CONFERENZA DEI PRESIDENTI DELLE REGIONI E
DELLE PROVINCE AUTONOME
SCHEMA DI DECRETO DEL MINISTRO DELL’INTERNO, DI CONCERTO CON IL
MINISTRO DELLA GIUSTIZIA, RECANTE FORME E MODALITÀ CON CUI È
GARANTITA LA CONSERVAZIONE DEL POSTO DI LAVORO OVVERO IL
TRASFERIMENTO AD ALTRA SEDE O UFFICIO DEI COLLABORATORI E DELLE
ALTRE PERSONE SOTTOPOSTE A PROTEZIONE, AI SENSI DELL’ART. 13,
COMMA 8, DEL DECRETO-LEGGE 15 GENNAIO 1991, N. 8, CONVERTITO, CON
MODIFICAZIONI, NELLA LEGGE 15 MARZO 1992, N. 82 E SUCCESSIVE
MODIFICAZIONI
Punto 3) odg Conferenza Unificata
Con riferimento all’oggetto, in relazione
alla richiesta di parere ai sensi dell’art. 9, comma 3, del D.Lgs.
n. 281/1997, pervenuta in data 3 agosto u.s. dalla Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province
autonome di Trento e di Bolzano, si espone quanto segue.
Sembra opportuno, in via preliminare, porre
in evidenza i punti essenziali della L. n. 82/1982.
Secondo la disciplina del Capo II,
le “speciali misure di protezione” si rivolgono a soggetti
che versano in grave e attuale pericolo, per effetto della
collaborazione resa nel corso di un procedimento penale cui sono
sottoposti.
Le misure sono applicate quando risulta la
inadeguatezza delle ordinarie misure di tutela adottabili
direttamente dalle autorità di pubblica sicurezza o, se si tratta
di persone detenute o internate, dal Ministero della giustizia.
E’ altresì richiesto che le
condotte di collaborazione si riferiscano a taluni delitti,
elencati all’art. 9, comma 2 (delitti commessi per finalità
di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale,
associazione di tipo mafioso, sequestro a scopo di estorsione,
ecc…….) e possiedano precise caratteristiche,
indicate all’art. 9, comma 3 (intrinseca attendibilità, carattere
di novità o di completezza, notevole importanza per lo sviluppo
delle indagini o ai fini del giudizio ovvero per le finalità di
investigazione, ecc…….).
Ai sensi dell’art. 9, comma 5, le speciali
misure di protezione sono applicabili anche a coloro che convivono
stabilmente con le persone cui sono primariamente destinate (i
collaboratori di giustizia) nonché, in presenza di specifiche
situazioni, a coloro che risultino esposti a grave, attuale e
concreto pericolo a causa delle relazioni intrattenute con le
persone medesime.
L’art. 13, comma 8, prevede poi che “Ai
fini del reinserimento sociale dei collaboratori e delle altre
persone sottoposte a protezione, è garantita la conservazione
del posto di lavoro ovvero il trasferimento ad altra sede o
ufficio secondo le forme e le modalità che………………….sono
specificate in apposito decreto emanato dal Ministro
dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia, sentiti
gli altri Ministri interessati……….”
Attesa la collocazione della norma, nello
stesso Capo II, le “altre persone sottoposte a protezione”
non possono che essere i soggetti cui allude il sopra citato art.
9, comma 5: cioè i conviventi stabili dei collaboratori di
giustizia e coloro che comunque risultano, a causa delle relazioni
intrattenute con costoro, esposti a grave, attuale e concreto
pericolo.
Alla legge n. 82/1982, la legge n. 45/2001
ha aggiunto il Capo II-bis recante “Norme per la protezione dei
testimoni di giustizia”.
Ai sensi del primo comma dell’art. 16-bis,
le speciali misure di protezione “se ne ricorrono i
presupposti, si applicano anche a coloro che assumono rispetto al
fatto o ai fatti delittuosi in ordine ai quali rendono le
dichiarazioni esclusivamente la qualità di persona offesa dal
reato, ovvero di persona informata sui fatti o di testimone………”.
Il secondo comma precisa tuttavia che “Le
dichiarazioni rese dai testimoni di giustizia possono
anche non avere le caratteristiche di cui all’articolo 9,
comma 3, salvo avere carattere di attendibilità, e riferirsi a
delitti diversi da quelli indicati nel comma 2 dello stesso
articolo”.
E’ di tutta evidenza, pertanto, che lo
spettro di applicabilità delle misure ai testimoni di giustizia
sia molto più ampio di quello riferibile ai collaboratori
(sottoposti, come già precisato, a procedimento penale).
Peraltro, il terzo comma dell’art. 16-bis
opera un’estensione, del tutto analoga a quella compiuta dal
succitato art. 9, comma 5: “Le speciali misure di protezione si
applicano, se ritenute necessarie, a coloro che coabitano o
convivono stabilmente con le persone indicate nel comma 1, nonché,
ricorrendone le condizioni, a chi risulti esposto a grave, attuale
e concreto pericolo a causa delle relazioni trattenute con le
medesime persone”.
Tra i diritti associati alle misure di
protezione per i testimoni di giustizia, se dipendenti pubblici,
l’art. 16-ter, comma 1, lett. d), prevede il “mantenimento
del posto di lavoro, in aspettativa retribuita, presso
l’amministrazione dello stato al cui ruolo appartengono, in
attesa della definitiva sistemazione anche presso altra
amministrazione dello Stato”.
In riferimento alla garanzia di
conservazione del posto di lavoro – ecco il punto – si profila una
marcata diversità di trattamento tra le due categorie di persone
protette.
Dal raffronto delle disposizioni di legge
appare infatti che, mentre per i collaboratori tale garanzia ha la
massima estensione soggettiva – riferendosi tanto al lavoro
(subordinato) privato quanto a quello pubblico – per i testimoni
di giustizia si rivolge solo ai dipendenti statali.
Nello schema di decreto (in attuazione
dell’art. 13, comma 8) il Ministero ha voluto, invece, garantire
la conservazione del posto di lavoro sia per i dipendenti pubblici
che per quelli privati, siano essi collaboratori o testimoni di
giustizia.
A giustificazione di ciò, la relazione
illustrativa propone un’interpretazione della legge che supera il
dato letterale e si fonda su due ordini di argomenti.
Il primo argomento, di tipo teleologico, fa
leva su di un passaggio della relazione illustrativa
dell’originario disegno di legge presentato al Senato: “Particolare
cura è stata nel contempo posta nel prevedere la possibilità di un
reinserimento sociale del collaboratore e dei suoi familiari
specie se minori e dei collaboratori che, senza dissociarsi da
gruppi criminali, hanno reso dichiarazioni testimoniali solo per
ragioni di sensibilità istituzionale e rispetto delle esigenze
della collettività. A ciò dovrà provvedere un apposito decreto
interministeriale stabilendosi fin da ora, però, che al
collaboratore sia garantita la conservazione del posto di lavoro e
sia assicurata la riservatezza nei luoghi ove è stato costretto a
trasferirsi”.
La relazione, dunque – parlando di “dichiarazioni
testimoniali” - rivelerebbe l’intento del legislatore di
includere i testimoni di giustizia tra i soggetti destinatari
delle forme di conservazione del posto di lavoro da regolamentare
nell’emanando decreto ministeriale.
Il secondo argomento, di ordine
sistematico, fa leva sulle linee ispiratrici della legge.
La mancanza, per i testimoni di giustizia,
di ogni previsione relativa alla conservazione del posto di lavoro
di natura privatistica – ovvero di natura pubblicistica, ma alle
dipendenze di enti diversi dallo Stato – comporterebbe infatti
un’inammissibile disparità di trattamento “determinando, fra
l’altro, una penalizzazione proprio nei confronti di quei soggetti
che rispetto ai fatti criminosi assumono una posizione di
sostanziale estreneità” (così, la relazione illustrativa allo
schema di decreto).
******
Lo schema di decreto in esame pare
sostanzialmente rispettoso, quanto ai collaboratori di giustizia,
del quadro normativo di cui alla L. n. 82/1982.
In particolare, nell’ottica che qui
interessa, pare rispettoso degli ambiti di competenza esclusiva di
Regioni ed enti locali: la conservazione del posto di lavoro,
infatti, garantita per tutti i dipendenti pubblici dall’art. 13,
comma 8, della legge stessa, si realizza attraverso “istituti
previsti dai singoli ordinamenti e dalla contrattazione collettiva”.
Al contrario, non pare conforme a legge la
scelta di estendere la garanzia di conservazione del posto di
lavoro a tutti i testimoni di giustizia – dipendenti pubblici e
privati – né, comunque, la scelta di definire identiche forme e
modalità per tutti i dipendenti pubblici.
In primo luogo, si consideri la particolare
determinatezza e precisione del dato letterale di cui all’art.
16-ter, comma 1, lett. d).
Criteri teleologici e sistematici non
possono indurre a ritenere che un precetto legislativo, il cui
contenuto e la cui portata siano resi manifesti dalla formulazione
di esso, abbia, invece, un contenuto e una portata diversi.
In secondo luogo, non sembrano sostenibili
gli argomenti addotti nell’utilizzo di simili criteri.
Nel passaggio della relazione illustrativa
al disegno di legge, che fonda l’argomento teleologico, le
dichiarazioni sono definite “testimoniali” nel senso, del
tutto atecnico, di “dichiarazioni di scienza”. Riferendo le
dichiarazioni ai “collaboratori”, infatti, la relazione non
può che alludere, secondo la terminologia utilizzata dalla legge
(non a testimoni in senso tecnico, né a persone informate sui
fatti ovvero a persone offese dal reato, bensì) a soggetti
sottoposti a procedimento penale.
A conferma di ciò, si aggiunga che lo
stesso passaggio fa espresso riferimento a collaboratori che hanno
reso dichiarazioni “senza dissociarsi da gruppi criminali”.
Per quanto concerne i testimoni di
giustizia, dunque, una garanzia a schermo totale del posto di
lavoro rimane del tutto estranea agli intenti del legislatore;
così come estranea è la volontà di includere gli stessi nella
disciplina dell’emanando decreto attuativo.
L’argomento sistematico, inoltre, non pare
affatto così stringente.
Si è già evidenziato che la categoria dei
testimoni di giustizia – rilevante ai fini dell’applicazione del
capo II bis – è assai più ampia della categoria dei collaboratori
(molto maggiore lo spettro dei reati, minori le caratteristiche
richieste per le dichiarazioni).
Estendere un diritto compiutamente
circoscritto e disciplinato in riferimento alla prima, quindi, non
significa affatto creare un regime omogeneo rispetto alla seconda
(ciò che si avrebbe se l’unica differenza fosse nella qualifica
processuale del soggetto beneficiato: testimone anziché sottoposto
a procedimento penale).
Deve concludersi, anzi, che la volontà di
attuare un regime omologo (quanto ad estensione soggettiva) per le
due categorie, sia viziata in partenza dalla diversità di
presupposti che la legge ha individuato.
Va infine precisato che, quand’anche non
mancasse il necessario presupposto legislativo, forme e modalità
di conservazione del posto di lavoro non potrebbero essere
definite per tutti i dipendenti pubblici con regolamento statale;
al contrario, dovrebbero – come previsto per i collaboratori di
giustizia – essere realizzate dai singoli ordinamenti degli enti e
dalla contrattazione collettiva.
Roma, 11 novembre 2004
|