FASCICOLI
Conferenza dei Presidenti delle Regioni
e delle Province autonome
 

ROMA, 11 novembre 2004

CONFERENZA DEI PRESIDENTI DELLE REGIONI E DELLE PROVINCE AUTONOME

 

 

 

SCHEMA DI DECRETO DEL MINISTRO DELL’INTERNO, DI CONCERTO CON IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA, RECANTE FORME E MODALITÀ CON CUI È GARANTITA LA CONSERVAZIONE DEL POSTO DI LAVORO OVVERO IL TRASFERIMENTO AD ALTRA SEDE O UFFICIO DEI COLLABORATORI E DELLE ALTRE PERSONE SOTTOPOSTE A PROTEZIONE, AI SENSI DELL’ART. 13, COMMA 8, DEL DECRETO-LEGGE 15 GENNAIO 1991, N. 8, CONVERTITO, CON MODIFICAZIONI, NELLA LEGGE 15 MARZO 1992, N. 82 E SUCCESSIVE MODIFICAZIONI

 

 

Punto 3) odg Conferenza Unificata

 

 

Con riferimento all’oggetto, in relazione alla richiesta di parere ai sensi dell’art. 9, comma 3, del D.Lgs. n. 281/1997, pervenuta in data 3 agosto u.s. dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, si espone quanto segue.

 

Sembra opportuno, in via preliminare, porre in evidenza i punti essenziali della L. n. 82/1982.

Secondo la disciplina del Capo II, le “speciali misure di protezione” si rivolgono a soggetti che versano in grave e attuale pericolo, per effetto della collaborazione resa nel corso di un procedimento penale cui sono sottoposti.

Le misure sono applicate quando risulta la inadeguatezza delle ordinarie misure di tutela adottabili direttamente dalle autorità di pubblica sicurezza o, se si tratta di persone detenute o internate, dal Ministero della giustizia.

E’ altresì richiesto che le condotte di collaborazione si riferiscano a taluni delitti, elencati all’art. 9, comma 2 (delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale, associazione di tipo mafioso, sequestro a scopo di estorsione, ecc…….) e possiedano precise caratteristiche, indicate all’art. 9, comma 3 (intrinseca attendibilità, carattere di novità o di completezza, notevole importanza per lo sviluppo delle indagini o ai fini del giudizio ovvero per le finalità di investigazione, ecc…….).

Ai sensi dell’art. 9, comma 5, le speciali misure di protezione sono applicabili anche a coloro che convivono stabilmente con le persone cui sono primariamente destinate (i collaboratori di giustizia) nonché, in presenza di specifiche situazioni, a coloro che risultino esposti a grave, attuale e concreto pericolo a causa delle relazioni intrattenute con le persone medesime.

L’art. 13, comma 8, prevede poi che “Ai fini del reinserimento sociale dei collaboratori e delle altre persone sottoposte a protezione, è garantita la conservazione del posto di lavoro ovvero il trasferimento ad altra sede o ufficio secondo le forme e le modalità che………………….sono specificate in  apposito decreto emanato dal Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia, sentiti gli altri Ministri interessati……….

Attesa la collocazione della norma, nello stesso Capo II, le “altre persone sottoposte a protezione” non possono che essere i soggetti cui allude il sopra citato art. 9, comma 5: cioè i conviventi stabili dei collaboratori di giustizia e coloro che comunque risultano, a causa delle relazioni intrattenute con costoro, esposti a grave, attuale e concreto pericolo.

 

Alla legge n. 82/1982, la legge n. 45/2001 ha aggiunto il Capo II-bis recante “Norme per la protezione dei testimoni di giustizia”.

Ai sensi del primo comma dell’art. 16-bis, le speciali misure di protezione “se ne ricorrono i presupposti, si applicano anche a coloro che assumono rispetto al fatto o ai fatti delittuosi in ordine ai quali rendono le dichiarazioni esclusivamente la qualità di persona offesa dal reato, ovvero di persona informata sui fatti o di testimone………”.

Il secondo comma precisa tuttavia che “Le dichiarazioni rese dai testimoni di giustizia possono anche non avere le caratteristiche di cui all’articolo 9, comma 3, salvo avere carattere di attendibilità, e riferirsi a delitti diversi da quelli indicati nel comma 2 dello stesso articolo”.

E’ di tutta evidenza, pertanto, che lo spettro di applicabilità delle misure ai testimoni di giustizia sia molto più ampio di quello riferibile ai collaboratori (sottoposti, come già precisato, a procedimento penale).

Peraltro, il terzo comma dell’art. 16-bis opera un’estensione, del tutto analoga a quella compiuta dal succitato art. 9, comma 5: “Le speciali misure di protezione si applicano, se ritenute necessarie, a coloro che coabitano o convivono stabilmente con le persone indicate nel comma 1, nonché, ricorrendone le condizioni, a chi risulti esposto a grave, attuale e concreto pericolo a causa delle relazioni trattenute con le medesime persone”.

Tra i diritti associati alle misure di protezione per i testimoni di giustizia, se dipendenti pubblici, l’art. 16-ter, comma 1, lett. d), prevede il “mantenimento del posto di lavoro, in aspettativa retribuita, presso l’amministrazione dello stato al cui ruolo appartengono, in attesa della definitiva sistemazione anche presso altra amministrazione dello Stato”.

 

In riferimento alla garanzia di conservazione del posto di lavoro – ecco il punto – si profila una marcata diversità di trattamento tra le due categorie di persone protette.

Dal raffronto delle disposizioni di legge appare infatti che, mentre per i collaboratori tale garanzia ha la massima estensione soggettiva – riferendosi tanto al lavoro (subordinato) privato quanto a quello pubblico – per i testimoni di giustizia si rivolge solo ai dipendenti statali.

 

Nello schema di decreto (in attuazione dell’art. 13, comma 8) il Ministero ha voluto, invece, garantire la conservazione del posto di lavoro sia per i dipendenti pubblici che per quelli privati, siano essi collaboratori o testimoni di giustizia.

A giustificazione di ciò, la relazione illustrativa propone un’interpretazione della legge che supera il dato letterale e si fonda su due ordini di argomenti.

Il primo argomento, di tipo teleologico, fa leva su di un passaggio della relazione illustrativa dell’originario disegno di legge presentato al Senato: “Particolare cura è stata nel contempo posta nel prevedere la possibilità di un reinserimento sociale del collaboratore e dei suoi familiari specie se minori e dei collaboratori che, senza dissociarsi da gruppi criminali, hanno reso dichiarazioni testimoniali solo per ragioni di sensibilità istituzionale e rispetto delle esigenze della collettività. A ciò dovrà provvedere un apposito decreto interministeriale stabilendosi fin da ora, però, che al collaboratore sia garantita la conservazione del posto di lavoro e sia assicurata la riservatezza nei luoghi ove è stato costretto a trasferirsi”.

La relazione, dunque – parlando di “dichiarazioni testimoniali” - rivelerebbe l’intento del legislatore di includere i testimoni di giustizia tra i soggetti destinatari delle forme di conservazione del posto di lavoro da regolamentare nell’emanando decreto ministeriale.

Il secondo argomento, di ordine sistematico, fa leva sulle linee ispiratrici della legge.

La mancanza, per i testimoni di giustizia, di ogni previsione relativa alla conservazione del posto di lavoro di natura privatistica – ovvero di natura pubblicistica, ma alle dipendenze di enti diversi dallo Stato – comporterebbe infatti un’inammissibile disparità di trattamento “determinando, fra l’altro, una penalizzazione proprio nei confronti di quei soggetti che rispetto ai fatti criminosi assumono una posizione di sostanziale estreneità” (così, la relazione illustrativa allo schema di decreto).

 

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Lo schema di decreto in esame pare sostanzialmente rispettoso, quanto ai collaboratori di giustizia, del quadro normativo di cui alla L. n. 82/1982.

In particolare, nell’ottica che qui interessa, pare rispettoso degli ambiti di competenza esclusiva di Regioni ed enti locali: la conservazione del posto di lavoro, infatti, garantita per tutti i dipendenti pubblici dall’art. 13, comma 8, della legge stessa, si realizza attraverso “istituti previsti dai singoli ordinamenti e dalla contrattazione collettiva”.

Al contrario, non pare conforme a legge la scelta di estendere la garanzia di conservazione del posto di lavoro a tutti i testimoni di giustizia – dipendenti pubblici e privati – né, comunque, la scelta di definire identiche forme e modalità per tutti i dipendenti pubblici.

In primo luogo, si consideri la particolare determinatezza e precisione del dato letterale di cui all’art. 16-ter, comma 1, lett. d).

Criteri teleologici e sistematici non possono indurre a ritenere che un precetto legislativo, il cui contenuto e la cui portata siano resi manifesti dalla formulazione di esso, abbia, invece, un contenuto e una portata diversi.

In secondo luogo, non sembrano sostenibili gli argomenti addotti nell’utilizzo di simili criteri.

Nel passaggio della relazione illustrativa al disegno di legge, che fonda l’argomento teleologico, le dichiarazioni sono definite “testimoniali” nel senso, del tutto atecnico, di “dichiarazioni di scienza”. Riferendo le dichiarazioni ai “collaboratori”, infatti, la relazione non può che alludere, secondo la terminologia utilizzata dalla legge (non a testimoni in senso tecnico, né a persone informate sui fatti ovvero a persone offese dal reato, bensì) a soggetti sottoposti a procedimento penale.

A conferma di ciò, si aggiunga che lo stesso passaggio fa espresso riferimento a collaboratori che hanno reso dichiarazioni “senza dissociarsi da gruppi criminali”.

Per quanto concerne i testimoni di giustizia, dunque, una garanzia a schermo totale del posto di lavoro rimane del tutto estranea agli intenti del legislatore; così come estranea è la volontà di includere gli stessi nella disciplina dell’emanando decreto attuativo.

L’argomento sistematico, inoltre, non pare affatto così stringente.

Si è già evidenziato che la categoria dei testimoni di giustizia – rilevante ai fini dell’applicazione del capo II bis – è assai più ampia della categoria dei collaboratori (molto maggiore lo spettro dei reati, minori le caratteristiche richieste per le dichiarazioni).

Estendere un diritto compiutamente circoscritto e disciplinato in riferimento alla prima, quindi, non significa affatto creare un regime omogeneo rispetto alla seconda (ciò che si avrebbe se l’unica differenza fosse nella qualifica processuale del soggetto beneficiato: testimone anziché sottoposto a procedimento penale).

Deve concludersi, anzi, che la volontà di attuare un regime omologo (quanto ad estensione soggettiva) per le due categorie, sia viziata in partenza dalla diversità di presupposti che la legge ha individuato.

Va infine precisato che, quand’anche non mancasse il necessario presupposto legislativo, forme e modalità di conservazione del posto di lavoro non potrebbero essere definite per tutti i dipendenti pubblici con regolamento statale; al contrario, dovrebbero – come previsto per i collaboratori di giustizia – essere realizzate dai singoli ordinamenti degli enti e dalla contrattazione collettiva.

 

 

Roma, 11 novembre 2004