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"In occasione della preparazione
del Dpef - scrive su www.lavoce.info
Elena Granaglia (professore
ordinario di Scienza delle Finanze presso la Facoltà di Economia
dell'Università della Calabria) è tornata
in discussione la proposta, già in precedenza presentata dal ministro
della Salute, Girolamo Sirchia, di incentivare le polizze assicurative per
promuovere la libera professione all’interno delle aziende sanitarie del
Sistema sanitario nazionale (intramoenia). Due sono gli assunti di
fondo. Da un lato, il vincolo di finanza pubblica impedisce la
soddisfazione delle domande crescenti di assistenza. Dall’altro, la spesa
sanitaria privata ammonta nel nostro Paese a circa il 2 per cento del Pil,
coinvolgendo in molti casi l’acquisto di servizi che il Ssn dovrebbe
produrre. Dirottarne una parte verso il finanziamento dell’intramoenia
sarebbe un modo per realizzare l’obiettivo spesso affermato, ma mai
attuato, della creazione di circoli virtuosi fra spesa pubblica e privata.
Il meccanismo permetterebbe, infatti, un afflusso di risorse al Ssn
quantificabili, secondo il ministro, in cinque miliardi di euro e al tempo
stesso, amplierebbe le opportunità di scelta dei cittadini. Eserciterebbe
inoltre un effetto di calmiere sui premi assicurativi perché il prezzo
delle prestazioni erogate in intramoenia è inferiore a quello
praticato dalle cliniche private.
Benché i dati siano incompleti, l’evidenza, riconosciuta dalla stessa
agenzia per i servizi sanitari, dimostra - sesondo la Granaglia - che il
rendimento dell’intramoenia è stato assai inferiore rispetto alle
attese (...) .Anche la proposta del ministro Sirchia rischia, però, di
generare effetti opposti a quelli attesi. Innanzitutto, se i limiti
dipendono da inadeguatezza dell’offerta pubblica più che da carenza di
domanda, il rischio è che i vantaggi finanziari ricercati, benché modesti
(cinque miliardi di euro rappresentano circa un quinto della spesa
sanitaria privata), si riversino sui produttori privati anziché sulle
aziende pubbliche.
Inoltre, già oggi polizze private e fondi integrativi sono perfettamente
liberi di finanziare l’intramoenia: e infatti lo fanno. Per
ottenere un dirottamento anziché una crescita della spesa privata, sarebbe
allora necessaria la diminuzione dei premi. Ma assicurazioni e fondi
possono già adesso stabilire polizze con premi differenziati secondo il
tipo di prestazioni permesse. E godono di agevolazioni fiscali: deduzioni,
per le polizze erogate da fondi e detrazioni, per le prestazioni a carico
del cittadino assicurate da polizze individuali. Si tratterebbe allora di
incrementare le agevolazioni. Ogni agevolazione fiscale, però, è un costo
per l’erario.
Infine, con l’eventuale potenziamento dell’ospedalità privata - si domanda
l'autrice - non potrebbero acuirsi i problemi di iniquità all’accesso, di
inappropriatezza delle prestazioni e di interazione "viziosa" fra pubblico
e privato? Sull’iniquità, la risposta sembra ovvia. Si vorrebbe estendere
un istituto già problematico sotto questo aspetto, senza avere prima
predisposto gli strumenti di controllo necessari. Sull’inappropriatezza,
occorre ricordare i rischi di proliferazione dei consumi associati alle
assicurazioni private. Sull’interazione "viziosa", ci sono i rischi -
conclude Elena Granaglia -sia di scrematura dei pazienti sia di incremento
delle tariffe per il rafforzamento del peso contrattuale dell’ospedalità
privata". (red) |
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"Regioni
d'Europa - Devoluzioni, regionalismi e integrazione europea" è il
titolo di un saggio pubblicato da Il Mulino e scritto da Mario
Caciagli (Professore di politica comparata all'Università di Firenze). Il
volume fa il punto sulle "devoluzioni", o meglio sulle riforme regionali e
federali negli Stati dell'Unione Europea, soffermandosi sui casi di
Italia, Francia, Spagna, Gran Bretagna e Belgio. E' affrontato anche il
tema delle riforme "difficili"...Quelle da realizzarsi in Stati
centralizzati come Grecia e Portogallo, così come ci si sofferma
sull'opera di decentramento realizzatasi in Finlandia, Svezia e Danimarca,
sugli esempi di Germania e Austria, sul policentrismo olandese e sul
"paradosso" irlandese.
In uno dei passaggi dedicati al nostro Paese (Italia: dalla
regionalizzazione al federalismo? ) - dopo alcuni cenni di ricostruzione
storica e istituzionale per spiegare i motivi per cui, nonostante fossero
state previste dal Dettato costituzionale, le Regioni, anche quelle a
statuto speciale che pure erano state istituite in precedenza, presero a
funzionare a pieno ritmo soltanto negli anni Settanta, quando si avviò un
sistema generale di devoluzione con l’entrata in vigore delle 15 regioni a
statuto ordinario - l'autore spiega che "il decentramento di funzioni
amministrative procedette però "molto lentamente con disposizioni
frammentarie e insufficiente distribuzione di competenze". E il "decollo
della regionalizzazione italiana avvenne con i decreti del 1975 e del 1977
che trasferirono altre più consistenti competenze amministrative e
soprattutto poteri legislativi e risorse finanziarie. Alle regioni venne
assegnato il 25% del bilancio dello stato, migliaia di enti furono
soppressi o trasferiti alle regioni e molte divisioni ministeriali
eliminate". "Alla riforma regionale - scrive ancora Caciagli - non si
accompagnò, tuttavia, un mutamento nella struttura e nel processo
decisionale dello stato. Non ci fu allora una ristrutturazione della
burocrazia ministeriale, né furono istituiti meccanismi di coordinazione
legislativa fra parlamento e regioni, né organi di collaborazione fra
governo e regioni". Nonostante ciò "alla fine degli anni Ottanta si era
andata formando una nuova struttura amministrativa ed era cresciuta una
nuova classe politica. Soprattutto, l’istituto regionale cominciava a
metter radici nella società (...) La Conferenza permanente stato-regioni
aveva via via assunto un peso non secondario. La Conferenza dei Presidenti
delle Regioni era già divenuta un soggetto politico capace di interloquire
con il governo centrale e aveva cominciato a mettere sul tappeto le sue
richieste: allargamento delle competenze attribuite alle regioni,
creazione di una Camera delle Regioni. redistribuzione degli introiti
fiscali e autonomia estrattiva per le regioni, nonché compartecipazione
alle politiche europee.
Gli anni Novanta sono stati un decennio di mutamenti istituzionali e
politici che hanno rafforzato l’immagine e il peso delle Regioni (...) La
crisi della Prima Repubblica ha accelerato quel cammino verso la
costruzione di un modello originale di «stato regionale», tanto più che
uno dei fattori di quella crisi, con l’introduzione della questione
territoriale, era stato l’irruzione sulla scena politica di movimenti
regionalisti nella parte settentrionale del paese che trovarono la loro
espressione politica nella Lega Nord. La Lega Nord - scrive Caciagli
-ha dato impulso a una richiesta di federalismo che è stata via via
accettata dalle altre forze politiche vecchie e nuove. Le regioni italiane
hanno così sfruttato l’opportunità" e il "voto referendario del 1993 abolì
alcuni ministeri le cui materie avrebbero dovuto essere devolute alle
regioni. Nello stesso anno l’introduzione dell’elezione diretta dei
sindaci rafforzò le autonomie locali e prefigurò il rafforzamento di
quelle regionali. La classe politica regionale cominciò ad avanzare richieste
di radicale innovazione. Nel 1994 la Conferenza dei presidenti delle
regioni, ad esempio, approvò un documento, il «Manifesto delle regioni
italiane», che lamentava che niente fosse stato fatto per la loro crisi
istituzionale e finanziaria. Un altro documento della stessa Conferenza
dei Presidenti chiedeva nello stesso anno la trasformazione dell’Italia in
uno stato federale. Nel 1995 venne riformato in senso maggioritario il
sistema elettorale regionale con l’introduzione di un’elezione «quasi
diretta» dei presidenti. Alle regioni sono stati trasferiti negli anni
successivi poteri fiscali tali che in pochi anni le loro entrate proprie
sono divenute il 49% rispetto al misero 25% del passato. L’intero sistema
sanitario è stato trasferito alle regioni e rappresenta per loro la spesa
maggiore. Le cosiddette «leggi Bassanini» del 1997, dal nome del ministro
per la riforma dell’amministrazione, con l’imponente decentramento di
funzioni amministrative, sarebbero un primo passo verso il federalismo, se
non avessero trovato molti ostacoli nella loro applicazione Una legge
costituzionale del 1999 ha introdotto l’elezione diretta dei presidenti di
regione e ha sancito l’autonomia statutaria che prevede anche la scelta di
nuove possibili forme di governo e di nuovi possibili sistemi elettorali.
Dopo le elezioni regionali del 2000 si è aperta una fase molto intensa di
ulteriore innovazione. In virtù della loro elezione diretta i presidenti
delle regioni hanno preso ad assumere un ruolo politico nazionale; quelli
del Nord, in particolare, hanno iniziato a mettere in atto «una strategia
negoziale al federalismo».
"Nel marzo 2001 - scrive Caciagli - la maggioranza di centro-sinistra,
pochi mesi prima di affrontare l’elezione politica che l’avrebbe
sconfitta, varò la legge di revisione degli articoli della sezione della
Costituzione (il Titolo V) che riguardano l’ordinamento regionale. La
legge sarebbe stata confermata nell’ottobre successivo da un referendum
popolare. La revisione costituzionale del 2001 non ha preteso di
introdurre un ordinamento federale (negli articoli non c’è mai la parola
«federalismo», a parte i riferimenti al federalismo fiscale), ma ha fatto
compiere un grande passo in quella direzione, dichiarando che sono le
regioni a costituire la repubblica, mentre prima la repubblica si
«ripartiva» in regioni. Allo stato sono riservate alcune competenze
(quelle tipiche di un ordinamento federale: la politica estera, la difesa
e sicurezza, la moneta e i mercati finanziari, la perequazione delle
risorse finanziarie, la giurisdizione), tutte le altre, le residuali, sono
attribuite alle regioni. Molte (troppe) sono le materie nelle quali la
potestà legislativa è esercitata tanto dallo stato che dalle regioni (fra
cui i rapporti internazionali). Moltissime sono le materie sulle quali le
regioni possono d’ora in avanti legiferare, pur nei limiti posti dalle
leggi cornici dello stato. Ambiguità rimangono a proposito della
legislazione concorrente (...) "Completare e razionalizzare la
riforma dello stato italiano in senso federale non sarà facile. Vero è che
si è andati troppo avanti per tornare indietro. Le regioni spingo-no
perché le nuove disposizioni siano rispettate e applicate, La nuova
maggioranza di centro-destra sembra disposta a implementarle, specialmente
i suoi rappresentanti al potere nella periferia". "Chi le vuole fermare -
secondo l'autore - in vista di un federalismo forte e disomogeneo, cioè di
redistribuzione di risorse e di poteri per le regioni più ricche, è il
ministro delle Riforme, il leader della Lega Nord. Umberto Bossi ha
presentato fin dal dicembre 2001 una proposta di riforma che prevede
l’attribuzione alle regioni di poteri esclusivi nei settori della sanità
(come in buona parte già avviene per l’assistenza e l’organizzazione
ospedaliera), nell’istruzione (organizzazione scolastica e programmi di
insegnamento) e nell’ordine pubblico (corpi regionali di polizia). Inoltre
il progetto di Bossi, approvato dal Senato nel dicembre 2002, ma che trova
ostacoli nei suoi alleati di governo, prevede che ogni regione possa
decidere delle sue competenze, attribuendo si le potestà che le sembrano
opportune. Le questioni dell’elezione di una parte della Corte
Costituzionale e la realizzazione di un avanzato federalismo fiscale sono
diventati oggetto di un dibattito e di uno scontro continuo fra le varie
parti politiche, mentre in secondo piano continua a rimanere la riforma
del Senato della repubblica in Camera delle regioni che sarebbe il salto
decisivo verso il federalismo. (sm). |