa stessa Commissione fino all'ultimo presentato dai Democratici di sinistra nel 2001; tra i tantissimi si ricordano progetti importanti come quello del Comitato Speroni o della Bicamerale.
La sede opportuna sarebbe stata, ovviamente, la riforma del titolo V della Costituzione, cogliendo l'occasione per legare la «rivoluzione» sul federalismo legislativo agli strumenti idonei per permetterne una efficace gestione; però, persa quell'occasione, la difficoltà politica si è ingigantita e questa considerazione ha giocato un ruolo non indifferente nel guidare la proposta di Lorenzago.

Entrando nello specifico del progetto riguardante il Senato federale, si prevede che sia composto da 200 componenti; le elezioni siano contestuali con quelle dei rispettivi consigli regionali; l'elettorato passivo, rispetto all'ipotesi originaria, sia esteso anche a chi ha la residenza nella regione; sia mantenuta una riserva di 6 seggi per la circoscrizione estera. Credo che quest'ultima sia una scelta discutibile perché poco coerente con la rappresentanza territoriale.

Nel complesso si tratta dell'opzione per un modello «similamericano», che non garantisce, ovviamente, allo stesso modo di una Camera territoriale vera e propria, come il Bundesrat, la rappresentanza degli interessi regionali; tuttavia, sembra evidente l'intenzione di rendere «digeribile» la riforma ai riformatori, una volta che stata mancata l'occasione più naturale che era quella della riforma del titolo V della Costituzione.
È chiaro che un modello tipo Bundesrat rappresenterebbe la soluzioni ideale per un contesto di federalismo legislativo, come quello che è configurato dal titolo V della Costituzione; non mi soffermo, però, sul modo in cui funziona il Bundesrat, riservandomi di dare alcune indicazioni nella mia relazione.

Mi soffermo, invece, su un altro punto dove, probabilmente, è opportuno anche qualche intervento tecnico che riguarda sostanzialmente la differenziazione dei procedimenti legislativi, cioè il procedimento legislativo assimmetrico (in alcuni casi i due rami del Parlamento intervengono in posizione di parità, mentre altre volte ci sono leggi monocamerali della Camera con il richiamo del Senato e viceversa).
L'ambito delle leggi bicamerali è stato enormemente aumentato e su questo bisogna soffermarsi attentamente; infatti, vi rientrano non soltanto i disegni di legge concernenti la perequazione delle risorse finanziarie, le funzioni fondamentali degli enti locali, il sistema elettorale della Camera dei deputati, ma ora, anche, i disegni di legge annuali concernenti la perequazione delle risorse finanziarie e - state bene attenti a questo passaggio - le materie di cui all'articolo 119 della Costituzione, nonché i casi in cui la Costituzione rinvia espressamente la legge dello Stato o alla legge della Repubblica ( qui vengono citati moltissimi articoli, tra cui, da ultimo, gli articoli da 13 a 21 in materia di diritti fondamentali).
A tal proposito, ritengo, che il numero delle materie sia troppo esteso e che in un sistema del genere - considerando la possibilità che si formino maggioranze diverse tra Camera e Senato, che quest'ultimo non è legato al Governo da un rapporto fiduciario, che è stata soppressa anche la possibilità per il Presidente della Repubblica di sciogliere anticipatamente il Senato per impossibilità di funzionamento - il rischio di stallo non sia lontano.
Si possono ipotizzare diverse soluzioni - che tra un momento presenterò - ma prima vorrei richiamare l'attenzione su ciò che accadrà nella materia finanziaria, sia quando la riforma sarà a regime, sia nel periodo transitorio, dal momento che il disegno di legge costituzionale reca una apposita disposizione relativa al periodo transitorio.
In riferimento al regime ordinario previsto dalla riforma, il testo non è chiaro quanto alla legge finanziaria. A mio avviso, l'interpretazione che si deve imporre è che la competenza sulla legge finanziaria sia trascinata dalla competenza sulla legge di bilancio: chi avrà competenza su quest'ultima, avrà competenza anche sulla legge finanziaria. Siccome la competenza sulla legge di bilancio continua a essere della Camera, rimarrebbe alla Camera anche la competenza sulla legge finanziaria. Rispetto ad essa, tuttavia, bisogna scorporare alcuni capitoli che adesso, normalmente, rientrano nella legge finanziaria e che diventerebbero di competenza bicamerale. Ad esempio, mi riferisco al coordinamento della finanza pubblica. Questa è materia che rientra nell'articolo 117, terzo comma, ma anche nell'articolo 119 della Costituzione. Siccome la disposizione che stabilisce che le materie di cui all'articolo 119 della Costituzione sono di competenza bicamerale ha carattere speciale, rispetto all'altra, si deve ritenere che il coordinamento della finanza pubblica si è trasformato da materia di competenza monocamerale, del Senato, in materia di competenza bicamerale.
Un primo rilievo, quindi, è che la disposizione transitoria prevista nel disegno di legge costituzionale in esame ha poco senso proprio dal punto di vista tecnico e giuridico. Questa

recita: «Fino alla data di entrata in vigore delle leggi che, in piena attuazione dell'articolo 119, secondo e terzo comma della Costituzione, individuano i principi di coordinamento della finanza pubblica del sistema tributario ed istituiscono un fondo perequativo, i disegni di legge attinenti ai bilanci ed al rendiconto consuntivo dello Stato sono esaminati secondo il procedimento di cui al terzo comma dell'articolo 70 della Costituzione...». Si tratta, cioè, del procedimento bicamerale. Il periodo transitorio è assolutamente indeterminato perché si protrarrà fino alla piena attuazione dell'articolo 119; non sappiamo quanto durerà. Fino alla fine di questo indeterminato periodo transitorio, la legge di bilancio, il rendiconto consuntivo e, quindi, anche la legge finanziaria diventano di competenza bicamerale. Però, siccome nel testo approvato le materie di cui all'articolo 119 della Costituzione - la perequazione, il coordinamento ed anche la tutela della concorrenza - sono già di competenza bicamerale, questa disposizione sul periodo transitorio avrebbe semplicemente l'effetto di aggiungere alla competenza bicamerale - cioè alla competenza del Senato - aspetti della legge di bilancio che non concernono il federalismo. Questa è la conseguenza. L'effetto della disposizione transitoria, in altri termini, sarebbe quello di prevedere una competenza del Senato su aspetti generali della legge finanziaria che non riguardano il federalismo fiscale. Non se ne capisce il significato.

Mettendo da parte il periodo transitorio (probabilmente, la relativa disposizione dovrà essere rivista), torniamo ad esaminare il regime ordinario e tentiamo un esercizio applicativo. Esaminiamo l'ultima legge finanziaria approvata e vediamo che cosa accadrebbe se fosse a regime questo sistema di bicameralismo. Ad esempio, la disposizione contenuta nell'articolo 3, commi da 16 a 21, dell'ultima legge finanziaria approvata ha dettato disposizioni attuative della cosiddetta golden rule, limitando l'indebitamento delle regioni: le regioni, cioè, possono ricorrere all'indebitamento in casi molto limitati. Questo servirà a garantire il coordinamento della finanza pubblica e il rispetto del patto di stabilità. Una tale misura diventerebbe di competenza bicamerale. Quanto alla norma relativa alle quote di compartecipazione, una volta attuato il federalismo fiscale si dovrà stabilire che la compartecipazione dalle regioni all'IVA sarà in una determinata percentuale. La decisione volta a stabilire se la misura di tale compartecipazione sarà del 60, 70 o 80 per cento è diventata di competenza bicamerale. La fissazione dei principi che ordineranno i poteri impositivi delle regioni, come anche degli enti locali, di conseguenza, diventa di competenza bicamerale. Quindi, la legge finanziaria di competenza esclusiva della Camera deve essere scorporata e tutto il capitolo relativo al patto di stabilità interna ed ai momenti in cui la finanza statale si incrocia con la finanza decentrata dovrà rientrare in una legge a parte, una legge bicamerale; la finanziaria, invece, continua ad essere una legge monocamerale. Comprendete, perciò, che sarà necessario approvare due leggi, la legge finanziaria vera e propria e quella che attiene all'incrocio della finanza nazionale con la finanza degli enti subregionali. Quindi, sono necessari poteri molto forti in materia politica.
Esaminiamo che cosa prevedono, a questo proposito, altri ordinamenti. Ad esempio, nel caso della Germania, la competenza in materia di bilancio spetta al Bundestag (si consideri che il Bundesrat, la Camera rappresentativa delle regioni, ha una cifra rappresentativa molto più forte del Senato previsto dal disegno di legge). La decisione è assunta solo dal Bundestag, quindi solo dalla Camera dei deputati, ed il Bundesrat, dopo un passaggio in una Commissione apposita, può chiedere solo una nuova deliberazione. Analogamente avviene in Austria: soltanto il Consiglio nazionale approva la legge finanziaria, che contiene, in allegato, anche la legge di bilancio, senza che sia necessaria la approvazione da parte del Consiglio federale. In Belgio, il Senato è costituito da una Camera territoriale simile a quella che stiamo per configurare in Italia; differentemente, quindi, dal modello del Bundesrat. Anche in questo caso, la approvazione della legge di bilancio e della legge finanziaria spetta soltanto dalla Camera dei deputati. In Spagna, esistono clausole che rimettono l'ultima parola al Congresso, cioè alla Camera dei deputati. Ad esempio, l'articolo 90 della Costituzione spagnola prevede che, una volta che il Congresso abbia approvato un progetto di legge, il Senato può emendarlo oppure apporre un veto, che può essere superato dal Congresso a maggioranza assoluta. C'è qualcuno, quindi, che ha l'ultima parola nella fase di impasse. In altri casi, si prevede un tentativo di conciliazione; alla fine, decide il Congresso, cioè la Camera dei deputati, a maggioranza assoluta. L'articolo 74 della Costituzione spagnola potrebbe rappresentare una formulazione utile anche per il nostro caso. Tale norma prevede che la Commissione che effettua il tentativo di conciliazione presenti un testo, che sarà votato dalle due Camere; se non sarà approvato, deciderà il Congresso, a maggioranza assoluta.

Torniamo a considerare il Senato federale, nel suo complesso. C'è un duplice problema: sembra difettare di capacità rappresentativa delle regioni - quindi, non ha la capacità rappresentativa del Bundesrat - ed ha poteri molto più forti delle Camere territoriali previste da altri ordinamenti. In merito, sono state avanzate diverse riserve, soprattutto sulla competenza relativa alle leggi quadro, che determinerebbero una eccessiva regionalizzazione dell'indirizzo politico in materie importanti.

Credo che queste osservazioni siano state formulate già nel corso delle audizioni dei colleghi che mi hanno preceduto. Ad esempio, i costituzionalisti di Magna Carta, nel mettere in evidenza questo dato, affermano: «Stupiscono le competenze di questo Senato federale, tanto debole politicamente per via del flebile raccordo con le regioni e per via della mancanza del vincolo fiduciario con il Governo, quanto forte per la quantità di materie su cui ha la parola decisiva. Il Senato non riesce a esprimere una autentica voce delle regioni e non può perciò svolgere quel ruolo strategico di mediazione e incontro tra istanze centrali e istanze del territorio, però ha la decisione finale su tutte le materie concorrenti dell'articolo 117, terzo comma (materie molto importanti, tra cui l'istruzione), nonché sulla tutela della concorrenza, sulla legge finanziaria e sulle leggi che toccano l'esercizio dei diritti fondamentali. Il Senato federale, dunque, è titolare di moltissimi poteri decisionali che investono l'indirizzo politico del Governo e l'esito di questo complicato intreccio è il seguente: o il Governo soggiace ad una negoziazione politica, caso per caso, con il Senato federale, in nome di equilibri e interessi che non è dato conoscere e che, comunque, di certo possono sfuggire alle linee di un indirizzo politico basato sul consenso elettorale, senza però neppure coincidere con quelle regioni; o si immagina un sistema piuttosto fantasioso nel quale l'azione di governo si svolge bypassando il Parlamento e senza bisogno della legge; oppure si accetta l'idea della possibile paralisi del sistema».
Condivido abbastanza queste osservazioni, anche se, probabilmente, la competenza del Senato è stata prevista per recuperare una rappresentatività regionale per funzioni. In

altre parole, la rappresentatività regionale non si è potuta dare tramite una rappresentanza diretta come nel Bundesrat, cioè la nomina da parte degli esecutivi, ma si è recuperata tramite la funzione. Quindi, specializziamo il Senato su materie che riguardano l'interesse regionale, in modo da evitare che il senatore italiano, come quello degli Stati Uniti, non rappresenti più lo Stato che lo ha eletto.

Quindi, con una competenza relativa alle materie che interessano la regione si è creata una rappresentatività per funzione, con un recupero indiretto di rappresentatività. Tuttavia, è importante che il Senato federale si interessi solo di questioni che riguardano le materie regionali e, quindi, è improprio estendere la competenza bicamerale a tutte le altre materie.
Un'altra questione riguarda l'introduzione del temperamento. Il testo in esame prevede che se il Governo dichiara che le modifiche proposte dalla Camera dei deputati ad un progetto di legge relativo alle materie della potestà concorrente (quelle di cui all'articolo 117, terzo comma, della Costituzione) sono essenziali per l'attuazione del suo programma e tali modifiche siano approvate ai sensi del novellato articolo 94, secondo comma, al disegno di legge si applicherà la procedura prevista dagli ultimi due periodi del terzo comma del nuovo articolo 70. Quindi, se un disegno di legge non è approvato dalle due Camere nel medesimo testo dopo una lettura da parte di ciascuna Camera, i Presidenti delle due Camere convocano, d'intesa tra di loro, una commissione mista paritetica incaricata di proporre un testo sulle disposizioni su cui permane il disaccordo tra le due Camere. Il testo proposto dalla commissione mista paritetica è sottoposto all'approvazione delle due Assemblee e su di esso non sono ammessi emendamenti. Questo meccanismo diventa una specie di tentativo di conciliazione ma si rischia che molte questioni finiscano al suo interno. Allora, questo organismo di conciliazione è in grado di rappresentare effettivamente la complessità del panorama politico dei due rami del Parlamento?

In secondo luogo, questa misura non è risolutiva perché può esserci una situazione di stallo. Se le due Camere non approvano una legge o se non si prendono provvedimenti, per esempio, in materia di istruzione, che cosa succede?

Le soluzioni potrebbero essere diverse. Innanzitutto sarebbe utile prevedere il ricorso alla procedura di conciliazione non solo delle leggi a competenza monocamerale del Senato, cioè le materie concorrenti, ma per quelle dell'articolo 119 della Costituzione: ad esempio, se non si raggiunge l'accordo sul coordinamento della finanza pubblica, cioè quando la finanza statale si incrocia con quella regionale, è importante che si possa applicare questo meccanismo.
In secondo luogo, si dovrebbe prevedere l'ipotesi della prevalenza della Camera dei deputati, con un voto a maggioranza assoluta, qualora la situazione entri in una fase di impasse, cioè prevedere che qualcuno possa prendere la decisione, rafforzando la maggioranza e ricalcando così il modello spagnolo. Questa ipotesi dovrebbe essere prevista per tutte le materie della competenza concorrente, (articolo 117, terzo comma, della Costituzione) perché appunto, sono estremamente importanti per il paese e perché è in gioco anche l'indirizzo politico del Governo. A mio avviso, questa ipotesi potrebbe essere esclusa per alcune materie dell'articolo 119 della Costituzione più strettamente inerenti al federalismo fiscale. Se si volesse dare un potere forte e responsabilizzare le realtà regionali, allora su certe materie - ad esempio, la compartecipazione all'IVA - occorrerebbe favorire un principio di correlazione tra cosa

tassata e cosa amministrata. Ad esempio, il Bundesrat, la Camera territoriale tedesca, su queste materie ha un potere di veto che non può essere superato. Quindi, se vogliamo responsabilizzarle, dobbiamo dargli un forte potere decisionale su certe materie che ineriscono al federalismo fiscale, aspetto molto legato alla realtà regionale.
Quindi, si tratterebbe di bilanciare i punti: sicuramente la Camera dovrebbe prevalere sulle materie dell'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, perché interessano l'indirizzo governativo e su alcune materie dell'articolo 119 della Costituzione. Probabilmente non dovrebbe prevalere su altre materie, in cui il federalismo fiscale è strettamente legato alle esigenze di responsabilizzare le regioni, perché in quel caso - come succede in altre ordinamenti, ad esempio, quello tedesco - si potrebbe arrivare ad un accordo. È chiaro che in questo modo abbiamo tolto dei poteri al Senato federale.

Un altro correttivo sarebbe quello di prevedere che i presidenti delle regioni partecipino al Senato federale perché, se togliamo poteri, è anche giusto che questo ultimo possa effettivamente essere integrato in maniera stabile, dandogli quella rappresentatività di cui sembra difettare. Tale questione è stata evidenziata dai costituzionalisti di Magna Carta: «L'assenza dal Parlamento nazionale di coloro che rappresentano le regioni secondo la Costituzione, vale a dire i presidenti delle giunte regionali, fa mancare la voce diretta del territorio e pone al di fuori del tavolo di negoziazione uno degli irrinunciabili negoziatori. Essi devono invece essere protagonisti del Senato federale come luogo della mediazione».
L'altra questione riguarda l'interesse regionale. A mio avviso, nel testo approvato dal Senato, tutto sommato, si prevede una configurazione dell'interesse nazionale migliore rispetto a quella delineata nell'ambito della riforma costituzionale La Loggia, effettivamente poco accettabile in quanto diventava una clausola potenzialmente onnivora delle competenze regionali; viceversa, nel disegno di legge in esame si raggiunge un punto di equilibrio accettabile. In conclusione, la soluzione di questo Senato federale non merita scomuniche ma qualche correttivo. Per quanto riguarda la devolution rimando alle argomentazioni esposte nell'audizione precedente ma vorrei fare solo una considerazione. Con le sentenze n. 303 del 2003 e n. 6 del 2004 la Corte costituzionale ha, di fatto, con un funambolico ragionamento, permesso allo Stato di riappropriarsi di alcune materie nell'ambito delle grandi reti di trasporto e di comunicazione (nella sentenza n. 303 del 2003 della competenza concorrente e nella n. 6 del 2004, addirittura, della competenza esclusiva regionale). Allora, se la Corte costituzionale è intervenuta con queste sentenze che aprono una falla potenzialmente enorme nell'ordinamento, parlare di incubo e di disgregazione sulla devolution mi sembra una cosa al di fuori del contesto di cui stiamo parlando.

La volta precedente ho espresso un parere favorevole alla devolution e alla responsabilizzazione delle realtà regionali, anche in considerazione dei modelli di welfare society che sono stati realizzati a livello regionale. Mi sembra che la maggior parte delle obiezioni che vengono sollevate - soprattutto dopo le sentenze della Corte costituzionale, che permettono allo Stato centrale di riappropriarsi delle materie - spazzino il campo a possibili obiezioni.

 

PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi che intendano porre domande o formulare richieste di chiarimento.

 

GIANCLAUDIO BRESSA. Non farò alcuna domanda al professor Olivetti, in quanto condivido la sua impostazione; invece, sarebbero molte quelle che vorrei fare al professor Antonini ma ne rivolgerò soltanto una per una questione di autocensura.

Il professor Antonini, molto giustamente, sostiene che il rafforzamento dei poteri del premier deve essere bilanciato da una rete di salvataggio, dopodiché indica come unico antidoto la modifica dell'articolo 118 della Costituzione, modifica assolutamente condivisibile che, tuttavia, appare come una pallida rete di salvataggio. Vorrei sapere se può indicarci altri strumenti più efficaci.

Riprendendo un argomento affrontato dal professor Olivetti, devo dire che il secondo comma dell'articolo 94 della Costituzione così come previsto dal disegno di legge, oltre a non essere riscontrabile nell'ambito del diritto comparato, finisce in qualche modo con il far saltare la differenziazione dei poteri: di fatto si attribuisce al premier il controllo sul potere legislativo della Camera. Se, infatti, viene inviata alla Camera una proposta condizionata dalla somma del voto bloccato e di quello di fiducia, si espropria la funzione legislativa; paradossalmente si potrebbero determinare anche gli ordini del giorno dei lavori della Camera. Di fronte ad una previsione del genere mi pare che la pur lodevolissima modifica dell'articolo 118 della Costituzione rappresenti una rete di salvataggio a maglie estremamente larghe.

 

KARL ZELLER. Vorrei porre due domande al professor Antonini sul tema dell'interesse nazionale, che a suo parere, con la soluzione ora proposta non comporta menomazioni significative dei poteri regionali. Ritiene che il principio di sussidiarietà, come interpretato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 303 del 2003, sia sufficiente per delineare gli ambiti di competenza tra Stato e regioni? L'interesse nazionale non potrebbe rappresentare un grimaldello, non solo per annullare leggi regionali ritenute in contrasto con l'interesse nazionale, ma anche per consentire interventi positivi simili alla funzione di indirizzo e coordinamento del Governo?

 

MARCO BOATO. Ringrazio i nostri due interlocutori e faccio loro alcune domande. In particolare dal professor Olivetti, che ha affrontato la questione della forma di Governo, vorrei un parere su quanto è previsto dalla forma anomala di sfiducia costruttiva indicata dal secondo comma dell'articolo 88 della Costituzione, come modificato dal disegno di legge. In base a quanto previsto da questo articolo non ci sarebbe alcun voto da parte del Parlamento, ci sarebbe invece una raccolta di firme, forse verificate dagli uffici della Camera, che farebbe riferimento al risultato delle elezioni e null'altro dal punto vista parlamentare.
Nessuno dei due professori ha toccato l'argomento della ipotizzata modifica dell'articolo 138 della Costituzione. A me pare che, così come è configurata, potrebbe prospettare l'eventualità, se non la quasi certezza, visti gli andamenti elettorali dell'ultimo decennio, che una volta entrata in vigore diventerebbe impossibile qualunque riforma della Costituzione; infatti, una riforma potrebbe essere approvata dal Parlamento ma non trovare riscontro nel consenso degli elettorali, essendo introdotto il quorum obbligatorio della maggioranza degli aventi diritto. Vorrei sapere cosa pensano al riguardo i due professori.

Anche se si tratta di un argomento politico e storico piuttosto che costituzionale, devo confessare che ho una idea diversa da quella del professor Antonini sull'origine del processo di riforma. Tangentopoli, a mio parere, è soltanto l'epifenomeno di tutta la vicenda, in realtà la causa scatenante è la fine della guerra fredda con il cambio dello scenario geo-politico in cui si colloca il sistema democratico italiano, che non a caso a partire dagli anni novanta non blocca più l'alternanza.

Alcune considerazioni del professor Antonini sono in gran parte condivisibili; al riguardo vorrei comprendere meglio il rapporto fra la seconda parte della sua puntuale relazione con l'assunto di partenza. All'inizio del suo ragionamento sul Senato federale il professor Antonini ha affermato che sarebbe stato difficile fare di meglio per dare una voce alle regioni all'interno del Parlamento. Sono d'accordo con il professore che la principale difficoltà politica è legata al fatto che è in questione una istituzione che deve autoriformarsi; è questo il paradosso delle riforme che Zagrebelsky indicava in un contributo contenuto nel libro «Studi in onore di Crisafulli» degli inizi degli anni novanta. Tuttavia, mi pare che l'assunto di base del professore Antonini nel proseguo della sua relazione venga smentito. Poiché ha parlato di Senato federale, vorrei sapere in che cosa consista questo carattere federale, perché l'unico aspetto che lega in qualche modo questo Senato al sistema delle autonomie è la cosiddetta contestualità affievolita, ma è introdotta in modo tale da subordinare le regioni al Senato e non, semmai, la rappresentanza del Senato alle regioni. Infatti, tutto è condizionato ai meccanismi elettorali del Senato, anche lo scioglimento dei consigli regionali; ad esempio, se intervenisse uno scioglimento, al quarto anno, del Consiglio regionale, nella regione si dovrebbe avere una legislatura regionale che duri un solo anno.

A mio avviso, la contestualità delle elezioni costituisce l'unico, pallido, elemento di federalismo presente nella configurazione del Senato; giustamente, è stato rilevato dai nostri ospiti come tale elemento federale, tuttavia, si contamini con la configurazione di un Senato delle garanzie. In tal senso, non si comprende perché proprio questo Senato federale debba nominare i giudici costituzionali ed i membri laici della CSM; chiederei, anzi, ai nostri ospiti il loro parere circa tale potere di nomina. Con riferimento ai componenti della Corte costituzionale, vorrei conoscere la loro opinione sia sul numero (sette) sia sul potere di nomina, che mette capo esclusivamente al Senato federale.

Il professore Antonini ad un certo punto - ma chiedo venia se ricordo male - ha dichiarato che il rischio di uno stallo non è lontano da un sistema del genere; è anche la mia opinione. Però, da tale punto di vista, mi pare sia difficile trovare una soluzione se restano tali la configurazione del Senato da una parte e, dall'altra, quella dei poteri del Primo ministro. Poteri, questi ultimi, che sono da un lato molto irrigiditi (sia pure in capo al Primo ministro piuttosto che al Governo) e, dall'altro, rischiano di essere paralizzati da un Senato che, quanto a poteri conferiti, deve dirsi ipertrofico.

Quindi, abbiamo il paradosso, da una parte, di un eccesso di rigidità della forma di governo, rigidità che, come si è messo in evidenza precedentemente, potrebbe essere corretta accettando il modello del Primo ministro (modello che io personalmente ho condiviso anche nella scorsa legislatura, in Bicamerale); dall'altra parte, di un Senato che non può essere sciolto e che assume di fatto, sia nella fase a regime sia, ancor più, nella fase transitoria, competenze su materie che sono tipicamente oggetto dell'indirizzo di Governo. Ciò è stato ben messo in evidenza dal professore, che ha suggerito anche dei correttivi; chiunque sia al Governo in quel momento, si tratta di materie legate al rapporto fiduciario.


Ebbene, cosa pensa il professore Antonini della mancata previsione dell'ipotesi di scioglimento del Senato per mancato funzionamento (certo, non per sfiducia, atteso che non sussiste un rapporto fiduciario)?

Chiederei, inoltre, al professore Antonini un parere rispetto ad un rischio prospettato dal professore Olivetti; mi riferisco alla possibilità che Primo ministro e Governo entrino in carica sulla base di risultati elettorali che non gli consentano di avere la maggioranza assoluta garantita. Si tratta, del resto, di favorire il formarsi di una tale maggioranza, non di garantirla.
Ebbene, alcuni dei meccanismi suggeriti dal professore Antonini - ad esempio, per superare situazioni di impasse o di stallo tra Camera e Senato, si è proposto che alla fine decida la Camera con maggioranza assoluta - costituiscono, a mio parere, ipotesi condivisibili, adatte al sistema. Però, tali ipotesi devono scontare la circostanza che, appunto, potrebbe verificarsi il paradosso di una maggioranza politica che governa e che però non ha la maggioranza assoluta dei componenti la Camera, essendo stata la fiducia solo presunta, non espressa dal voto dell'Assemblea.

 

MARCELLO PACINI. Vorrei rivolgere una domanda molto puntuale al professor Antonini.
La scarsa rappresentanza territoriale del Senato deriva dal modo con il quale verranno eletti i senatori e deriva, altresì, dalla volontà di rispettare il divieto di mandato imperativo dei singoli rappresentanti. È noto che in Germania la situazione è del tutto diversa in quanto, a mo' di mandato imperativo, si devono tutelare gli interessi del territorio.
La mia domanda prende lo spunto dalla sua ipotesi circa la partecipazione dei Presidenti delle regioni ai lavori del Senato; certo, se il Senato dovesse avere gli attuali ritmi di

lavoro, è augurabile che i governatori non siano presenti tutti i giorni (sarebbe veramente la fine delle regioni!). A suo avviso, professore, è possibile ipotizzare un Senato composto di senatori liberi da vincoli di mandato imperativo, e, altresì, di una quota di rappresentanti delle regioni - nella fattispecie, i governatori o loro delegati - con un mandato imperativo a tutelare gli interessi della regione elaborati e statuiti dagli organi competenti?

 

NUCCIO CARRARA. Vorrei rivolgere una domanda ad entrambi i professori, anche perché ho ascoltato due tesi speculari; peraltro, in questa sede vogliamo approfondire per comprendere meglio le questioni.

Il professore Marco Olivetti ha valutato positivamente l'abbandono del presidenzialismo, l'abbandono del semipresidenzialismo e, infine, il fatto che il Primo ministro non sia eletto direttamente.
Poi, a tale proposito, ha definito rigida la riforma che si sta elaborando ed ha espresso perplessità sul potere di nomina e di revoca dei ministri. Tutto sarebbe - a suo avviso - nelle mani del Primo ministro; sostanzialmente, il professore ha sostenuto che avremmo un Primo ministro troppo forte e ciò in quanto, nel meccanismo che si sta elaborando, si cerca di prevenire in ogni modo il cosiddetto ribaltone. Il meccanismo rivelerebbe il cosiddetto horror ribaltonis, nonostante le misure che attenuano il principio del simul stabunt simul cadent.
Il professore Antonini ha, inoltre, dichiarato che siamo di fronte ad un Senato federale che, in realtà, «farebbe politica», intrecciando fortemente la propria attività con quella di governo; qualora si registrasse al Senato una maggioranza diversa da quella della Camera, tale circostanza impedirebbe al Governo di attuare la propria politica ed il proprio

programma. Quindi, in questa ipotesi, avremmo un Primo ministro debolissimo, incapace di potere rispondere al proprio elettorato che, ovviamente, gli ha dato mandato appunto per governare attuando un programma.

Per il professor Olivetti, invece, nel tentativo di uscire dalla transizione, avremmo un ministro troppo forte. Non sono riuscito a capire se, secondo l'analisi del professore Olivetti, si potrebbe uscire dalla transizione solo tornando indietro o, invece, andando avanti. E, in quest'ultimo caso, come?

Il professor Antonini osserva che dobbiamo evitare lo stallo delle istituzioni. Forse, lei, professore, ha suggerito qualcosa al riguardo; vorrei che, però, focalizzasse meglio la sua attenzione su tale aspetto. Mi pare di avere capito che lei avrebbe fatto la seguente osservazione. Qualora, ad esempio, il Governo ponesse la questione prioritaria su una legge di competenza del Senato, in quel momento scatterebbe il meccanismo bicamerale, ma non si avrebbe un organo decisore alla fine. Lei pensa che alla fine, in questo meccanismo bicamerale, si possa affidare alla Camera la possibilità di dire l'ultima parola per argomenti decisivi per l'attuazione del programma?

 

PRESIDENTE. Prima di dare la parola ai professori Olivetti e Antonini, mi corre l'obbligo di segnalare che saremo costretti a contenere i tempi della nostra audizione, atteso che alle ore 12 riprenderanno i lavori in Assemblea con immediate votazioni. A tale riguardo, inviterei i nostri ospiti - cui, comunque, darò la parola per una breve replica - a consegnare alla Commissione la loro relazione ed eventuale documentazione di carattere integrativo.
Do dunque la parola ai nostri ospiti per le repliche.

 

MARCO OLIVETTI, Professore straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Foggia. Cercherò di essere molto rapido; desidero comunque ringraziare i deputati per le domande che mi sono state rivolte.
Risponderò dapprima all'ultima questione proposta; vengo, perciò, alle mie considerazioni circa i poteri troppo forti attribuiti al Premier. Certamente, la mia proposta era nel senso non di tornare indietro ma di prendere atto che, comunque, un cammino di strada è già stato compiuto: riforma del sistema elettorale, dei regolamenti parlamentari, nuove convenzioni costituzionali. La nostra forma di Governo, già oggi, non è più quella degli anni Ottanta. In questo scenario, occorre apportare alcuni ritocchi di chiusura.

Vorrei, ora precisare cosa intendevo nel criticare il potere di nomina e di revoca. Quelle considerazioni erano tese non già a criticare l'ipotesi di prevedere che il Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, possa revocare i ministri, rispetto a cui mi sono pronunciato (come del resto sottolineavo precedentemente), quanto ad evidenziare la presenza di talune rigidità del progetto. Prevedere che il potere di nomina e revoca non sia esercitato in forma solitaria dal Primo Ministro, ma che questi debba «passare» dal Presidente della Repubblica (il quale avrebbe quindi a disposizione uno strumento di controllo formale) costituirebbe a mio avviso una risorsa in più per il sistema costituzionale, vantaggiosa per lo stesso Primo Ministro. In generale, comunque, le mie obiezioni in materia di forma di governo non sono rivolte tanto contro questo o quel meccanismo, tra quelli inseriti nel progetto di riforma, quanto contro la loro combinazione. Non sono i singoli ingredienti, è il cocktail finale che rischia di uccidere il malato.
Ciò che sottolineava il professor Antonini, del resto, non è altro che l'altra faccia della medaglia, di quanto appena osservato. Si corre il rischio di porre in essere un sistema

schizofrenico, nel quale la Camera diventa una sede di registrazione di scelte governative, e il Senato, invece, il luogo in cui tutto si blocca. Quindi, occorrerebbe, forse, ripensare proprio questo aspetto, come viene anche sostenuto dai costituzionalisti di Magna Carta, dei quali non condivido le valutazioni sulla forma di Governo ma accolgo, invece, le considerazioni sul Senato federale.

Vengo, infine, agli altri quesiti sollevati dall'onorevole Boato. Riguardo all'articolo 88, secondo comma, l'aspetto che lei indicava, onorevole, personalmente mi preoccupa meno rispetto al meccanismo nel suo complesso. Probabilmente, l'autore di quella disposizione ha letto l'articolo 49, terzo comma, della Costituzione francese, relativo alla questione di fiducia (il cui tenore è simile, tra l'altro, alla formula che verrebbe introdotta all'articolo 94, secondo comma, del provvedimento in esame). Anche da quella norma è richiesta la raccolta delle firme dei contrari - in questo caso alla questione (e non allo scioglimento) - senza dover procedere a votazione alcuna. Si tratta, peraltro, di un meccanismo notevolmente discusso, anche nell'ordinamento francese. In effetti, la votazione potrebbe essere la soluzione più lineare da adottare; non mi sembra, comunque, questo il passaggio più criticabile dell'articolo 88, secondo comma.

Quanto all'articolo 138, con la riforma verrebbe rafforzata la rigidità costituzionale, ma il rafforzamento interverrebbe solo dopo aver modificato la Costituzione, sarebbe quasi come chiudere la stalla dopo la fuga dei buoi. Trattandosi, però, di una critica di natura politica, che a me non compete muovere, non procederò oltre riguardo a questo specifico aspetto. Proseguendo, invece, nel giudizio tecnico, ai sensi del progetto di riforma, con il meccanismo introdotto viene soppresso il terzo comma dell'articolo 138, e quindi il referendum potrà essere richiesto in ogni caso. Attualmente, invece, sappiamo che la possibilità di richiederlo viene esclusa allorché la legge sia approvata con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti; in sintesi spicciola, il messaggio lanciato dalla vigente Costituzione alla maggioranza parlamentare è quello di un'alternativa secca tra l'ipotesi di un accordo con l'opposizione, necessario a conseguire il quorum previsto dei due terzi, e - in assenza di intesa - la necessità di affrontare la via referendaria e quindi ottenere il consenso del corpo elettorale. Con il nuovo meccanismo, invece, si interviene rendendo il referendum sempre necessario.

 

MARCO BOATO. Non sempre necessario, sempre possibile, piuttosto.

 

MARCO OLIVETTI, Professore straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Foggia. Sì, sempre possibile. Esattamente. Cioè sarà possibile sempre richiederlo; però, se ciò che ho compreso è corretto (la norma, così come formulata, appare infatti singolare), per il caso in cui la legge fosse approvata a maggioranza dei due terzi, come avviene attualmente, non è previsto alcun quorum, che verrebbe invece richiesto nell'ipotesi in cui la legge fosse approvata a maggioranza assoluta. Anche in questo caso, dunque, è possibile accertare un certo irrigidimento di cui, peraltro, mi sfugge la ratio complessiva. Sarebbe più coerente prevedere sempre il quorum dei due terzi, allorché si volesse veramente irrigidire nel suo complesso la procedura di revisione costituzionale.

Quanto, infine, al fatto che i sette giudici costituzionali siano nominati dal Senato, su questo, la mia personale perplessità, in dissenso con molti autorevoli colleghi ed amici, non è fortissima. Il problema non sta nel fatto che il Senato nomini sette giudici costituzionali, quanto, semmai, nel fatto che rappresenti malamente le regioni: è una rappresentanza potenzialmente debole. Diversamente, in un sistema fortemente decentrato, che l'arbitro sia scelto anche dalle regioni mi sembrerebbe una soluzione, in linea di principio, condivisibile; perché ciò avvenga, però, occorre che alla sua designazione concorra una Camera ove siano presenti, in maniera forte, gli enti regionali, come avviene nel modello tedesco.
Probabilmente, in questo caso, sarebbe più funzionale la proposta formulata dal collega Roberto Bin, il quale ha suggerito di distinguere la Corte costituzionale in due «sezioni» o «senati», uno dei quali chiamato ad occuparsi del rapporto Stato-regioni e l'altro di tutto il resto; il primo potrebbe allora essere eletto paritariamente dalla Camera delle regioni e da quella politica. Invece, i sette giudici costituzionali eletti dal Senato delle regioni andrebbero a decidere, nel sistema delineato nel progetto di riforma, anche tutte le altre questioni di legittimità costituzionale, e questo è un elemento più discutibile.

 

LUCA ANTONINI, Professore straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Padova. Rispetto a quanto sottolineava l'onorevole Bressa a proposito dell'antidoto rappresentato dalla rete di salvataggio della sussidiarietà, ritengo che non sia debole, allorché si intenda il meccanismo in un contesto complessivo. Non esiste solo tale strumento, vi è una rete di salvataggio di carattere più generale nel federalismo. Occorre ad ogni modo sottolineare che, quando si parla di sussidiarietà, la si intende tanto nella sua espressione verticale che orizzontale. Sono questi gli

strumenti, soprattutto quello del federalismo, che - ripeto - stiamo tentando di mettere insieme per bilanciare il rafforzamento dei poteri.

Per quanto riguarda l'interesse nazionale, è certamente vero che in passato, nato per legittimare il controllo di merito esercitato dal Parlamento, in quella forma non trovò mai applicazione: la Corte costituzionale ne spostò l'ambito di riferimento, per cui da parametro di controllo di merito divenne parametro del controllo di legittimità. Quanto ai più recenti sviluppi interpretativi in proposito, ritengo che questi siano contenuti nella sentenza n. 303 del 2003, con cui la Consulta si è spinta molto in avanti in materia: ritengo che oltre quel punto sia molto difficile proseguire.

Reputo, in ogni caso, estremamente difficile ipotizzare di poter ancora una volta, come è accaduto in passato, dar vita ad un escamotage, che consenta di servirsi delle disposizioni sull'interesse nazionale, a partire dalla formulazione datane dal provvedimento; giuridicamente è molto improbabile.

Quanto alle domande sollevate dall'onorevole Boato, è difficile apportare ulteriori miglioramenti al testo, rispetto ad un modello di riferimento Bundesrat che appariva ed appare arduo trasporre nel nostro ordinamento. Alla luce di tali valutazioni, quindi, l'elezione diretta dei senatori, come esiste in Spagna, appare inevitabile. Diversamente, si sarebbe verificata una sorta di «suicidio» del Senato; così facendo, invece, si è data la possibilità a questo di ricoprire un ruolo rivisitato e - mi sia consentita l'espressione - di «riciclarsi». Per quanto riguarda il difetto di rappresentatività, individuo un correttivo nel ruolo dei presidenti delle giunte regionali, necessari a recuperare quel raccordo che altrimenti risulterebbe pallido.

Sarei invece concorde con la previsione dello scioglimento anticipato in caso di impossibilità di funzionamento, a meno che non si prevedesse una clausola in cui, per tale fattispecie, venisse riconosciuta alla Camera politica la possibilità di prevalere. Verrebbero, ovviamente, esclusi i soli casi in cui necessitasse una responsabilizzazione politica forte del Senato federale, come, ad esempio, quei provvedimenti tesi a definire la misura della compartecipazione ai tributi, allorché la quota regionale divenisse molto alta. Si pensi solo al caso dell'IVA: se questo diventasse un tributo la cui compartecipazione fosse tale per cui la quota regionale risultasse rilevantissima, sarebbe giusto che vi fosse anche un organo, il Senato federale, appunto, che avesse l'ultima parola sulla misura delle aliquote. Questa è la mia preoccupazione. Sul resto, occorre invece che sia la Camera a prevalere. Quanto alla questione sottolineata dall'onorevole Pacini, mi trovo sostanzialmente concorde, anzi lo ringrazio per la sua specificazione. Se in luogo dei presidenti di regione vi fossero i delegati, sarebbe opportuno, a mio avviso, togliere - per questa quota di rappresentanza - il divieto di mandato imperativo. Altrimenti non vi sarebbe più senso nella previsione. Il correttivo indicato, invece, consentirebbe di recuperare quella rappresentatività che sembra difettare.