periodico telematico quotidiano a carattere informativo
registrato il 17/03/2003 presso il Tribunale Civile di Roma Sezione Stampa n.106/2003
 
n.  422 - Roma, 7 dicembre 2004

Sommario

Consulta su Statuti Emilia-Romagna e Umbria

  Calabria: ODG su OGM

Corte Costituzionale: sentenza su Statuto Umbria

Finanziaria: preoccupazione per Enti pubblici di ricerca

Corte Costituzionale: sentenza su Statuto Emilia-Romagna

Finanziaria: Upi a manifestazioni autonomie

 Consulta su Statuti Emilia-Romagna e Umbria

La Corte costituzionale ha dichiarato non fondate - meno che una (incompatibilita' carica componente Giunta con quella di consigliere)  - le questioni di legittimita' costituzionale sollevate dal governo contro gli Statuti delle Regioni Umbria ed Emilia Romagna. I giudici della Consulta hanno fatto conoscere le loro conclusioni con due sentenze.
La Corte costituzionale ha bocciato quindi, dichiarandole inammissibili o infondate, quasi tutte le questioni sollevate dal Governo sugli Statuti dell'Emilia Romagna e dell'Umbria. Sono solo stati accolti i dubbi espressi sulle norme che stabiliscono l'incompatibilita' della carica di assessore con quella di consigliere regionale. Queste norme (gli articoli 45, comma 2, dello statuto emiliano, e 66, commi 1 e 2, dello statuto umbro) sono state dichiarate incostituzionali.
Il presidente dell' Emilia-Romagna, Vasco Errani, ha espresso soddisfazione per la sentenza della Corte Costituzionale sullo Statuto. ''Analizzando nel merito le osservazioni avanzate dal Governo allo Statuto licenziato dal Consiglio regionale dell'Emilia-Romagna, la Corte costituzionale ha confermato, nella sostanza, quanto avevamo sempre sostenuto'', ha affermato: ''Sono venuti, invece, richiami significativi al Governo - ha aggiunto - ricondotto al rispetto di corrette relazioni con le Regioni secondo quanto fissato dal dettato costituzionale nell'insieme, e non solo nel Titolo V riformato nel 2001''. Secondo Errani, ''emerge in questo modo la strumentalita' delle critiche rivolte alla stessa riforma del 2001, e il carattere burocratico di obiezioni che nulla hanno a che vedere con principi costituzionali che la Regione ha sempre inteso rispettare pienamente. Sul punto dell'incompatibilita' fra le figure di consigliere ed assessore - prosegue Errani - l'osservazione della Corte, alla quale la Regione aderira' senza dubbio, fa salva la sostanza positiva della scelta operata dall'Emilia-Romagna. Si conferma dunque la piena validita' del lavoro svolto per dare all'Emilia-Romagna un nuovo Statuto, con una ampia partecipazione e una pluralita' di contributi. E la nostra piena soddisfazione per il risultato raggiunto. Anche questa vicenda degli Statuti della Toscana, dell'Umbria, dell'Emilia-Romagna - ha concluso Errani - dimostra che sarebbe indispensabile fondare i rapporti tra Governo e Regioni sul principio di leale cooperazione e abbandonare ogni atteggiamento che nei fatti si e' dimostrato pregiudiziale e non rispettoso
delle prerogative costituzionali delle Regioni''.
Per quanto riguarda in particolare lo Statuto dell'Umbria, la Corte ha inoltre dichiarato inammissibile il ricorso promosso dal consigliere di minoranza Carlo Ripa di Meana. La Consulta ha dichiarato pero' costituzionalmente illegittimo l'art. 66 dello Statuto dove si stabilisce l'incompatibilita' della carica di componente della Giunta con quella di consigliere regionale.
Anche per l'Umbria, come gia' per la Toscana (
Sentenza Corte Costituzionale), la Consulta ha dichiarato inammissibile il ricorso del governo contro quegli  articoli dello Statuto che tutelano forme di convivenza diverse dalla famiglia. Come gia' in altre sentenze, la Consulta ha spiegato che in questo modo la Regione esercita la propria autonomia politica e l'articolo contestato dal governo non avrebbe un effettivo contenuto normativo ''e quindi non avrebbe alcuna idoneita' lesiva''. 
Anche per lo Statuto dell'Emilia Romagna la Consulta ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale della norma che prevede l'incompatibilita' fra la carica di assessore e quella di consigliere regionale (art. 45, comma 2).
Il ricorso del governo e' stato respinto dalla Consulta anche per la parte riguardante la delimitazione dell'area metropolitana di Bologna. Secondo la Corte, infatti, lo Statuto regionale riconosce l'esercizio dei poteri all'area metropolitana di Bologna ma lo subordina al rispetto della disciplina stabilita dallo Stato. Allo stesso modo la Consulta ha ritenuto non fondata la censura di illegittimita' costituzionale relativa alla norma statutaria che prevede una verifica annuale in Consiglio regionale sull'attuazione del programma di giunta.
Mentre la presidente della Regione Maria Rita Lorenzetti commentando le decisioni della Consulta, ha dichiarato che ''Il pronunciamento della Corte Costituzionale ha fatto giustizia degli attacchi mossi in questi mesi al lavoro della Commissione Statuto e del Consiglio regionale che nello scrivere e approvare la nuova Carta hanno svolto un lavoro rigoroso e di qualita'''
''Per questo sento di dover ancora una volta ringraziare - afferma Lorenzetti - il presidente, il vicepresidente e i membri della Commissione Statuto per il lavoro fatto''.
Secondo la presidente della Regione ''la decisione della Corte conferma la saggezza e l'equilibrio con cui abbiamo scritto norme come quelle relative alla famiglia e alle forme di convivenza''. ''Sconfessando - aggiunge - forze politiche ed esponenti di Governo che hanno pensato di poter utilizzare strumentalmente questioni cosi' delicate''.
Quanto all'articolo 66 - che stabilisce l'incompatibilita' della carica di componente della Giunta con quella di consigliere, dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Consulta - per Lorenzetti ''si tratta di un fatto tecnico, come gia' lo stesso Governo aveva sottolineato proprio in sede di impugnazione dello Statuto della Regione''. Il rilievo - spiega - consiste nel fatto che secondo la Corte e' materia di legge elettorale, non di Statuto. ''Non mette quindi in discussione il merito - conclude Lorenzetti - e ci consente di tornare in Consiglio regionale e togliere questa parte dell'articolo 66, andando avanti con la legge elettorale ordinaria''.
red)

Corte Costituzionale: sentenza Umbria

                                                                                                            SENTENZA N.378

  ANNO 2004

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 9, comma 2; 39, comma 2; 40; 66, comma 1 e 2 e 82 della deliberazione statutaria della Regione Umbria e dell’intera deliberazione statutaria approvata in prima deliberazione il 2 aprile 2004 ed in seconda deliberazione il 29 luglio 2004, e pubblicata nel B.U.R. n. 33 dell’11 agosto 2004, promossi con ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri e di Carlo Ripa di Meana, consigliere regionale di minoranza della Regione Umbria, notificati il 9 e l’11 settembre 2004, depositati in cancelleria il 15 e il 20 successivi ed iscritti ai nn. 88 e 90 del registro ricorsi 2004.

            Visti gli atti di costituzione della Regione Umbria nonché l’atto di intervento, relativamente al ricorso n. 88 del 2004, di Carlo Ripa di Meana consigliere regionale di minoranza della Regione Umbria;

            udito nell’udienza pubblica del 16 novembre 2004 il Giudice relatore Ugo De Siervo;

            uditi l’avvocato dello Stato Giorgio D’Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Giandomenico Falcon per la Regione Umbria e Urbano Barelli per il consigliere regionale Carlo Ripa di Meana.

Ritenuto in fatto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 9 settembre 2004, depositato in data 15 settembre 2004 e iscritto al n. 88 nel registro ricorsi del 2004, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 123, secondo comma della Costituzione nei confronti della delibera statutaria della Regione Umbria approvata dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile del 2004 ed in seconda deliberazione il 29 luglio 2004. In particolare, di detta delibera statutaria vengono censurati: l’art. 9, comma 2; l’art. 39, comma 2; l’art. 40; l’art. 66 commi 1 e 2; l’art. 82.

Premette la difesa erariale che la potestà statutaria delle Regioni, configurata dalle riforme costituzionali del 1999 e del 2001 come una speciale fonte normativa regionale collocata in una posizione privilegiata nella gerarchia delle fonti, è stata al tempo stesso però delimitata rigorosamente, al fine di assicurare il rispetto del principio di legalità costituzionale. La Regione Umbria avrebbe “ecceduto dalla propria potestà statutaria in violazione della normativa costituzionale”.

2. – In primo luogo l’Avvocatura censura l’art. 9, comma 2, della delibera statutaria il quale, nel disporre che la Regione tutela “forme di convivenza” ulteriori rispetto a quella costituita dalla famiglia, detterebbe una disciplina ambigua e di indiscriminata estensione. Essa nella misura in cui consente l’adozione di “eventuali future previsioni normative regionali” concernenti i rapporti patrimoniali e personali tra conviventi, nonché il loro status, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.

Ove poi la norma intendesse esprimere qualcosa di diverso rispetto al rilievo sociale e alla dignità giuridica, nei limiti previsti dalla legge dello Stato, della convivenza familiare, ovvero intendesse “affermare siffatti valori” anche per le unioni libere e le relazioni tra soggetti dello stesso sesso, violando i principî sanciti dagli artt. 29 e 2 della Costituzione, essa contrasterebbe con l’art. 123 della Costituzione. Come affermato anche dalla giurisprudenza costituzionale, lo statuto regionale, infatti, non solo dovrebbe essere conforme alle singole previsioni della Costituzione, ma non dovrebbe neppure eluderne lo spirito. Il generico e indiscriminato riferimento alle forme di convivenza, specie se letto in relazione all’art. 5 dello statuto, che afferma che la Regione concorre a rimuovere le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale, comporterebbe “una incongrua e inammissibile dilatazione dell’area delimitata dai valori fondanti dell’art. 2 Cost.”.

A monte, la norma impugnata contrasterebbe con l’art. 123 della Costituzione anche perché sarebbe estranea ai contenuti necessari ed eccederebbe i limiti in cui altri contenuti sarebbero ammissibili, in quanto non esprimerebbe alcun interesse proprio della comunità regionale, e comunque non potrebbe affermare valori e principî diversi da quelli già espressi nella prima parte della Costituzione, contrastando altrimenti con l’art. 5 della Costituzione e il principio di unitarietà della Repubblica ivi affermato, creando altresì un’ingiustificata disparità di trattamento dei singoli.

3. – La difesa erariale censura poi l’art. 39, comma 2, e l’art. 40 della delibera statutaria, per violazione degli art. 121, secondo comma, e 117, terzo comma, della Costituzione.

Le suddette norme – che prevedono rispettivamente la possibilità per la Giunta regionale, previa autorizzazione con legge regionale, di adottare regolamenti di delegificazione e di presentare al Consiglio progetti di testo unico di disposizioni di legge – contrasterebbero con il principio della separazione dei poteri tra organo legislativo ed organo esecutivo. In mancanza di norme costituzionali derogatorie, non sarebbero infatti ammissibili regolamenti di delegificazione, né deleghe legislative, e neppure sarebbe possibile un’estensione analogica delle deroghe previste per la legislazione statale.

Nel ricorso si osserva anche che la possibilità riconosciuta dalla Corte con la sentenza n. 2 del 2004 di conferire al Consiglio regionale la potestà regolamentare, non autorizzerebbe pure la previsione inversa del conferimento alla Giunta della potestà legislativa.

Inoltre, la fonte regolamentare sarebbe “incongruente” con le materie di competenza concorrente, dal momento che inciderebbe sui principî stabiliti dalle leggi statali, ex art. 117, terzo comma, della Costituzione.

L’art. 40 della delibera statutaria violerebbe il principio della separazione tra organo legislativo e organo esecutivo anche in considerazione della circostanza che consentirebbe alla Giunta di disciplinare materie di competenza legislativa senza che tale vizio possa ritenersi sanato dalla previsione della approvazione finale del testo unico da parte del Consiglio, trattandosi di approvazione meramente formale, senza potere di modifica del testo.

4. – Ancora, l’Avvocatura censura l’art. 66, commi 1 e 2, della delibera statutaria nella parte in cui stabiliscono l’incompatibilità della carica di componente della Giunta con quella di consigliere regionale. La norma, secondo il ricorrente, contrasterebbe con l’art. 122, primo comma, della Costituzione, che – ed al riguardo viene invocata la sentenza n. 2 del 2004 di questa Corte – riserverebbe alla legge regionale, nei limiti dei principî sanciti dalla legge statale, la individuazione dei casi di incompatibilità.

5. – Infine, la difesa erariale impugna l’art. 82, il quale attribuisce alla Commissione di garanzia la funzione di esprimere pareri sulla conformità allo statuto delle leggi e dei regolamenti regionali.

Ove la norma, il cui tenore letterale – si osserva nel ricorso – non sarebbe chiaro, dovesse intendersi nel senso che tale parere segua il compimento dell’attività normativa, conferirebbe ad un organo amministrativo un inammissibile potere di sindacare le leggi e i regolamenti già adottati dai competenti organi regionali, in violazione degli artt. 121 e 134 della Costituzione.

6. – Si è costituita in giudizio la Regione Umbria, la quale ha chiesto che il ricorso proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri sia dichiarato inammissibile e infondato, riservandosi di illustrare in una successiva memoria le argomentazioni a sostegno delle proprie difese.

7. – Il consigliere regionale della Regione Umbria, Carlo Ripa di Meana, ha spiegato atto di intervento nel giudizio chiedendo che, ove “preliminarmente si accerti l’esistenza giuridica dello statuto”, ne sia dichiarata l’illegittimità costituzionale.

In ordine alla legittimazione ad intervenire, si afferma che essa sarebbe implicita nel sistema costituzionale, dovendosi considerare il consigliere regionale dissenziente un soggetto costituzionalmente qualificato a tal fine, in quanto dotato di una diversa ed autonoma posizione derivante dall’eccezionale carattere preventivo della impugnazione dello statuto rispetto alla sua promulgazione, e dal fatto che, dovendo la decisione della Corte essere recepita dal Consiglio regionale, essa condizionerebbe la promulgazione stessa dello statuto. Fintanto che lo statuto non sia promulgato, la fattispecie non potrebbe dirsi “perfetta” e lo statuto non sarebbe imputabile alla Regione, ma solo alla maggioranza consiliare. Proprio questo elemento evidenzierebbe la differente posizione del consigliere regionale di minoranza e giustificherebbe la sua legittimazione ad intervenire nel giudizio avanti alla Corte costituzionale.

Inoltre, poiché per il principio maggioritario la volontà della maggioranza è imputata all’intero collegio, il componente dissenziente avrebbe un interesse particolare al rispetto delle norme procedimentali che conducono a tale imputazione e che nel caso della approvazione dello statuto consisterebbero in primo luogo nella necessaria conformità delle due deliberazioni. La legittimazione del consigliere interveniente, nel caso di specie, deriverebbe anche dalla circostanza secondo la quale con tale intervento si intende far valere proprio una presunta violazione di questa regola.

Tale violazione, peraltro, sarebbe comunque rilevabile d’ufficio dalla stessa Corte, in quanto impedirebbe il perfezionamento della fattispecie procedimentale di cui all’art. 123 della Costituzione e dunque l’imputazione dello statuto al Consiglio regionale e alla Regione.

Infine, il mancato riconoscimento della legittimazione del consigliere di minoranza significherebbe rimettere soltanto al Governo e al Presidente della Giunta regionale, ed alle loro valutazioni di opportunità politica, la tutela “dell’interesse al rispetto della legalità costituzionale”. Inoltre, l’esclusione dal contraddittorio del consigliere dissenziente, “titolato all’intervento proprio dal principio rappresentativo” costituirebbe un’inammissibile lesione della doverosa armonia con la Costituzione di cui all’art. 123 della Costituzione.

8. – Nel merito il consigliere interveniente sostiene che nell’adozione dello statuto della Regione Umbria sarebbe stato violato il procedimento di cui all’art. 123, secondo comma, della Costituzione, dal momento che la seconda deliberazione con la quale è stato approvato lo statuto in data 29 luglio 2004, non sarebbe eguale a quella precedente del 2 aprile 2004.

La diversità riguarderebbe l’art. 9 della delibera statutaria di cui sarebbe stata sostituita la rubrica (da “Comunità familiare” a “Famiglia. Forme di convivenza”), modificato il testo ed inoltre scomposto l’originario unico comma in due commi. Il risultato di tali modificazioni – introdotte come “correzioni formali” – avrebbe avuto effetti sostanziali, comportando la separazione della tutela delle forme di convivenza, previste nel secondo comma della norma, dal riconoscimento dei diritti della famiglia, oggetto del primo comma, e la “attribuzione di carattere aggiuntivo alla tutela della convivenza”, espressa mediante l’avverbio “altresì”, introdotto nel comma 2. In tal modo, come risulterebbe dal dibattito svoltosi in Consiglio regionale, si sarebbe voluto venire incontro alle proteste di quanti affermavano esservi una equiparazione della convivenza alla famiglia legittima in violazione dell’art. 29 Cost. Inoltre, attraverso la soppressione del riferimento alla “varietà” delle forme di convivenza prevista nel testo approvato in prima deliberazione, si sarebbe tenuto conto delle “proteste di quanti ravvisavano nella previsione una tutela anche delle convivenze omosessuali”. Poiché dunque le correzioni avrebbero modificato la sostanza della previsione originaria, con la seconda deliberazione vi sarebbe stato “un diverso volere legislativo” e non si sarebbe realizzato l’atto complesso previsto dall’art.123 della Costituzione, con conseguente e diretta violazione della norma costituzionale, di talché mancherebbe l’oggetto del processo, e la Corte non potrebbe giudicare della legittimità di un atto che non esiste.

Peraltro, osserva ancora l’interveniente, ove tale nodo non venisse sciolto adesso, esso si ripresenterebbe al momento della promulgazione dello statuto, non potendo questa avvenire in mancanza del riscontro di regolarità del procedimento e dell’esistenza della legge che, nel caso in esame, non sussisterebbe.

9. – In via subordinata, l’interveniente afferma di condividere i rilievi di costituzionalità sollevati nel ricorso del Governo, dei quali si ribadisce ampiamente la fondatezza.

10. – In prossimità dell’udienza pubblica, la Regione Umbria ha depositato una memoria nella quale contesta le censure formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri avverso la delibera statutaria impugnata.

Infondati sarebbero innanzitutto i rilievi mossi nei confronti dell’art. 9, comma 2, concernente la tutela di forme di convivenza. Tale norma avrebbe infatti natura meramente programmatica e legittimamente potrebbe essere inserita nello statuto, accanto ai contenuti necessari dello stesso, in quanto essa non fonderebbe alcun potere ulteriore della Regione, rispetto a quelli ad essa conferiti dalla Costituzione.

La previsione dell’art. 9, comma 2, costituirebbe infatti esercizio dell’autonomia politica, pacificamente riconosciuta alle Regioni, le quali ben potrebbero seguire indirizzi diversi da quelli dello Stato, pur nel rispetto dei limiti costituzionali imposti ai poteri regionali, senza perciò violare l’art. 5 Cost. Anche la Corte costituzionale avrebbe riconosciuto alle Regioni il ruolo di enti esponenziali delle comunità a ciascuna di esse facenti capo: tale ruolo legittimerebbe la possibilità di partecipare a tutte le questioni di interesse della comunità regionale, anche se queste sorgono in settori estranei alle materie attribuite dall’art. 117 alla competenza regionale e si proiettino oltre i confini territoriali della Regione (al riguardo la difesa regionale richiama la sentenza di questa Corte n. 829 del 1988).

La censura in questione sarebbe pertanto inammissibile, poiché l’art. 9, comma 2, della delibera statutaria, così interpretata, non avrebbe un effettivo contenuto normativo e quindi non avrebbe alcuna idoneità lesiva.

Errata sarebbe poi l’affermazione secondo cui essa non esprimerebbe alcun interesse proprio della comunità regionale, dal momento che la norma tutelerebbe forme di convivenza di persone che vivono nella Regione.

Quanto ai motivi di impugnazione concernenti la violazione dell’art. 29 Cost., la Regione osserva che il particolare valore riconosciuto da tale norma alla famiglia fondata sul matrimonio, non implicherebbe necessariamente che forme di convivenza diverse non possano comunque essere tutelate. D’altra parte, il diverso valore riconosciuto a tali forme di convivenza risulterebbe evidente dalla diversa formulazione dei due commi dell’art. 9.

La norma statutaria, dunque, porrebbe un obiettivo legittimo che potrebbe essere attuato in modo conforme all’ordinamento e con riferimento a forme di convivenza diverse da quelle tra persone dello stesso sesso, su cui invece si incentrano le censure del ricorso statale. Semmai un problema di legittimità potrebbe porsi con riguardo a leggi regionali che in concreto dovessero intervenire a tutela di tale tipo di convivenza.

11. – Anche la censura concernente l’art. 39 dello statuto sarebbe infondata.

Non sarebbe pertinente lamentare la violazione del principio di separazione dei poteri in quanto l’abrogazione delle norme legislative sarebbe comunque disposta non dal regolamento di delegificazione, ma dalla legge. Inoltre l’ammissibilità dei regolamenti di delegificazione a livello regionale sarebbe ormai pacificamente ammessa dalla dottrina. Sotto altro profilo, poi, disposizione analoga a quella censurata sarebbe contenuta nell’art 43 dello statuto della Regione Calabria, disposizione quest’ultima non impugnata dal Governo.

12 – Analogamente sarebbe da respingere la censura avverso l’art. 40 della delibera statutaria, dal momento che esso non prevederebbe alcuna delega legislativa e che l’approvazione finale da parte del Consiglio con le sole dichiarazioni di voto non contrasterebbe con l’art. 121 della Costituzione che, a differenza dell’art. 72 della Costituzione, non prevede l’esame in commissione e l’approvazione articolo per articolo. D’altra parte, la previsione di una procedura spedita di approvazione del testo unico ben si giustificherebbe per il carattere non innovativo dell’atto legislativo in questione. Infine la difesa regionale evidenzia ancora come analoga norma contenuta nello statuto della Regione Calabria (art. 44) non sia stata impugnata dal Governo.

13. – La Regione Umbria sostiene che anche la censura mossa avverso l’art. 66 sarebbe infondata, dal momento che la incompatibilità della carica di componente della Giunta con quella di componente del Consiglio non atterrebbe alla materia elettorale, bensì alla disciplina della forma di governo regionale. Ad avviso della difesa regionale, non tutte le cause di incompatibilità avrebbero la medesima ratio: mentre le incompatibilità “esterne”, quale, ad esempio, quella tra appartenenza al Consiglio o alla Giunta regionale e appartenenza al Parlamento, avrebbero la funzione di garantire l’effettività e l’imparzialità dello svolgimento della funzione, le incompatibilità “interne”, quale appunto quella prevista dalla norma censurata, atterrebbero al modo di conformare i rapporti tra gli organi fondamentali della Regione.

14. – “Radicalmente infondata” sarebbe infine la censura mossa nei confronti dell’art. 82 della delibera statutaria che disciplina la Commissione di garanzia. Il potere conferito a tale organo sarebbe meramente consultivo e facoltativo; inoltre l’unica conseguenza di un suo parere negativo sarebbe solo il dovere per l’organo competente di riesaminare l’atto per la sua riapprovazione, peraltro senza maggioranze qualificate (d’altra parte, la previsione della necessità di una riapprovazione della legge o del regolamento rientra sicuramente nella competenza statutaria). La Commissione di garanzia, dunque, assicurerebbe solo un controllo interno per meglio garantire la legittimità delle fonti regionali. Sarebbe comunque sempre rispettata la competenza legislativa del Consiglio e il potere di sindacato della Corte costituzionale.

15. – Con ricorso notificato in data 11 settembre 2004, depositato il 20 settembre 2004, e iscritto al n. 90 del registro ricorsi del 2004, il consigliere regionale Carlo Ripa di Meana ha chiesto che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale, ovvero la nullità o l’inesistenza della delibera statutaria della Regione Umbria.

Sostiene preliminarmente il ricorrente che tale delibera statutaria sarebbe stata approvata in violazione del procedimento previsto dall’art. 123 Cost., in quanto mancherebbe la doppia delibera conforme e che ciò sarebbe avvenuto con la contrarietà espressa dello stesso ricorrente.

Il consigliere afferma di aver denunciato tale vizio alla Presidenza del Consiglio dei ministri, la quale, asseritamente per ragioni politiche, non avrebbe incluso tra i motivi del ricorso presentato avverso la delibera statutaria della Regione Umbria anche il vizio procedimentale suddetto.

16. – In ordine alla legittimazione di un consigliere regionale di minoranza a ricorrere alla Corte costituzionale, il ricorrente osserva che essa sarebbe implicita nel sistema costituzionale per una pluralità di ragioni.

Al riguardo – oltre ad alcune argomentazioni già riportate a proposito del menzionato atto di intervento nel giudizio instaurato dal ricorso del Governo – si evidenzia come l’ammissibilità del ricorso deriverebbe anche dalla circostanza che nella forma di governo regionale mancherebbe un potere neutro quale quello del Presidente della Repubblica, che possa rinviare al Parlamento le leggi sospette di incostituzionalità. Proprio l’attribuzione al massimo esponente della maggioranza politica, cioè al Presidente della Giunta, del potere di promulgazione delle leggi, renderebbe necessario riconoscere il potere di ricorrere alla Corte ai soggetti portatori dell’interesse concreto al rispetto delle norme costituzionali.

In senso inverso, del resto, non potrebbe essere invocata la previsione del referendum confermativo, data la sua natura di strumento politico e non di riesame giuridico.

In definitiva, se non si riconoscesse al consigliere il potere di ricorrere avverso lo statuto, in via surrogatoria, suppletiva e successiva, l’interesse al rispetto della legalità costituzionale non sarebbe pienamente tutelato, ma rimesso ad una valutazione di mera opportunità politica del Governo.

Infine, il ricorrente chiede che la Corte, “ove occorra”, dichiari d’ufficio, ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 31 della stessa legge, come modificato dalla legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3), nella parte in cui non riconosce la legittimazione a ricorrere del consigliere regionale che non ha votato per l’approvazione dello statuto.

17. – Quanto alle specifiche censure, il ricorrente lamenta innanzitutto la violazione dell’art.123 della Costituzione e del procedimento ivi previsto, dal momento che la seconda deliberazione con cui è stato approvato lo statuto in data 29 luglio 2004, non sarebbe conforme a quella precedente del 2 aprile 2004, secondo motivazioni identiche a quelle esposte nell’atto di intervento relativo al ricorso del Governo e sintetizzate al precedente punto 7.

18. – Il ricorrente censura inoltre l’art. 66 della delibera statutaria nella parte in cui dispone che la carica di componente della Giunta è incompatibile con quella di consigliere regionale e che al consigliere nominato membro della Giunta subentra il primo dei candidati non eletti nella stessa lista, nonché nella parte in cui prevede che il subentrante dura in carica per il periodo in cui il consigliere mantiene la carica di assessore.

Innanzitutto la norma violerebbe l’art. 122, primo comma, della Costituzione in quanto introdurrebbe la figura del consigliere regionale supplente o subentrante non prevista dalla norma costituzionale, la quale affida alla legge statale il compito di stabilire i principî fondamentali circa le incompatibilità dei consiglieri regionali. Risulterebbero violati, inoltre, l’art. 67 della Costituzione, in quanto la previsione in esame contraddirebbe il divieto di mandato imperativo, nonché l’art. 3 Cost., dal momento che il consigliere “reggente” avrebbe uno status differenziato, con minori garanzie, rispetto al titolare. Egli, infatti, non godendo della inamovibilità, potrebbe essere sempre sostituito ove il supplito tornasse alla sua originaria funzione di consigliere. In tal modo, però, la revoca del consigliere supplente sarebbe operata non dal corpo elettorale e alla fine del mandato – come imporrebbe il principio sancito dall’art. 67 Cost. – ma dall’esecutivo regionale cioè dall’organo sottoposto al controllo politico del Consiglio, così che “il controllato potrebbe rimuovere a piacimento (…) il controllore”. Per di più, il mandato del consigliere supplente sarebbe interrotto, così “spezzando lo stesso rapporto di rappresentanza politica”.

19. – Da ultimo, il ricorrente censura l’art. 9 della delibera statutaria per violazione dell’articolo 29 della Costituzione, il quale non ammetterebbe “forme di tutela della famiglia se non è basata sul matrimonio, religioso o civile”, nonché degli artt. 30 e 31 della Costituzione. La previsione della tutela delle forme di convivenza non si limiterebbe a riconoscere una libertà, ma impegnerebbe la Regione ad agire attivamente a protezione della convivenza di fatto “con l’effetto di una parificazione alla famiglia di diritto”.

La norma inoltre “usurperebbe” le competenze statali, trattandosi di questione inerente alla materia dell’ordinamento civile, di esclusiva spettanza legislativa dello Stato, secondo quanto previsto dall’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.

20. – Si è costituita in giudizio la Regione Umbria, la quale ha chiesto che il ricorso proposto dal consigliere Ripa di Meana sia dichiarato inammissibile e infondato, riservandosi di illustrare in una successiva memoria le argomentazioni a sostegno delle proprie difese.

21. – Il ricorrente Carlo Ripa di Meana in prossimità dell’udienza ha depositato una memoria nella quale ha eccepito il difetto di legittimazione processuale del Presidente della Regione Umbria a costituirsi nel giudizio. La sua costituzione sarebbe avvenuta infatti sine titulo, in quanto non sarebbe stata preceduta da una delibera del Consiglio regionale, unico soggetto legittimato, a parere del ricorrente, a decidere se resistere o meno al ricorso.

Le ragioni di tale esclusiva legittimazione sarebbero individuabili nel fatto che il giudizio costituzionale ex articolo 123 della Costituzione, pur avendo le forme del giudizio in via principale, si discosterebbe da questo, in quanto avrebbe una valenza infraprocedimentale e preventiva: in tale fase la delibera statutaria sarebbe imputabile solo al Consiglio regionale e pertanto la valutazione circa la costituzione in giudizio del Presidente della Giunta non potrebbe sostituire quella del Consiglio.

22. – Anche la Regione Umbria ha depositato una memoria, nella quale sostiene in primo luogo la totale inammissibilità del ricorso proposto dal consigliere Ripa di Meana per difetto assoluto di legittimazione. L’art. 137 della Costituzione, infatti, porrebbe una riserva di legge costituzionale per la individuazione dei soggetti legittimati ad instaurare un giudizio di legittimità costituzionale, con la conseguenza che sarebbe esclusa ogni possibilità di impugnazione da parte di soggetti non espressamente contemplati. Lo Stato sarebbe l’unico legittimato a ricorrere in via diretta contro lo statuto e le leggi regionali, come risulterebbe confermato anche dalla giurisprudenza costituzionale che ha affermato la tassatività delle norme costituzionale in materia ed ha anche escluso nei giudizi in via principale l’intervento di soggetti terzi. D’altra parte, se lo statuto, come afferma il ricorrente, fosse nullo, qualunque giudice potrebbe disapplicarlo, senza bisogno di ricorrere alla Corte.

23. – Quanto alla difformità tra le due delibere lamentata dal ricorrente, essa sarebbe inesistente, trattandosi di diversità meramente formali. Mentre nessuna rilevanza assumerebbe l’intenzione dei redattori, le modifiche della rubrica dell’art. 9 avrebbe valore meramente esplicativo del contenuto della disposizione; la scomposizione della norma in due commi non avrebbe implicazioni sostanziali; l’aggiunta della parola “altresì” sarebbe semplice conseguenza della scomposizione e la soppressione delle parole “le varie”, riferito a “forme di convivenza”, non avrebbe valore sostanziale poiché l’espressione usata sarebbe comunque generica e non escluderebbe alcun tipo di convivenza. In subordine, osserva la difesa regionale, la difformità riguarderebbe comunque solo l’art. 9 e non l’intero statuto.

24 – Infondata sarebbe anche la censura secondo la quale l’art. 66 della delibera statutaria avrebbe introdotto una ipotesi di incompatibilità non prevista ai sensi dell’art. 122 della Costituzione. Infatti la legge 2 luglio 2004, n. 165 (Disposizioni di attuazione dell’art. 122, primo comma, della Costituzione), prevede espressamente la eventuale sussistenza di una causa di incompatibilità tra assessore e consigliere regionale. La difesa regionale inoltre ribadisce la diversità di tale ipotesi di incompatibilità rispetto alle altre, e sostiene che quella censurata atterrebbe alla disciplina della “forma di governo” pienamente rientrante nella competenza statutaria.

Quanto alla lamentata violazione dell’art. 67 della Costituzione, si nega che l’impugnato art. 66, comma 2, configuri una sorta di potere di revoca del consigliere subentrante a quello nominato assessore. Il consigliere subentrante sarebbe consigliere regionale a tutti gli effetti e senza limitazioni, seppure con la possibilità che il suo mandato venga a cessare in conseguenza del rientro dell’assessore: peraltro la cessazione dalla carica di componente della Giunta non potrebbe trasformarsi in una sorta di strumentale revoca da parte del Presidente della Giunta, al solo fine di estromettere il consigliere subentrato e divenuto sgradito, poiché verrebbe fatta valere la responsabilità politica del Presidente.

25. – Quanto, infine, alle censure mosse avverso l’art. 9 della delibera statutaria, la difesa regionale, dopo aver rilevato che lo stesso consigliere avrebbe presentato in commissione un emendamento volto ad inserire nella norma l’espressione “e promuove il riconoscimento delle diverse forme di convivenza”, osserva che la critica mossa dal ricorrente sarebbe ancor più radicale di quella del Governo. Si contesterebbe, infatti, la legittimità della tutela di qualsiasi forma di convivenza non fondata sul matrimonio, e dunque anche di quelle more uxorio, che oramai rilevano per l’ordinamento statale. Il ricorso inoltre si fonderebbe sull’equivoco di ritenere che la norma equipari la famiglia fondata sul matrimonio alle altre forme di convivenza, mentre così non sarebbe.

Infine, la difesa regionale ripropone le medesime argomentazioni svolte con riguardo a tale norma nella memoria depositata nel giudizio promosso dallo Stato (sintetizzate al precedente punto 10).

Considerato in diritto

1. – Il Governo ha sollevato questione di legittimità costituzionale, ai sensi dell’articolo 123, secondo comma, della Costituzione, degli artt. 9, comma 2; 39, comma 2; 40; 66, commi 1 e 2; 82 dello statuto della Regione Umbria, approvato dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile del 2004 ed in seconda deliberazione il 29 luglio 2004, in riferimento agli artt. 2; 5; 29; 117, secondo comma, lettera l); 117, terzo comma; 121; 122, primo comma; 123; 134, della Costituzione nonché al principio della separazione dei poteri.

L’art. 9, comma 2, viene impugnato nella parte in cui, avendo il primo comma dell’art. 9 riconosciuto i diritti della famiglia e previsto l’adozione di ogni misura idonea a favorire l’adempimento dei compiti che la Costituzione le affida, dispone che la Regione tutela forme di convivenza, in quanto consentirebbe l’adozione di “eventuali future previsioni normative regionali” concernenti i rapporti patrimoniali e personali tra i conviventi. Ciò in violazione dell’esclusivo potere statale riconosciuto dall’articolo 117, secondo comma, lettera l) della Costituzione, nella materia dell’ “ordinamento civile”.

Al tempo stesso, ove la norma intendesse affermare la rilevanza giuridica delle forme di convivenza estranee alla famiglia al di là di quanto disciplinato dalla legislazione statale, violerebbe gli articoli 29, 2 e 5 della Costituzione, nonché lo stesso articolo 123 della Costituzione, in quanto questa disciplina eccederebbe i contenuti ammissibili degli statuti regionali.

L’art. 39, comma 2, il quale prevede che la Giunta regionale possa, previa autorizzazione da parte di apposita legge regionale, adottare regolamenti di delegificazione, violerebbe l’articolo 121, secondo comma, della Costituzione ed il principio di separazione dei poteri tra organo legislativo ed organo esecutivo della regione, che non consentirebbero l’adozione di regolamenti di delegificazione; sarebbe violato, inoltre, l’art. 117 della Costituzione, in quanto la fonte regolamentare sarebbe incongruente rispetto alle materie legislative di tipo concorrente, nelle quali i principî fondamentali fissati dal legislatore statale dovrebbero essere attuati in via legislativa.

L’art. 40, invece, prevedendo che la Giunta regionale, previa legge regionale di autorizzazione, presenti al Consiglio regionale progetti di testo unico di disposizioni legislative, soggetti solo alla approvazione finale del Consiglio, violerebbe l’art. 121 Cost., nonché il principio di separazione dei poteri tra organo legislativo ed organo esecutivo della regione, che non consentirebbero deleghe legislative, né rinunce sostanziali all’esercizio del potere legislativo da parte del Consiglio regionale.

L’art. 66, commi 1 e 2, è censurato nella parte in cui stabilisce l’incompatibilità della carica di componente della Giunta con quella di consigliere regionale, per violazione dell’articolo 122, primo comma, della Costituzione, che riserva alla legge regionale l’individuazione dei casi di incompatibilità, nei limiti dei principî sanciti dalla legge statale.

L’art. 82, il quale attribuisce alla Commissione di garanzia la funzione di esprimere pareri sulla conformità allo statuto delle leggi e dei regolamenti regionali, violerebbe gli articoli 121 e 134 della Costituzione, in quanto, ove la disposizione impugnata dovesse intendersi nel senso che tale parere segua il compimento dell’attività normativa, conferirebbe ad un organo amministrativo il potere di sindacare le leggi ed i regolamenti adottati dai competenti organi regionali.

2. – Il consigliere regionale Carlo Ripa di Meana ha sollevato questione di legittimità costituzionale della delibera statutaria nella sua interezza, in quanto sarebbe stata violata la procedura determinata dall’articolo 123 della Costituzione per l’approvazione dello statuto. Lo stesso consigliere ha impugnato singolarmente gli articoli 9 e 66 della delibera statutaria, in riferimento agli artt. 3; 29; 30; 31; 67; 117, secondo comma, lettera l); 121; 122; 123 della Costituzione.

La richiesta di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’intera delibera statutaria o quanto meno del suo art. 9 è motivata in ragione delle modifiche che sarebbero state apportate a questo articolo prima della votazione finale, giustificate dagli organi del Consiglio regionale sulla base di esigenze di coordinamento formale, e che avrebbero invece introdotto innovazioni sostanziali, che avrebbero pesato sullo stesso voto finale; da ciò la violazione dell’articolo 123 della Costituzione che, ai fini dell’approvazione dello statuto regionale, richiede l’adozione di due delibere successive tra loro identiche.

Nel merito l’art. 9 violerebbe gli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione, in quanto impegnerebbe la Regione ad agire attivamente a protezione delle convivenze di fatto, in contrasto con la norma costituzionale che non ammette forme di tutela della famiglia se non è basata sul matrimonio, religioso o civile. Inoltre questa disposizione violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l) della Costituzione, in quanto “usurperebbe” le competenze statali in materia di ordinamento civile.

L’art. 66, primo comma, è censurato nella parte in cui prevede che la carica di componente della Giunta sia incompatibile con quella di consigliere regionale, in quanto violerebbe l’art. 122, primo comma della Costituzione, il quale affida alla legge statale il compito di stabilire i principî fondamentali in materia di incompatibilità dei consiglieri regionali.

L’art. 66, secondo comma, disponendo che al consigliere regionale nominato membro della Giunta subentra il primo dei candidati non eletti nella stessa lista e che il subentrante dura in carica per tutto il periodo in cui il consigliere mantiene la carica di assessore, violerebbe l’articolo 67 della Costituzione ed il principio del divieto di mandato imperativo, in quanto il consigliere supplente sarebbe soggetto a revoca ad opera del supplito e dunque dell’organo esecutivo regionale, e durante il corso della legislatura. Questa norma, prevedendo minori garanzie per il consigliere supplente rispetto a quello ordinario, violerebbe anche l’art. 3; sarebbero pure violati gli artt. 121, 122 e 123 della Costituzione in quanto la disposizione impugnata determinerebbe l’esistenza di categorie diverse di consiglieri regionali; inoltre si introdurrebbe un meccanismo attraverso il quale potrebbero entrare nel Consiglio diversi candidati non eletti dal corpo elettorale.

3. – In via preliminare va dichiarato inammissibile il ricorso avverso la delibera statutaria presentato dal consigliere regionale Carlo Ripa di Meana.

L’impugnativa in via principale per motivi di costituzionalità delle leggi e degli statuti regionali è determinato da fonti costituzionali, secondo quanto reso palese dagli articoli 123 e 127 della Costituzione, nonché dall’articolo 2 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie di indipendenza della Corte costituzionale), che individuano soltanto nel Governo e nelle Giunte regionali gli organi che possono ricorrere in via principale alla Corte costituzionale; ciò è confermato dal primo comma dell’articolo 137 della Costituzione, secondo il quale “una legge costituzionale stabilisce le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale (…)”. Né le caratteristiche del nuovo procedimento di approvazione dello statuto regionale – quale risulta in seguito alle modifiche introdotte dalla legge costituzionale n. 1 del 1999 – possono fondare alcun potere dei consiglieri regionali di impugnativa della delibera statutaria.

Ulteriore argomento in tal senso è individuabile nella circostanza secondo la quale nel periodo di applicazione dell’articolo 127 nella formulazione precedentemente vigente, con cui l’attuale articolo 123 della Costituzione condivide la caratteristica di un giudizio in via principale su un testo legislativo non ancora promulgato, era pacificamente esclusa la possibilità di partecipare al giudizio per soggetti diversi dalle parti esplicitamente individuate dalle disposizioni di rango costituzionale e dal titolare della potestà legislativa il cui esercizio fosse oggetto di contestazione

In base a tali argomentazioni non potrebbe che essere dichiarata manifestamente infondata (ove il ricorso fosse – come non è – ammissibile) la questione di legittimità costituzionale posta dal consigliere ricorrente in relazione all’articolo 31 della legge 11 marzo 1953, n. 87, quale modificato dall’articolo 9 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), nella parte in cui non riconosce la legittimazione a ricorrere del consigliere regionale che non abbia votato per l’approvazione dello statuto regionale, dal momento che questa norma non fa che esplicitare quanto già chiaramente previsto nel secondo comma dell’articolo 123 della Costituzione.

4. – Va altresì dichiarato inammissibile l’intervento del consigliere regionale Carlo Ripa di Meana nel giudizio in via principale relativo alla delibera statutaria della Regione Umbria promosso dal Governo.

Infatti, analogamente a quanto affermato per il giudizio sulle leggi in via principale – e cioè che devono ritenersi legittimati ad esser parti solo i soggetti titolari delle attribuzioni legislative in contestazione – anche nel giudizio sulla speciale legge regionale disciplinata dall’articolo 123 della Costituzione, gli unici soggetti che possono essere parti sono la Regione, in quanto titolare della potestà normativa in contestazione, e lo Stato, indicato dalla Costituzione come unico possibile ricorrente. Restano fermi, naturalmente, per i soggetti privi di tali potestà i mezzi di tutela delle loro posizioni soggettive dinanzi ad altre istanze giurisdizionali ed anche dinanzi a questa Corte nell’ambito del giudizio in via incidentale (cfr. ex plurimis sentenze n. 166 del 2004, n. 338, n. 315, n. 307 e n. 49 del 2003, nonché l’ordinanza allegata alla sentenza n. 196 del 2004).

5. – Venendo alle censure di illegittimità costituzionale sollevate nel ricorso governativo, in via preliminare occorre dichiarare la inammissibilità delle censure relative all’art. 9, comma 2.

Va ricordato che negli statuti regionali entrati in vigore nel 1971 – ivi compreso quello della Regione Umbria – si rinvengono assai spesso indicazioni di obiettivi prioritari dell’attività regionale ed anche in quel tempo si posero problemi di costituzionalità di tali indicazioni, sotto il profilo della competenza della fonte statutaria ad incidere su materie anche eccedenti la sfera di attribuzione regionale. Al riguardo, dopo aver riconosciuto la possibilità di distinguere tra un contenuto “necessario” ed un contenuto “eventuale” dello statuto (cfr. sentenza n. 40 del 1972), si è ritenuto che la formulazione di proposizioni statutarie del tipo predetto avesse principalmente la funzione di legittimare la Regione come ente esponenziale della collettività regionale e del complesso dei relativi interessi ed aspettative. Tali interessi possono essere adeguatamente perseguiti non soltanto attraverso l’esercizio della competenza legislativa ed amministrativa, ma anche avvalendosi dei vari poteri, conferiti alla Regione stessa dalla Costituzione e da leggi statali, di iniziativa, di partecipazione, di consultazione, di proposta, e così via, esercitabili, in via formale ed informale, al fine di ottenere il migliore soddisfacimento delle esigenze della collettività stessa. In questo senso si è espressa questa Corte, affermando che l’adempimento di una serie di compiti fondamentali «legittima, dunque, una presenza politica della regione, in rapporto allo Stato o anche ad altre regioni, riguardo a tutte le questioni di interesse della comunità regionale, anche se queste sorgono in settori estranei alle singole materie indicate nell’articolo 117 Cost. e si proiettano al di là dei confini territoriali della regione medesima» (sentenza n. 829 del 1988).

            Il ruolo delle Regioni di rappresentanza generale degli interessi delle rispettive collettività, riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale e dalla prevalente dottrina, è dunque rilevante, anche nel momento presente, ai fini «dell’esistenza, accanto ai contenuti necessari degli statuti regionali, di altri possibili contenuti, sia che risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti della Regione, sia che indichino aree di prioritario intervento politico o legislativo» (sentenza n. 2 del 2004); contenuti che talora si esprimono attraverso proclamazioni di finalità da perseguire. Ma la sentenza ha rilevato come sia opinabile la “misura dell’efficacia giuridica” di tali proclamazioni; tale dubbio va sciolto considerando che alle enunciazioni in esame, anche se materialmente inserite in un atto-fonte, non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica, collocandosi esse precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell’approvazione dello statuto.

            D’altra parte, tali proclamazioni di obiettivi e di impegni non possono certo essere assimilate alle c.d. norme programmatiche della Costituzione, alle quali, per il loro valore di principio, sono stati generalmente riconosciuti non solo un valore programmatico nei confronti delle futura disciplina legislativa, ma sopratutto una funzione di integrazione e di interpretazione delle norme vigenti. Qui però non siamo in presenza di Carte costituzionali, ma solo di fonti regionali “a competenza riservata e specializzata”, cioè di statuti di autonomia, i quali, anche se costituzionalmente garantiti, debbono comunque «essere in armonia con i precetti ed i principi tutti ricavabili dalla Costituzione» (sentenza n. 196 del 2003).

Dalle premesse appena formulate sul carattere non prescrittivo e non vincolante delle enunciazioni statutarie di questo tipo, deriva che esse esplicano una funzione, per così dire, di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa. Nel caso in esame, una enunciazione siffatta si rinviene proprio nell’art. 9, comma 2, della delibera statutaria impugnata, là dove si afferma che la Regione “tutela altresì forme di convivenza”; tale disposizione non comporta né alcuna violazione, né alcuna rivendicazione di competenze costituzionalmente attribuite allo Stato, né fonda esercizio di poteri regionali. Va così dichiarata inammissibile, per inidoneità lesiva della disposizione impugnata, la censura avverso la denunciata proposizione della deliberazione statutaria.

6. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all’art. 39, comma 2, sono infondate.

Le argomentazioni del ricorso, infatti, muovono da una errata lettura della disposizione, che non prevede affatto il “conferimento alla Giunta di una potestà legislativa”, come afferma l’Avvocatura, con la conseguente alterazione dei rapporti fra potere esecutivo e legislativo a livello regionale. La norma in oggetto, invece, si limita a riprodurre il modello vigente a livello statale dei cosiddetti regolamenti delegati, che è disciplinato dal comma 2 dell’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n.400 (Disciplina dell’attività di governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri). In questo modello di delegificazione, come ben noto largamente utilizzato a livello nazionale e ormai anche in varie Regioni pur in assenza di disposizioni statutarie in tal senso, è alla legge che autorizza l’adozione del regolamento che deve essere imputato l’effetto abrogativo, mentre il regolamento determina semplicemente il termine iniziale di questa abrogazione.

La stessa preoccupazione che l’adozione di regolamenti del genere possa alterare nelle materie di competenza concorrente il rapporto fra normativa statale di principio e legislazione regionale, dal momento che potrebbe invece risultare necessario che la normazione regionale sia adottata in tutto o in parte mediante legge, può essere fugata dal fatto che lo stesso art. 39, comma 2, che è stato impugnato, dispone che la legge di autorizzazione all’adozione del regolamento deve comunque contenere “le norme generali regolatrici della materia”, nonché la clausola abrogativa delle disposizioni vigenti. Sarà dunque in relazione a tale legge che potrà essere verificato il rispetto di riserve di legge regionale esistenti nei differenziati settori, con anche la possibilità, in caso di elusione di questo vincolo, di promuovere la relativa questione di legittimità costituzionale.

7. – Le censure di illegittimità costituzionale dell’art. 40 non sono fondate.

Anche in questo caso, infatti appare errata l’interpretazione della disposizione in oggetto come attributiva di “deleghe legislative” da parte del Consiglio alla Giunta regionale, poiché invece l’articolo in contestazione prevede soltanto che il Consiglio conferisca alla Giunta un semplice incarico di presentare allo stesso organo legislativo regionale, entro termini perentori, un “progetto di testo unico delle disposizioni di legge” già esistenti in “uno o più settori omogenei”, progetto che poi il Consiglio dovrà approvare con apposita votazione, seppure dopo un dibattito molto semplificato.

Ben può uno statuto regionale prevedere uno speciale procedimento legislativo diretto soltanto ad operare sulla legislazione regionale vigente, a meri fini “di riordino e di semplificazione”. La stessa previsione di cui al terzo comma dell’art. 40, relativa al fatto che eventuali proposte di revisione sostanziale delle leggi oggetto del procedimento per la formazione del testo unico, che siano presentate nel periodo previsto per l’espletamento dell’incarico dato alla Giunta, debbano necessariamente tradursi in apposita modifica della legge di autorizzazione alla redazione del testo unico, sta a confermare che ogni modifica sostanziale della legislazione da riunificare spetta alla legge regionale e che quindi la Giunta nella sua opera di predisposizione del testo unico non può andare oltre al mero riordino e alla semplificazione di quanto deliberato in sede legislativa dal Consiglio regionale.

8. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all’art. 66, commi 1 e 2, sono fondate.

L’art. 122 Cost. riserva espressamente alla legge regionale, “nei limiti dei principî fondamentali stabiliti con legge della Repubblica”, la determinazione delle norme relative al “sistema di elezione” e ai “casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali”, senza che si possa distinguere (come invece ipotizza la difesa regionale) fra ipotesi di incompatibilità “esterne” ed “interne” all’organizzazione istituzionale della Regione.

E’ vero che le scelte in tema di incompatibilità fra incarico di componente della Giunta regionale e di consigliere regionale possono essere originate da opzioni statutarie in tema di forma di governo della Regione, ma – come questa Corte ha già affermato in relazione ad altra delibera statutaria regionale nella sentenza n. 2 del 2004 – occorre  rilevare che il riconoscimento nell’articolo 123 della Costituzione del potere statutario in tema di forma di governo regionale è accompagnato dalla previsione dell’articolo 122 della Costituzione, e che quindi la disciplina dei particolari oggetti cui si riferisce l’articolo 122 sfugge alle determinazioni lasciate all’autonomia statutaria.

Né la formulazione del primo comma dell’art. 66 può essere interpretata come espressiva di un mero principio direttivo per il legislatore regionale, nell’ambito della sua discrezionalità legislativa in materia.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 66 si estende logicamente anche al secondo comma della medesima disposizione, che ne disciplina le conseguenze sul piano della composizione del Consiglio regionale.

Inoltre, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la dichiarazione di illegittimità costituzionale deve essere estesa anche al terzo comma dell’art. 66 della delibera statutaria, che prevede un ulteriore svolgimento di quanto disciplinato nel secondo comma, ben potendo la dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale applicarsi non soltanto ai giudizi in via principale (cfr. sentenze n. 4 del 2004, n. 20 del 2000, n. 441 del 1994 e n. 34 del 1961), ma anche al particolare giudizio di cui all’art. 123 Cost. (cfr. sentenza n. 2 del 2004).

9. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all’art. 82 non sono fondate.

La disciplina della Commissione di garanzia statutaria negli artt. 81 ed 82 della delibera statutaria configura solo nelle linee generali questo organo e le sue funzioni, essendo prevista nell’art. 81 una apposita legge regionale, da approvare a maggioranza assoluta, per definirne – tra l’altro – “le condizioni, le forme ed i termini per lo svolgimento delle sue funzioni”: sarà evidentemente questa legge a disciplinare analiticamente i poteri di questo organo nelle diverse fasi nelle quali potrà essere chiamato ad esprimere pareri giuridici.

In ogni caso, la disposizione impugnata fa espresso riferimento ad un potere consultivo della Commissione, da esplicarsi attraverso semplici pareri, che, se negativi sul piano della conformità statutaria, determinano come conseguenza il solo obbligo di riesame, senza che siano previste maggioranze qualificate ed anche senza vincolo in ordine ad alcuna modifica delle disposizioni normative interessate.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile il ricorso, iscritto al n. 90 del registro ricorsi del 2004, presentato dal consigliere regionale della Regione Umbria Carlo Ripa di Meana nei confronti della delibera statutaria della Regione Umbria approvata dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile del 2004 ed in seconda deliberazione il 29 luglio 2004;

2) dichiara inammissibile l’intervento spiegato dal consigliere regionale della Regione Umbria Carlo Ripa di Meana, nel giudizio iscritto al n. 88 del registro ricorsi del 2004, relativo alla predetta delibera statutaria della Regione Umbria;

3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 66, commi 1 e 2, della predetta delibera statutaria della Regione Umbria;

4) dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 66, comma 3, della predetta delibera statutaria della Regione Umbria;

 5) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, della predetta delibera statutaria della Regione Umbria, per violazione degli artt. 2, 5, 29, 117, secondo comma, lettera l), e 123 Cost., proposte con il ricorso n. 88 del 2004;

6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 39, comma 2, della predetta delibera statutaria della Regione Umbria, per violazione degli artt. 121 e 117 Cost., proposte con il ricorso n. 88 del 2004;

7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40 della predetta delibera statutaria della Regione Umbria, per violazione dell’art. 121 Cost. e del principio di separazione dei poteri, proposta con il ricorso n. 88 del 2004;

8) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 82 della predetta delibera statutaria della Regione Umbria, per violazione degli artt. 121 e 134 Cost., proposte con il ricorso n. 88 del 2004.

            Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 novembre 2004.
 

Corte Costituzionale: sentenza Emilia-Romagna

                                                                                                            SENTENZA N.379

  ANNO 2004

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2, comma 1, lettera f); 13, comma 1, lettera a); 15, comma 1; 17; 19; 24, comma 4; 26, comma 3; 28, comma 2; 45 comma 2; 49, comma 2; 62, comma 3, dello statuto della Regione Emilia-Romagna, approvato in prima deliberazione il 1° luglio 2004 ed in seconda deliberazione il 14 settembre 2004, e pubblicato nel B.U.R. n. 130 del 16 settembre 2004, promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 15 ottobre 2004, depositato in cancelleria il 21 successivo ed iscritto al n. 99 del registro ricorsi 2004.

            Visto l’atto di costituzione della Regione Emilia-Romagna;

            udito nell’udienza pubblica del 16 novembre 2004 il Giudice relatore Ugo De Siervo;

            uditi l’avvocato dello Stato Giorgio D’Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Regione Emilia-Romagna.

Ritenuto in fatto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 15 ottobre 2004, depositato il 21 ottobre 2004 e iscritto al n. 99 nel registro ricorsi del 2004, ha impugnato gli articoli 2, comma 1, lettera f); 15, comma 1; 13, comma 1, lettera a); 17; 19; 24, comma 4; 26, comma 3; 28, comma 2; 45, comma 2; 49, comma 2; 62, comma 3, della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima deliberazione il giorno 1° luglio 2004, ed in seconda deliberazione il giorno 14 settembre 2004, per violazione degli articoli 1; 3; 48; 49; 97; 114; 123; 117, secondo comma, lettere a), f), l), p); 117, terzo comma; 117, quinto comma, anche in relazione all’art. 6, comma 1, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3); 118, primo e secondo comma; 121, secondo comma; 122, primo comma; 123; 126; 138 della Costituzione.

2. – Il Governo impugna, innanzi tutto, l’art. 2, comma 1, lettera f), e l’art. 15, comma 1, della delibera statutaria. La prima di queste disposizioni prevede che la Regione assicuri, “nell’ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, il diritto di voto degli immigrati residenti”. La seconda, invece, prevede che la Regione, “nell’ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, riconosce e garantisce a tutti coloro che risiedono in un comune del territorio regionale i diritti di partecipazione contemplati nel presente Titolo, ivi compreso il diritto di voto nei referendum e nelle altre forme di consultazione popolare”.

Secondo il ricorrente tali disposizioni contrasterebbero, innanzi tutto, con l’art. 48 della Costituzione, ai sensi del quale lo status di elettore andrebbe riconosciuto solo ed esclusivamente ai cittadini. A questo riguardo l’Avvocatura dello Stato aggiunge che solo la legge statale potrebbe validamente riconoscere il diritto di voto. In secondo luogo, ad essere violato risulterebbe anche l’art. 1 Cost., dal momento che tale norma, individuando nel popolo il soggetto detentore della sovranità, farebbe implicito riferimento al concetto di cittadinanza, requisito necessario per esercitare quei diritti nei quali si sostanzia l’esercizio della sovranità. Ancora, le disposizioni impugnate violerebbero anche l’art. 117, secondo comma, lettere f) e p), della Costituzione, che attribuiscono allo Stato la competenza esclusiva in relazione alle materie degli organi dello Stato e delle relative leggi elettorali, nonché in materia di legislazione elettorale di Comuni, Province e Città metropolitane.

A risultare violato, inoltre, sarebbe anche l’art. 122, primo comma della Costituzione, ove si ritenesse che nel “sistema di elezione” degli organi rappresentativi regionali sia ricompresa anche le definizione del relativo corpo elettorale. Infine, nel ricorso si afferma che la disposizione della delibera statutaria impugnata contrasterebbe con l’art. 121, secondo comma della Costituzione, in quanto vincolerebbe il Consiglio regionale a fare proposte di legge alle Camere nelle materie diverse da quelle affidate alla competenza delle Regioni, mentre l’esercizio di detto potere non potrebbe essere in alcun modo vincolato dallo statuto.

3. – Viene impugnato anche l’art. 13, comma 1, lettera a), della delibera statutaria, che prevede che la Regione, nell’ambito delle materie di propria competenza, provveda direttamente all’esecuzione degli accordi internazionali stipulati dallo Stato, nel “rispetto delle norme di procedura previste dalla legge”. Ciò determinerebbe la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di politica estera e rapporti internazionali dello Stato stesso, in quanto la disposizione censurata, per l’esercizio della prevista facoltà, non porrebbe “la condizione che gli accordi siano stati previamente ratificati e siano entrati internazionalmente in vigore”. Inoltre, la generica previsione che la Regione debba uniformarsi alle “norme di procedura previste dalla legge” la renderebbe contrastante con l’art. 117, quinto comma, Cost., in quanto avrebbe dovuto essere precisato che questa legge dovesse essere statale.

4. – Sono anche censurati gli artt. 17 e 19 della delibera statutaria.

La prima di queste disposizioni prevede la possibilità di una istruttoria in forma di contraddittorio pubblico, indetta dalla Assemblea legislativa, alla quale possono prendere parte anche “associazioni, comitati e gruppi di cittadini portatori di un interesse a carattere non individuale”, per la formazione di atti normativi o amministrativi di carattere generale, i quali dovranno inoltre essere motivati con riferimento alle risultanze istruttorie.

Tale previsione, ad avviso del ricorrente, contrasterebbe innanzi tutto con l’art. 97 Cost., poiché comporterebbe aggravi procedurali non coerenti con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione. In secondo luogo, l’obbligo di motivazione violerebbe “i principî in tema di attività normativa e principalmente quello dell’irrilevanza della motivazione della norma”.

La seconda delle due disposizioni considerate prevede un “diritto di partecipazione” al procedimento legislativo per “tutte le associazioni” che ne facciano richiesta. Ciò determinerebbe, secondo l’Avvocatura generale, la violazione dell’art. 121 della Costituzione e contrasterebbe anche con altre disposizioni della medesima delibera statutaria, secondo le quali il Consiglio regionale è organo della “rappresentanza democratica” regionale nel quale si sviluppa “il libero confronto democratico tra maggioranza e opposizioni”, poiché la norma in oggetto produrrebbe una “alterazione” del “sistema di democrazia rappresentativa” e del ruolo dei partiti politici che operano legittimamente nelle assemblee legislative.

5. – Viene impugnato anche l’art. 24, comma 4, della delibera statutaria, il quale prevede che “la Regione, nell’ambito delle proprie competenze, disciplina le modalità di conferimento agli enti locali di quanto previsto dall’art. 118 della Costituzione, definendo finalità e durata dell’affidamento”: tale disposizione, anzitutto, contrasterebbe con l’art. 114 della Costituzione, in quanto menomerebbe l’autonomia degli enti locali. Inoltre, violerebbe l’art. 118 della Costituzione, in quanto quest’ultimo impedirebbe di “affidare temporaneamente” le funzioni amministrative, in particolar modo ad enti – quali i comuni, le province e le città metropolitane – che di esse sono qualificati come “titolari”.

6. – Nel ricorso viene inoltre contestata la legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 3, della delibera statutaria, il quale dispone che l’Assemblea legislativa individui, “in conformità con la disciplina stabilita dalla legge dello Stato”, le funzioni della Città metropolitana dell’area di Bologna: ciò, secondo l’Avvocatura dello Stato, contrasterebbe con quanto previsto dall’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, “che riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la materia delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”.

7. – Anche l’art. 28, comma 2, della delibera statutaria – il quale prevede che “l’Assemblea (…) discute e approva il programma di governo predisposto dal Presidente della Regione (…)” – è oggetto di impugnazione. La legittimità costituzionale di tale disposizione è contestata in quanto quest’ultima, pur non contenendo alcuna indicazione circa le conseguenze della mancata approvazione del programma, menomerebbe “di per sé la legittimazione ed il ruolo del Presidente”. Ciò non risulterebbe «coerente con l’elezione diretta del Presidente (…), in quanto la prevista approvazione consiliare del programma di governo instauri irragionevolmente e contraddittoriamente tra Presidente e Consiglio regionale un rapporto diverso rispetto a quello che consegue all’elezione a suffragio universale e diretto del vertice dell’esecutivo (…), in relazione alla quale non sussiste il tradizionale rapporto fiduciario con il consiglio rappresentativo dell’intero corpo elettorale».

Da ciò l’affermata violazione del canone della “armonia con la Costituzione”.

8. – Sarebbe costituzionalmente illegittimo, inoltre, l’art. 45, comma 2, della delibera statutaria, il quale prevede l’incompatibilità della carica di assessore con quella di consigliere regionale. Tale disposizione violerebbe l’art. 122, primo comma, della Costituzione, che dispone che i casi di incompatibilità dei componenti della Giunta nonché dei consiglieri regionali devono essere disciplinati dalla legge regionale nei limiti dei principî fondamentali stabiliti con legge della Repubblica.

9. – Viene impugnato anche l’art. 49, comma 2, della delibera statutaria, il quale prevede che la Giunta disciplini l’esecuzione dei regolamenti comunitari “nei limiti stabiliti dalla legge regionale”. Tale norma, «omettendo di riferirsi al necessario rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, la quale deve disciplinare anche le modalità di esercizio del potere sostitutivo», violerebbe l’art. 117, quinto comma, della Costituzione.

10. – Da ultimo, secondo il ricorrente, sarebbe costituzionalmente illegittimo anche l’art. 63, comma 3, della delibera statutaria, il quale prevede una disciplina regionale del rapporto di lavoro del personale regionale, in conformità ai principî costituzionali e secondo quanto stabilito dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Ciò violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in quanto porrebbe «una disciplina sostanziale del rapporto di lavoro e dei suoi aspetti fondamentali: temi, questi, da ritenersi affidati alla competenza esclusiva statale in quanto rientranti nella materia ‘ordinamento civile’».

11. – La Regione Emilia-Romagna, costituitasi in giudizio con atto depositato il 25 ottobre 2004, nel quale si limita a richiedere che la Corte costituzionale respinga il ricorso in quanto inammissibile e comunque infondato, in prossimità dell’udienza, ha depositato una memoria in cui, ribadendo che tutte le censure mosse avverso la propria delibera statutaria sarebbero prive di fondamento, svolge le proprie argomentazioni al riguardo.

Le questioni concernenti gli articoli 2 e 15 – che, secondo il ricorso del Governo prevederebbero il riconoscimento del diritto di voto agli stranieri – sarebbero infondate, in quanto non terrebbero conto della limitazione generale posta dalle stesse norme impugnate attraverso l’espressione “nell’ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute”.

Quanto in particolare all’art. 15 della deliberazione statutaria, la difesa regionale osserva che sarebbe già possibile e legittima una sua parziale attuazione legislativa, poiché la Regione avrebbe già la facoltà di disciplinare il referendum consultivo su provvedimenti regionali, e con riguardo a questi sarebbero ipotizzabili modalità di voto tali da distinguere il voto dei cittadini elettori da “quello delle altre classi di popolazione consultate”. Sarebbe inoltre pacifico che lo statuto regionale non conferirebbe né consentirebbe il conferimento agli immigrati della qualifica di “elettore”, ma solo di “prendere parte a procedure per le quali, appunto, tale qualifica generale non sia costituzionalmente necessaria”.

Infondate sarebbero le censure concernenti la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere f) e p), della Costituzione, dal momento che le norme statutarie impugnate non si applicherebbero ad alcun organo statale, né si riferirebbero alle procedure elettorali di Comuni, province e città metropolitane. Inesistente sarebbe inoltre l’asserito contrasto con l’art. 122, primo comma, della Costituzione, poiché tale censura potrebbe riferirsi solo all’art. 2 dello statuto, che però avrebbe carattere di norma programmatica in quanto fisserebbe semplicemente un obiettivo e non autorizzerebbe affatto una attuazione illegittima.

12. – Con riferimento alle censure relative all’art. 13, comma 1, lettera a), della delibera statutaria, la difesa regionale osserva come la disposizione, nel fare riferimento agli accordi “stipulati”, abbia inteso riferirsi a quelli “conclusi ed efficaci”. Tale significato sarebbe confermato dal richiamo, contenuto nello stesso articolo, alle norme di procedura previste dalla legge, nel cui rispetto dovrebbe avvenire l’esecuzione degli accordi. Questa legge sarebbe sicuramente quella statale, e non già quella regionale, come sostenuto nel ricorso del Governo, dal momento che ove la delibera statutaria avesse voluto riferirsi alla legge regionale lo avrebbe detto espressamente.

13. – Quanto alle censure aventi ad oggetto gli artt. 17 e 19 della delibera statutaria, la Regione sostiene che l’istruttoria pubblica per la formazione degli atti normativi o amministrativi di carattere generale, nonché l’obbligo di motivazione costituirebbero non già violazioni, ma modalità di attuazione dell’art. 97 Cost., per di più già sperimentati a livello regionale. Istituti del genere sarebbero ben noti sia alla tradizione di altri Paesi che al sistema italiano, ove è contemplato l’istituto dell’inchiesta pubblica; né sarebbe da trascurare quanto già previsto da alcune leggi regionali.

Anche la previsione del dovere di motivazione, come dovere di tener conto degli esiti dell’istruttoria pubblica, non sarebbe affatto irragionevole; ciò sarebbe confermato anche da analoga previsione generalizzata nei trattati europei.

Infondata sarebbe, ancora, l’asserita violazione di alcune disposizioni della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi). L’art. 3 di tale legge, infatti, non vieterebbe la motivazione per gli atti normativi e amministrativi generali, ma si limiterebbe a non renderla obbligatoria. L’art. 13, d’altra parte, non proibirebbe forme di partecipazione o di programmazione in relazione agli atti normativi e amministrativi generali. E ciò a prescindere dal fatto che comunque tale legge non sarebbe idonea a fungere da parametro di legittimità costituzionale dello statuto regionale.

Analoghe considerazioni varrebbero con riferimento alle censure relative all’art. 19 della delibera statutaria, il quale porrebbe regole obiettive per assicurare “un confronto con i portatori dei diversi interessi sociali”.

14. – La censura rivolta contro l’art. 24, comma 4, della delibera statutaria, nella parte in cui prevede il conferimento di funzioni agli enti locali, predeterminandone la durata, si baserebbe su un fraintendimento: infatti non si disporrebbe che la Regione debba conferire le funzioni con durata limitata, ma semplicemente si manterrebbe “alla legge regionale la possibilità di farlo, quando l’oggetto e le circostanze lo richiedano”, conformemente ai principî affermati dall’art. 118 della Costituzione.

15. – Quanto all’art. 26, comma 3, della delibera statutaria, impugnato in relazione all’art 117, secondo comma, lettera p), Cost., sarebbe “palese” l’inesistenza di alcuna invasione delle competenze statali, dal momento che la norma statutaria prevederebbe espressamente che tanto la delimitazione dell’area metropolitana di Bologna, quanto la individuazione delle funzioni della Città metropolitana debbano avvenire in conformità con la disciplina stabilita dalla legge dello Stato. Dunque, “la Regione individuerà le funzioni degli enti locali per quanto di sua competenza”.

16. – Le censure rivolte nei confronti dell’art. 28, comma 2, della delibera impugnata, che dispone che l’Assemblea discute e approva il programma di governo predisposto dal Presidente della Regione, atterrebbero al merito delle scelte statutarie in relazione alla forma di governo e non indicherebbero quale specifica norma costituzionale sarebbe stata violata.

In ogni caso l’art. 28 individuerebbe il punto di equilibrio, nel rispetto dell’art. 126 della Costituzione, tra due organi, il Presidente della Giunta e il Consiglio, entrambi di investitura popolare. L’omessa previsione delle conseguenze istituzionali della mancata approvazione del programma di governo, sarebbe giustificata dal fatto che esse sarebbero del tutto assenti. La difesa regionale osserva, inoltre, che disposizioni analoghe sarebbero contenute nel testo unico degli enti locali, nonché in alcuni statuti comunali.

17. – Con riferimento ai motivi di impugnazione dell’art. 45, comma 2, che stabilisce l’incompatibilità della carica di assessore con quella di consigliere regionale, la Regione ne afferma l’infondatezza, dal momento che la disposizione non atterrebbe alla materia elettorale, ma alla definizione della forma di governo regionale, specificamente affidata alle determinazioni statutarie. Diversa sarebbe la ratio delle incompatibilità “esterne” – quale, ad esempio, quella tra appartenenza al Consiglio o alla Giunta regionale e appartenenza al Parlamento – che avrebbero la funzione di garantire l’effettività e l’imparzialità dello svolgimento della funzione, e quella delle incompatibilità “interne” – quale appunto quella prevista dalla norma censurata – le quali atterrebbero al modo di conformare i rapporti tra gli organi fondamentali della Regione. La scelta su tale conformazione sarebbe riservata alla Regione e lo statuto costituirebbe la fonte più adatta a compierla.

18. – L’impugnazione dell’art. 49, comma 2, secondo la Regione Emilia-Romagna, sarebbe il frutto di una errata interpretazione: la disposizione, infatti, non riguarderebbe i rapporti tra fonti regionali e le leggi statali, bensì i rapporti tra legge e regolamento regionale, al fine di dare attuazione ai regolamenti comunitari, consentendo alla legge regionale di affidare alla potestà regolamentare la disciplina attuativa eventualmente necessaria.

19. – Infine, infondati sarebbero anche i motivi di impugnazione riferiti all’art. 62, comma 3, dal momento che tale disposizione non abiliterebbe la legge regionale ad interferire sul “rapporto di lavoro nei suoi aspetti di rapporto di diritto civile”. Lo statuto lascerebbe infatti impregiudicato il problema dei limiti entro cui la legge regionale possa intervenire a disciplinare il rapporto di lavoro.

20. – Anche l’Avvocatura dello Stato, in prossimità dell’udienza ha presentato un’ampia memoria, nella quale si limita a ribadire analiticamente i rilievi di costituzionalità sollevati nel ricorso introduttivo.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli articoli 2, comma 1, lettera f); 15, comma 1; 13, comma 1, lettera a); 17; 19; 24, comma 4; 26, comma 3; 28, comma 2; 45, comma 2; 49, comma 2; 62, comma 3, della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima deliberazione il giorno 1° luglio 2004, ed in seconda deliberazione il giorno 14 settembre 2004, per violazione degli articoli 1; 3; 48; 49; 97; 114; 123; 117, secondo comma, lettere a), f), l), p); 117, terzo comma; 117, quinto comma, anche in relazione all’art. 6, comma 1, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3); 118, primo e secondo comma; 121, secondo comma; 122, primo comma; 123; 126; 138 della Costituzione.

In particolare l’art. 2, comma 1, lettera f), e l’art. 15, comma 1, della delibera statutaria, nella parte in cui prevedono, rispettivamente, che la Regione assicuri, “nell’ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, il diritto di voto degli immigrati residenti”, e che la Regione, “nell’ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, riconosce e garantisce a tutti coloro che risiedono in un comune del territorio regionale i diritti di partecipazione contemplati nel presente Titolo, ivi compreso il diritto di voto nei referendum e nelle altre forme di consultazione popolare”, violerebbero: a) l’art. 48 della Costituzione, in quanto lo status di elettore andrebbe riconosciuto solo ed esclusivamente ai cittadini; b) l’art. 1 della Costituzione, dal momento che tale norma farebbe implicito riferimento al concetto di cittadinanza, requisito necessario per esercitare quei diritti nei quali si sostanzia l’esercizio della sovranità; c) l’art. 117, secondo comma, lettere f) e p), della Costituzione, in quanto contrasterebbero con l’attribuzione al legislatore statale della competenza esclusiva in relazione agli organi dello Stato e alle relative leggi elettorali, nonché in materia di legislazione elettorale di Comuni, Province e Città metropolitane; d) l’art. 122, primo comma, della Costituzione, ove si ritenesse che nel “sistema di elezione” degli organi rappresentativi regionali sia ricompresa anche la definizione del relativo corpo elettorale; e) l’art. 121, secondo comma, della Costituzione, in quanto vincolerebbe il Consiglio regionale nella sua possibilità di fare proposte di legge alle Camere, mentre l’esercizio di detto potere non potrebbe essere in alcun modo vincolato dallo statuto.

L’art. 13, comma 1, lettera a), della delibera statutaria, che prevede che la Regione, nell’ambito delle materie di propria competenza, provvede direttamente all’esecuzione degli accordi internazionali stipulati dallo Stato, nel “rispetto delle norme di procedura previste dalla legge”, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione, in quanto “per l’esercizio della prevista facoltà non pone la condizione che gli accordi siano stati previamente ratificati e siano entrati internazionalmente in vigore”; contrasterebbe inoltre con l’art. 117, quinto comma, della Costituzione, in quanto non specificherebbe che la legge contenente le norme procedurali alle quali la Regione deve uniformarsi deve essere una legge statale.

L’art. 17 della delibera statutaria, che prevede la possibilità di una istruttoria in forma di contraddittorio pubblico, indetta dalla Assemblea legislativa, alla quale possono prendere parte anche “associazioni, comitati e gruppi di cittadini portatori di un interesse a carattere non individuale”, per la formazione di atti normativi o amministrativi di carattere generale, i quali dovranno poi essere motivati con riferimento alle risultanze istruttorie, violerebbe l’art. 97 della Costituzione, nella misura in cui comporterebbe aggravi procedurali non coerenti con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione.

L’art. 19 della delibera statutaria, che prevede un “diritto di partecipazione” al procedimento legislativo in capo a “tutte le associazioni” che ne facciano richiesta, violerebbe: l’art. 121 della Costituzione, e il principio di autonomia del Consiglio regionale ivi sancito; il “principio di coerenza” di cui all’art. 3 della Costituzione, in quanto non sarebbe conforme al sistema di democrazia rappresentativa realizzato dalle altre disposizioni della medesima delibera statutaria; l’art. 1, secondo comma e l’art. 49 Cost., “il quale ultimo presuppone che i fattori di politica generale (…) costituiti dai partiti siano sottesi nel funzionamento delle assemblee legislative”.

L’art. 24, comma 4, della delibera statutaria, il quale prevede che “la Regione, nell’ambito delle proprie competenze, disciplina le modalità di conferimento agli enti locali di quanto previsto dall’art. 118 della Costituzione, definendo finalità e durata dell’affidamento”, violerebbe l’art. 114 della Costituzione, in quanto menomerebbe l’autonomia degli enti locali e l’art. 118 della Costituzione. Quest’ultima disposizione impedirebbe infatti di “affidare temporaneamente” dette funzioni, in particolar modo ad enti, quali i Comuni, le Province e le Città metropolitane, che di esse sono qualificati come “titolari”.

L’art. 26, comma 3, della delibera statutaria, il quale dispone che l’Assemblea legislativa individua, “in conformità con la disciplina stabilita dalla legge dello Stato”, le funzioni della Città metropolitana dell’area di Bologna, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, “che riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la materia delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”.

L’art. 28, comma 2, della delibera statutaria, il quale prevede che “l’Assemblea (…) discute e approva il programma di governo predisposto dal Presidente della Regione (…)”, violerebbe il canone di “armonia con la Costituzione”, in quanto la prevista approvazione consiliare del programma di governo instaurerebbe “irragionevolmente e contraddittoriamente tra Presidente e Consiglio regionale un rapporto diverso rispetto a quello che consegue all’elezione a suffragio universale e diretto del vertice dell’esecutivo (…), in relazione alla quale non sussiste il tradizionale rapporto fiduciario con il consiglio rappresentativo dell’intero corpo elettorale”.

L’art. 45, comma 2, della delibera statutaria, nella parte in cui stabilisce l’incompatibilità della carica di assessore con quella di consigliere regionale, violerebbe l’art. 122, primo comma, della Costituzione, in quanto tale norma dispone che i casi di incompatibilità dei componenti della Giunta nonché dei consiglieri regionali devono essere disciplinati dalla legge regionale nei limiti dei principî fondamentali stabiliti con legge della Repubblica.

L’art. 49, comma 2, della delibera statutaria, il quale prevede che la Giunta disciplini l’esecuzione dei regolamenti comunitari “nei limiti stabiliti dalla legge regionale”, violerebbe l’art. 117, quinto comma, della Costituzione, poiché ometterebbe “di riferirsi al necessario rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato”.

L’art. 62, comma 3, della delibera statutaria, che prevede una disciplina regionale del rapporto di lavoro del personale regionale, in conformità ai principi costituzionali e secondo quanto stabilito dalla legge e dalla contrattazione collettiva, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in quanto porrebbe «una disciplina sostanziale del rapporto di lavoro e dei suoi aspetti fondamentali: temi, questi, da ritenersi affidati alla competenza esclusiva statale in quanto rientranti nella materia “ordinamento civile».

2. – Occorre dichiarare la inammissibilità delle censure relative all’art. 2, comma 1, lettera f), della delibera statutaria impugnata, nella parte in cui la Regione si pone l’obiettivo di assicurare “nell’ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, il diritto di voto degli immigrati residenti”.

Va ricordato che negli statuti regionali entrati in vigore nel 1971 – ivi compreso quello della Regione Emilia-Romagna – si rinvengono assai spesso indicazioni di obiettivi prioritari dell’attività regionale ed anche in quel tempo si posero problemi di costituzionalità di tali indicazioni, sotto il profilo della competenza della fonte statutaria ad incidere su materie anche eccedenti la sfera di attribuzione regionale. Al riguardo, dopo aver riconosciuto la possibilità di distinguere tra un contenuto “necessario” ed un contenuto “eventuale” dello statuto (cfr. sentenza n. 40 del 1972), si è ritenuto che la formulazione di proposizioni statutarie del tipo predetto avesse principalmente la funzione di legittimare la Regione come ente esponenziale della collettività regionale e del complesso dei relativi interessi ed aspettative. Tali interessi possono essere adeguatamente perseguiti non soltanto attraverso l’esercizio della competenza legislativa ed amministrativa, ma anche avvalendosi dei vari poteri, conferiti alla Regione stessa dalla Costituzione e da leggi statali, di iniziativa, di partecipazione, di consultazione, di proposta, e così via, esercitabili, in via formale ed informale, al fine di ottenere il migliore soddisfacimento delle esigenze della collettività stessa. In questo senso si è espressa questa Corte, affermando che l’adempimento di una serie di compiti fondamentali “legittima, dunque, una presenza politica della regione, in rapporto allo Stato o anche ad altre regioni, riguardo a tutte le questioni di interesse della comunità regionale, anche se queste sorgono in settori estranei alle singole materie indicate nell’articolo 117 Cost. e si proiettano al di là dei confini territoriali della regione medesima” (sentenza n. 829 del 1988).

            Il ruolo delle Regioni di rappresentanza generale degli interessi delle rispettive collettività, riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale e dalla prevalente dottrina, è dunque rilevante nel momento presente, ai fini «dell’esistenza, accanto ai contenuti necessari degli statuti regionali, di altri possibili contenuti, sia che risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti della Regione, sia che indichino aree di prioritario intervento politico o legislativo» (sentenza n. 2 del 2004); contenuti che talora si esprimono attraverso proclamazioni di finalità da perseguire.

Ma la citata sentenza ha rilevato come sia opinabile la “misura dell’efficacia giuridica” di tali proclamazioni; tale dubbio va sciolto considerando che alle enunciazioni in esame, anche se materialmente inserite in un atto-fonte, non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica, collocandosi esse precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell’approvazione dello statuto.

            D’altra parte, tali proclamazioni di obiettivi e di impegni non possono certo essere assimilate alle c.d. norme programmatiche della Costituzione, alle quali, per il loro valore di principio, sono stati generalmente riconosciuti non solo un valore programmatico nei confronti della futura disciplina legislativa, ma sopratutto una funzione di integrazione e di interpretazione delle norme vigenti. Qui però non siamo in presenza di Carte costituzionali, ma solo di fonti regionali “a competenza riservata e specializzata”, cioè di statuti di autonomia, i quali, anche se costituzionalmente garantiti, debbono comunque «essere in armonia con i precetti ed i principî tutti ricavabili dalla Costituzione» (sentenza n. 196 del 2003).

Dalle premesse appena formulate sul carattere non prescrittivo e non vincolante delle enunciazioni statutarie di questo tipo deriva che esse esplicano una funzione, per così dire, di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa. Nel caso in esame, una enunciazione siffatta si rinviene proprio nell’art. 2, comma 1, lettera f), della delibera statutaria impugnata, nella parte in cui la Regione si pone l’obiettivo di assicurare “nell’ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, il diritto di voto degli immigrati residenti”; tale disposizione non comporta né alcuna violazione, né alcuna rivendicazione di competenze costituzionalmente attribuite allo Stato, né fonda esercizio di poteri regionali. Va così dichiarata inammissibile, per inidoneità lesiva della disposizione impugnata, la censura avverso la denunciata proposizione della deliberazione statutaria.

3. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all’art. 13, comma 1, lettera a), non sono fondate.

La disposizione impugnata, pur molto sintetica, appare agevolmente interpretabile in modo conforme al sistema costituzionale: il riferimento all’attuazione degli accordi internazionali “stipulati” dallo Stato e non anche “ratificati” non potrebbe certo legittimare un’esecuzione da parte regionale prima della ratifica che fosse necessaria ai sensi dell’articolo 80 della Costituzione, anche perché in tal caso l’accordo internazionale è certamente privo di efficacia per l’ordinamento italiano.

D’altra parte, una formula come quella utilizzata appunto nell’art. 13, comma 1, lettera a), della delibera statutaria può riferirsi anche all’ attuazione di accordi internazionali stipulati in forma semplificata e che intervengano in materia regionale, restando ovviamente fermi i poteri statali di cui all’articolo 120, secondo comma, della Costituzione.

Al tempo stesso, l’affermato “rispetto delle norme di procedura previste dalla legge”, non può che essere interpretato, sia in base al tenore letterale, sia in base ad una lettura conforme al dettato costituzionale, che come riferito alle “norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato” di cui all’art. 117, quinto comma, della Costituzione; e ciò prima ancora della considerazione delle argomentazioni formali portate dalla difesa regionale, secondo la quale la menzione di una legge nel testo statutario impugnato si riferirebbe alla legge dello Stato.

4. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all’art. 15, comma 1, non sono fondate.

A differenza dell’art. 2, comma 1, lettera f), di cui al precedente punto 2, l’art. 15, comma 1, si configura come una norma relativa ad un ambito di sicura competenza regionale (“diritti di partecipazione”), che la Regione potrà esercitare “nell’ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute”.

Quest’ultima espressione della disposizione impugnata manifesta con chiarezza l’insussistenza di una attuale pretesa della Regione di intervenire nella materia delle elezioni statali, regionali e locali, riconoscendo il diritto di voto a soggetti estranei a quelli definiti dalla legislazione statale, od inserendo soggetti di questo tipo in procedure che incidono sulla composizione delle assemblee rappresentative o sui loro atti. Al tempo stesso, invece, resta nell’area delle possibili determinazioni delle Regioni la scelta di coinvolgere in altre forme di consultazione o di partecipazione soggetti che comunque prendano parte consapevolmente e con almeno relativa stabilità alla vita associata, anche a prescindere dalla titolarità del diritto di voto o anche dalla cittadinanza italiana.

Appare significativo, ad esempio, che nella medesima deliberazione statutaria sia individuabile un’esplicita disposizione in tal senso nell’art. 21, comma 1, lettera a) (non impugnato dal Governo), poiché si attribuisce il diritto di proposta relativo a referendum consultivi anzitutto a “ottantamila residenti nei Comuni della nostra Regione”. E ciò analogamente a quanto già previsto a livello degli enti locali per ciò che riguarda le “circoscrizioni di decentramento comunale” (cfr. art. 17 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).

Questa materia dovrà comunque trovare regolamentazione in leggi regionali, soggette anche al sindacato di  questa Corte.

5. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all’art. 17 sono infondate.

La previsione che “nei procedimenti riguardanti la formazione di atti normativi o amministrativi di carattere generale, l’adozione del provvedimento finale può essere preceduta da istruttoria pubblica” rappresenta l’inserimento anche a livello statutario di istituti già sperimentati e funzionanti, anche in alcune delle maggiori democrazie contemporanee. Infondati sono quindi i rilievi sollevati nel ricorso governativo, che muovono da una pretesa violazione dei canoni di buona amministrazione per gli atti di natura amministrativa, o della riserva del potere legislativo al Consiglio regionale per gli atti legislativi: questi istituti, infatti, non sono certo finalizzati ad espropriare dei loro poteri gli organi legislativi o ad ostacolare o a ritardare l’attività degli organi della pubblica amministrazione, ma mirano a migliorare ed a rendere più trasparenti le procedure di raccordo degli organi rappresentativi con i soggetti più interessati dalle diverse politiche pubbliche. D’altra parte, a riprova della preminenza dell’interesse pubblico all’efficace funzionamento delle istituzioni legislative ed amministrative, il quarto comma dello stesso art. 17 impugnato affida alla legge regionale la regolamentazione delle “modalità di attuazione dell’istruttoria pubblica, stabilendo i termini per la conclusione delle singole fasi e dell’intero procedimento”.

Né, tanto meno, è condivisibile l’opinione che il giusto riconoscimento per il ruolo fondamentale delle forze politiche che animano gli organi rappresentativi possa essere contraddetto dal riconoscimento di alcune limitate e trasparenti procedure di consultazione da parte degli organi regionali dei soggetti sociali od economici su alcuni oggetti di cui siano particolarmente esperti.

Quanto ai rilievi relativi al fatto che in tal caso “il provvedimento finale è motivato con riferimento alle risultanze istruttorie”, anche volendosi in questa sede prescindere dalla contestabile configurabilità della legge sul procedimento amministrativo come parametro di costituzionalità, basta considerare che l’art. 3, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), non impone, ma certo non vieta, la motivazione degli atti normativi; ed in ogni caso – come ben noto – la motivazione degli atti amministrativi generali, nonché di quelli legislativi è la regola nell’ordinamento comunitario: sembra pertanto evidente che la fonte statutaria di una Regione possa operare proprie scelte in questa direzione.

6. – Non sono fondate le censure di illegittimità costituzionale relative all’art. 19, concernenti le modalità di consultazione da parte degli organi consiliari dei soggetti associativi “le cui finalità siano improntate a scopi di interesse generale” e che chiedano di partecipare ad alcune fasi preliminari del procedimento legislativo e della “definizione degli indirizzi politico-programmatici più generali”; al contrario, la normativa prevede semplicemente alcune procedure per cercare di garantire (in termini più sostanziali che nel passato) ad organismi associativi rappresentativi di significative frazioni del corpo sociale la possibilità di essere consultati da parte degli organi consiliari. La normativa non appare neppure tale da ostacolare la funzionalità delle istituzioni regionali e la stessa previsione di una futura disciplina per la formazione di un albo e di un “protocollo di consultazione”potrà permettere comunque di graduare le innovazioni compatibilmente con la piena efficienza delle istituzioni regionali.

Inoltre, il riconoscimento dell’autonomia degli organi rappresentativi e del ruolo dei partiti politici non viene affatto negato da un disciplina trasparente dei rapporti fra le istituzioni rappresentative e frazioni della cosiddetta società civile, secondo quanto, d’altronde, già ampiamente sperimentato da alcuni decenni sulla base degli statuti regionali vigenti.

7. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all’art. 24, comma 4, non sono fondate.

Il conferimento agli enti locali di funzioni amministrative nelle materie di competenza legislativa delle Regioni tramite apposite leggi regionali presuppone, con tutta evidenza, non solo una previa valutazione da parte del legislatore regionale delle concrete situazioni relative ai diversi settori alla luce dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza in riferimento alle caratteristiche proprie del sistema di amministrazione locale esistente nel territorio regionale, ma anche la perdurante ricerca del migliore possibile modello di organizzazione del settore. Tutto ciò quindi presuppone anche la possibilità di modificare questa legislazione sulla base dei risultati conseguiti (ciò che comunque è implicito nella stessa attribuzione alla legge regionale del potere di conferire queste funzioni), se non pure l’eventuale sperimentazione di diversi modelli possibili.

Le censure di costituzionalità sollevate dal ricorso muovono, invece, da una lettura non condivisibile degli articoli. 114 e 118 della Costituzione, dal momento che sembrano ipotizzare l’esistenza di rigidi vincoli per il legislatore regionale nell’attuazione dell’art. 118 della Costituzione ed una sostanziale equiparazione fra funzioni degli enti locali “proprie” e “conferite”, invece ben distinte dal secondo comma dell’art. 118 della Costituzione.

8. – La censura di illegittimità costituzionale relativa all’art. 26, comma 3, non è fondata.

Il testo di questa disposizione subordina espressamente l’esercizio dei poteri regionali (“delimitazione dell’area metropolitana di Bologna”, “costituzione della città metropolitana”, “individuazione delle sue funzioni”) al rispetto della “disciplina stabilita dalla legge dello Stato” e non si può quindi dedurne la volontà della Regione di contraddire la competenza statale esclusiva in tema di determinazione “delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”. D’altra parte il secondo comma dell’articolo 118 della Costituzione, nell’affidare il potere di “conferimento” delle funzioni amministrative anche alla legge regionale, si riferisce espressamente pure alle Città metropolitane.

9. – La censura di illegittimità costituzionale relativa all’art. 28, comma 2, non è fondata.

L’Avvocatura dello Stato sostiene che la previsione che il Consiglio regionale debba discutere ed approvare il programma di governo predisposto dal Presidente della Regione ed annualmente verificarne l’attuazione si porrebbe in contrasto «con l’elezione diretta del Presidente (di cui sembra ridurre i poteri di indirizzo), in quanto la prevista approvazione consiliare del programma di governo instauri irragionevolmente e contraddittoriamente tra Presidente e Consiglio regionale un rapporto diverso rispetto a quello che consegue all’elezione a suffragio universale e diretto del vertice dell’esecutivo». Di conseguenza una disposizione del genere “non può ritenersi in armonia con la Costituzione”.

Al contrario, va considerato che la determinazione della forma di governo regionale da parte degli statuti non si esaurisce nella individuazione del sistema di designazione del Presidente della Regione, ai sensi dell’art. 122, quinto comma, della Costituzione. Nel caso che venga scelto, come fa la delibera statutaria in oggetto, il sistema della elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della Regione, ciò ha quale sicura conseguenza l’impossibilità di prevedere una iniziale mozione di fiducia da parte del Consiglio, nonché la ulteriore conseguenza delle dimissioni della Giunta e dello scioglimento del Consiglio (art. 126, terzo comma, della Costituzione) nel caso di successiva approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Presidente.

Entro questi limiti, peraltro, si esplica l’autonomia statutaria, che ben può disciplinare procedure e forme del rapporto fra i diversi organi regionali, più o meno riducendo l’area altrimenti lasciata alla prassi o alle relazioni meramente politiche: ciò in particolare rileva nei rapporti fra Consiglio regionale, titolare esclusivo del potere legislativo (ivi compresa la legislazione di bilancio), nonché di alcuni rilevanti poteri di tipo amministrativo, e i poteri di indirizzo politico del Presidente della Regione che si esprimono, tra l’altro, anche nella predisposizione del fondamentale “programma di governo” della regione.

Appare evidente che proprio la mancata disciplina nella delibera statutaria di conseguenze di tipo giuridico (certamente inammissibili, ove pretendessero di produrre qualcosa di analogo ad un rapporto fiduciario), derivanti dalla mancata approvazione da parte del Consiglio del programma di governo del Presidente, sta a dimostrare che si è voluto semplicemente creare una precisa procedura per obbligare i fondamentali organi regionali ad un confronto iniziale e successivamente ricorrente, sui contenuti del programma di governo; confronto evidentemente ritenuto ineludibile e produttivo di molteplici effetti sui comportamenti del Presidente e del Consiglio: starà alla valutazione del Presidente prescindere eventualmente dagli esiti di tale dialettica, così come starà al Consiglio far eventualmente ricorso al drastico strumento della mozione di sfiducia, con tutte le conseguenze giuridiche previste dall’art. 126, terzo comma, della Costituzione.

10. – La censura di illegittimità costituzionale relativa all’art. 45, comma 2, è fondata limitatamente al terzo periodo del comma.

L’articolo 122 della Costituzione riserva espressamente alla legge regionale, “nei limiti dei principî fondamentali stabiliti con legge della Repubblica”, la determinazione delle norme relative al “sistema di elezione” e ai “casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali”, senza che si possa distinguere (come invece ipotizza la difesa regionale) fra ipotesi di incompatibilità “esterne” ed “interne” all’organizzazione istituzionale della Regione.

E’ vero che le scelte in tema di incompatibilità fra incarico di componente della Giunta regionale e di consigliere regionale possono essere originate da opzioni statutarie in tema di forma di governo della Regione, ma – come questa Corte ha già affermato in relazione ad altra delibera statutaria nella sentenza n.2 del 2004 – occorre  rilevare che il riconoscimento nell’articolo 123 della Costituzione del potere statutario in tema di forma di governo regionale è accompagnato dalla previsione dell’articolo 122 della Costituzione, e che quindi la disciplina dei particolari oggetti a cui si riferisce espressamente l’art. 122 sfugge alle determinazioni lasciate all’autonomia statutaria.

Né la formulazione del terzo periodo del secondo comma dell’art. 45, del resto, può essere interpretata come espressiva di un mero principio direttivo per il legislatore regionale, nell’ambito della sua discrezionalità legislativa in materia.

11. – La censura di illegittimità costituzionale relativa all’art. 49, comma 2, non è fondata.

Il Governo censura l’ultimo periodo del secondo comma dell’art. 49 della delibera statutaria, che prevede la possibilità che la Giunta regionale disciplini con regolamento, “nei limiti stabiliti dalla legge regionale”, l’esecuzione di regolamenti comunitari, la cui applicazione evidentemente esiga l’adozione di apposite normative: la censura muove dalla constatazione che questa disposizione statutaria non richieda il “necessario rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato, la quale deve disciplinare anche le modalità di esercizio del potere sostitutivo”, ciò che costituirebbe violazione dell’art. 117, quinto comma della Costituzione.

L’art. 49 della delibera statutaria disciplina in generale i rapporti fra le leggi ed i regolamenti regionali, dando per presupposta la titolarità da parte della Regione dei poteri normativi nelle varie materie e pertanto non pone anche in questa sede il problema dei limiti sostanziali e procedimentali di questi ultimi; d’altra parte, mentre il riconoscimento del potere delle Regioni di dettare discipline per l’applicazione dei regolamenti comunitari risale all’art. 6, comma 1, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382), nulla di difforme è stato previsto dalla legislazione statale di attuazione del nuovo Titolo V, né appare necessario ribadire l’esistenza dei poteri sostitutivi ora previsti dal secondo comma dell’articolo 120 della Costituzione e dall’art. 8 della legge n. 131 del 2003.

12. – La censura di illegittimità costituzionale relativa all’art. 62, comma 3, non è fondata.

Il rilievo di costituzionalità muove da una lettura del riferimento alla “legge” nel terzo comma dell’art. 62 della delibera statutaria, come “legge regionale”: da tale interpretazione il ricorrente desume che “la norma prevede una disciplina regionale del lavoro del personale regionale” e che quindi viola l’articolo 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione. Se, invece, si considera che in altri commi dello stesso articolo là dove si è inteso fare riferimento al potere normativo della Regione, si è scritto “legge regionale”, il terzo comma assume il significato di una disposizione meramente ricognitiva del rapporto fra legislazione e contrattazione, alla luce dei principî costituzionali, nella disciplina del rapporto di lavoro del personale regionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 45, comma 2, terzo periodo, della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima deliberazione il giorno 1° luglio 2004, ed in seconda deliberazione il giorno 14 settembre 2004;

2) dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera f), della predetta delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposte con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione degli artt. 1, 48, 117, secondo comma, lettere f) e p), 122, primo comma, e 121, secondo comma, della Costituzione;

3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, lettera a), della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposte con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera a), e dell’art. 117, quinto comma, della Costituzione;

4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1, della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposte con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione degli artt. 1, 48, 117, secondo comma, lettere f) e p), 122, primo comma, e 121, secondo comma, della Costituzione;

5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17 della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposte con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione dell’articolo 97 della Costituzione e dei “principî in tema di attività normativa”;

6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19 della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposte con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione degli articoli 1, secondo comma, 3, 49 e 121 della Costituzione;

7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 4, della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposte con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione degli articoli 114 e 118 della Costituzione;

8) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 3, della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposta con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione;

9) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 2, della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposta con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione del canone di “armonia con la Costituzione” di cui all’articolo 123 della Costituzione;

10) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 49, comma 2, della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposta con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione dell’art. 117, quinto comma, della Costituzione;

11) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 62, comma 3, della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposta con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 novembre 2004.
 

Calabria: ODG su OGM

  Il Consiglio regionale della Calabria ha approvato all’unanimità l’ordine del giorno presentato da Luigi Fedele (Forza Italia), dichiarando il territorio della regione libero da coltivazioni OGM. Sono così 14 le regioni che hanno dichiarato in tal senso. Lo rende noto Bollettino Bio bollettino_bio@greenplanet.net
Il 30 novembre il decreto Alemanno è andato in
Gazzetta ufficiale, fissando per regioni e province autonome il termine del 31 dicembre 2005 per adottare i piani di coesistenza.
In
Germania il Bundestag ha stabilito come sarà la coesistenza dal 1 gennaio: gli agricoltori biotech dovranno porre in essere tutte le misure precauzionali necessarie per evitare l’impollinazione di coltivazioni biologiche e convenzionali, rimanendo responsabili dei danni da cross-contaminazione dovuti all’insufficienza delle misure adottate ed essendo tenuti a indennizzarli.
(red)

Finanziaria: preoccupazione per Enti pubblici di ricerca

Il Presidente del Comparto degli Enti Pubblici di Ricerca Enrico Garaci (nella foto), nonché Presidente della Conferenza degli Enti pubblici di Ricerca, esprime preoccupazione per il provvedimento contenuto nella nuova Legge Finanziaria secondo cui gli Enti Pubblici di Ricerca, fatta eccezione per le Università, non possono assumere personale per i prossimi tre anni. A renderlo noto è l'Istituto Superiore di Sanità.  “Siamo il Paese con il più basso numero di ricercatori impiegato a tempo pieno in tutto il mondo – afferma Garaci – Per ogni 1000 unità di forza lavoro sono impiegati a tempo pieno il 3,33% di ricercatori, contro il 6,14% della Francia, il 5,54% del Regno Unito e l’8,08% degli Stati Uniti e la media dell’età di chi fa ricerca è di circa cinquant’anni. Bloccare perciò le assunzioni di giovani ricercatori in questo contesto significa non solo danneggiare l’impulso alla ricerca pubblica ma escludere definitivamente l’Italia dalla competizione europea. Serve perciò incoraggiare i giovani a proseguire i loro studi in Italia. Dobbiamo per questo raggiungere l’incremento di nuovi posti per la ricerca in linea con l’Europa dove negli ultimi dieci anni in Paesi come l’Irlanda o la Finlandia le nuove assunzioni sono cresciute fino a punte del 16%, ma anche come è accaduto in Grecia e in Portogallo dove i nuovi ricercatori assorbiti in dieci anni sono stati rispettivamente del 6,29% e del 7%  - conclude il Presidente –  contro l’un per cento dei nuovi ricercatori italiani, rimasti in coda assoluta nella classifica europea.
Occorre quindi creare le condizioni affinché più giovani si dedichino alla ricerca e i nostri Enti di Ricerca possano cogliere nuove opportunità di reclutamento per crescere e competere, evitando che le nostre migliori risorse vadano a collocarsi in Europa o in America dove oggi sicuramente il terreno è più fertile”.
Alla dichiarazione del Presidente Garaci si aggiunge  la voce del Presidente del CNR Fabio Pistella che ha affermato: “Le difficoltà derivano soprattutto dal permanere del blocco di ben tre anni. Certamente occorre una selezione anche severa ma, a chi tra i giovani ricercatori ha dimostrato valore, va offerta una prospettiva competitiva rispetto ad altre possibilità di lavoro: questa esigenza è vitale nel mondo scientifico. Non si invertirà altrimenti – prosegue il Presidente del CNR – la situazione che vede ridursi in Italia il numero di giovani che si iscrivono alle facoltà scientifiche, come pure si riduce purtroppo il numero di quelli, fra i migliori laureati, che si avvicinano alla ricerca. Su un piano più generale, inoltre – aggiunge Pistella - per rilanciare gli enti di ricerca, e in particolare il CNR , una volta assegnato un budget a questo scopo, occorre lasciare ai vertici di tali enti autonomia su come destinare le risorse tra le diverse tipologie di spesa e, certamente, la motivazione e la valorizzazione delle risorse umane più qualificate in questo senso sono una priorità”.
(red)

Finanziaria: Upi a manifestazioni autonomie

L'UPI partecipa alla manifestazione sulla Finanziaria organizzata dall'Anci. Ci saranno quindi anche le Province a sottolineare i punti critici della manovra. E' prevista il 10 dicembre prossimo alle ore 11,30 in piazza del Pantheon, a Roma: "L'Upi - ha detto il neo presidente Fabio Melilli - non puo' che dare la sua piena adesione alla giornata di mobilitazione delle Autonomie locali, contro una finanziaria insostenibile, e che taglia alle Province 2 miliardi di euro destinati agli investimenti sul territorio. Sara' una giornata importante - ha concluso Melilli - perche' vedra' in piazza i rappresentanti di tutti i governidel territorio, dalle Regioni alle Province ai Comuni alle Comunita' montane, in una manifestazione unitaria che, sono certo, garantira' ancora maggiore forza alle richieste di modifica piu' volte presentate al Governo e al Parlamento da tutto il sistema delle Autonomie".
(red)
 

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